Questa storia, in cui tutto è possibile, inizia – o finisce – all’abbazia di
Pomposa, folgorante edificio del IX secolo, nel ferrarese, dove si dirama,
divorandosi, il Po. Affreschi e sculture, spesso arcani, incutono sacro terrore.
Qui pare sia stato redatto, nel XVII secolo, il De arte nihil credendi; dello
scrittore, Matteo Cnuzen, altrimenti detto Matthias Knutzen, predicatore
tedesco, ateo, si ignora la data di morte. Il testo – di cui non si ha altra
notizia – è custodito presso la Biblioteca Classense, “non è mai stato
pubblicato… ho potuto solo farne una copia a mano”, scrive l’autore. Un
fascicolo dal titolo analogo porta la firma di Geoffrey Vallée, anticlericale
estremista: in quel libello – titolato, in verità, La béatitude des Chrétiens ou
le Fléau de la foy – l’autore dimostra che la fede, fondata sull’ignoranza e sul
timore di Dio, riduce l’uomo a una bestia, a uno schiavo. Vallée fu arrestato,
impiccato e passato al rogo il 9 febbraio del 1574: aveva ventiquattro anni.
Il testo di Knutzen – che mesce, in cocktail micidiale, reminescenze di Lucrezio
e di Spinoza, di Garlandus Compotista e di Levi Smolinides, di Gregorio di Narek
e di Sabinus Serrat (faccio scoprire a voi chi di questi è un personaggio
fantomatico, fittizio) – è utilizzato dal poeta austriaco Raoul Schrott come
monito per un libro dal titolo emblematico, L’arte di non credere a nulla,
uscito in Germania, presso Hanser Verlag, dieci anni fa, tradotto ora da
Federico Italiano per Crocetti. I brani dell’incendiario pamphlet di Knutzen –
veri, verosimili, inventati? l’autore rifiuta spiegazioni – sono corrosivi,
perciò corroboranti. Ne cito alcuni:
> “sono avido se voglio tutto ciò che si può ottenere dalla vita – avere amici e
> allo stesso tempo stare solo? ciò che desidero è difficile da raggiungere –
> eppure una volta in mio possesso sono insoddisfatto come se avessi raggiunto
> nulla”;
> “sii come la neve che si scioglie: dal silenzio nascono i fiori – la lingua
> sia il loro bocciolo”;
> “tutto inizia con il sangue · inzuppati di sangue veniamo al mondo a testa in
> giù: tutto inizia con una separazione e in un mondo capovolto · avvinghiati a
> un seno non vediamo che oscurità: ora vivi amaro e cupo · da bambini
> scorrazziamo qui e là: e inquieti rimarremo · nella giovinezza ci dissolviamo
> sentendoci estranei: è solo un periodo di traviamento e confusione · con la
> vecchiaia la mente si annebbia: non aspettarti quindi la beatitudine da vecchi
> strampalati · così perplessi procediamo nelle tombe: senza riconoscere da
> nessuna parte un’anima o qualcosa di puro – solo imperfezione”
Siamo nei dintorni dell’atroce Albert Caraco più che in quelli dell’ardito
Zenone, il protagonista de L’opera al nero, il romanzo di Marguerite Yourcenar.
Nella prefazione, Schrott cita la Basilica di Sant’Apollinare Nuovo e il
Mausoleo di Galla Placidia, a Ravenna e il magnetico trattato De tribus
impostoribus, di cui si discute – senza traccia di testo – dal XIII secolo:
sarebbe piaciuto a Borges. I legami con il maestro argentino, però, finiscono
qui: le poesie di Schrott – affratellate ai violenti aforismi del fatidico
Knutzen – non hanno nulla dell’enciclopedica freddezza di Borges. Al contrario,
è la vita presente, quotidiana, quella convocata da Schrott: nei suoi testi ci
sono il pizzaiolo e lo stilita (“qualcuno disposto a stare sull’orlo del
precipizio”), la cassiera (“il mondo è fatto di cose standard/ che mangiamo ·
beviamo · trasformiamo in esistenza”), il macellaio (“siamo e diventiamo ciò che
mangiamo/ con gli occhi spalancati rivoltandoci al pungolo…/ carne trafitta in
via di macellazione verso l’assoluto”). L’arte di non credere a nulla è un libro
che dà credito alla carne, in crepitio di eros; è un libro pieno di corpi
esposti e di rapporti cannibali. In lo sguardo di dio si canta “la vita baciata
e gettata come un pezzo di pane”; in una poesia si imitano i toni di una single
– donna – fine quaranta; è bello il finale: “la dolcezza · sale tra le mie gambe
· orma d’animale selvatico”. In viaggi notturni – forse, il testo più bello –
c’è una donna “nuda sul sedile distesa/ lo sguardo rivolto verso il nord che
manca come casa”: “il compendio della nostra vaga esistenza/ tali scrupoli
appena li considera:/ nomina il desiderio · vuole vederlo divenire realtà/ ma
biasima ogni indifferenza”.
Il libro è sigillato – va da sé – dal motto riassuntivo del trattatello di
Knutzen: “l’assoluto opera nel nulla”. Quando l’autore – troppo intelligente per
cadere nella trappola del refuso – mi dice che il modello de L’arte di non
credere a nulla è la Vita nuova di Petrarca (ovviamente, è di Dante), so che mi
sta sfidando. D’altronde, Raoul Schrott è una delle menti più sfrenate e
sofisticate della letteratura tedesca: mi ricorda, per impeto, Werner Herzog.
Nato a Landeck, Tirolo, nel 1964 – ma ha detto, a volte, di essere nato a San
Paolo, in Brasile, quando non in nave – è cresciuto tra Tunisi e Zurigo; insegna
all’Università di Vienna, dopo aver insegnato a Napoli, a Berlino e a Tubinga,
insieme allo scrittore Christoph Ransmayr. Romanziere, poeta, studioso, Schrott
è a abituato alle imprese impossibili: ha scritto resoconti tratti dalle sue
esplorazioni nel deserto (Il deserto di Lop è stato pubblicato da La Grande
Illusion nel 2022); ha partecipato a una spedizione, supportata dall’Università
di Colonia, in luoghi del Ciad ancora inesplorati. Da ragazzo, ha studiato il
Dadaismo, è stato il segretario di Philippe Soupault, a Parigi; ha tradotto
Derek Walcott e Seamus Heaney, la Teogonia di Euripide e l’Epopea di Gilgamesh;
nel 2008 ha pubblicato la sua traduzione – sgargiante, a dire dei più –
dell’Iliade: la tesi secondo cui Omero fosse uno scriba greco al servizio degli
assiri, vissuto a Karatepe, in Cilicia, gli attirò critiche. Tra l’altro,
Schrott ha scritto romanzi audaci in immaginario, imprevedibili fin nel titolo
(uno di questi fa pressappoco, Racconto del vento, ovvero dell’artigliere
tedesco che circumnavigò il mondo una prima volta e poi una seconda e una terza
volta); ha vinto premi. Con Erste Erde (2016), libro di magnetica forza, ha
tentato di dire in versi la storia del mondo, dal Big Bang a oggi.
L’ultimo progetto – benché non strettamente letterario – è altrettanto
‘mostruoso’: l’“Atlante dei cieli stellati” (Atlas der Sternenhimmel),
pubblicato da Hanser lo scorso anno, raccoglie – dispiegandoli – diciassette
cieli; le costellazioni degli antichi egizi e degli aborigeni australiani, degli
Inuit, dei Tuareg e dei Boscimani. Si narra, così, la storia dell’uomo e di ogni
civiltà, a partire dal rapporto con gli astri. Quasi che il cielo sia una
bibbia, le stelle una scrittura piena di brusii, vocalizzi, grida.
Insomma, abbiamo preteso Raoul Schrott al dialogo.
Preliminari: esiste davvero il “Manuale dell’esistenza transitoria” o è frutto
della sua transitoria immaginazione?
Esiste? Tutto ciò che scriviamo e leggiamo – che sia romanzo, poesia o filosofia
– esiste: è il frutto della nostra immaginazione.
Come è nata l’idea di accostare le poesie a un trattato del XVII secolo? Qual è
stato il ‘metodo’ di costruzione del libro? Vedo, ad esempio, che le poesie non
sono disposte in ordine cronologico.
In sostanza, le poesie riferiscono di una visione atea della vita e dell’amore,
da prospettive differenti. Per me, poesia è un modo di pensare più concentrato e
compiuto: ecco perché tutti i miei libri in versi sono centrati su un tema – gli
hotel; il sublime; il sacro; l’assenza – e incorniciati da un saggio. Qui si
tratta, letteralmente, dell’arte di non credere a nulla. Per costruire un
contesto alle poesie la – sbalorditiva – breve storia dell’ateismo mi è parsa
più che appropriata.
La maggior parte delle poesie sono ritratti di individui che ostentano le loro
opinioni, plasmate dal lavoro che svolgono, dai desideri, dalle circostanze. È
una galleria di professioni (di cui ho incidentalmente dimenticato il maestro).
Sono raggruppate tematicamente, poi completate da alcuni versi tratti
dal Manuale dell’esistenza transitoria, per dare a ogni poesia un significato
ulteriore. Se crede, il modello è la Vita nuova di Petrarca (sic!).
Come costruisce le proprie poesie? Intendo: parte da un concetto, da un insieme
di parole che combaciano audacemente assieme, da una ‘scena’, da una idea
narrativa…
Tutti questi elementi concorrono: intuizione, esperienza, l’incontro con
qualcuno (il cassiere del supermercato che ho incontrato sul treno per Berlino
non smetteva più di parlare). Questi elementi consegnano, come diceva Valéry,
il vers donnés su cui poi la poesia si sviluppa in vers calculés. In queste
poesie, il calcolo provvede alle rime (comunque discrete, difficili da scovare).
Tuttavia, la parola in rima di rado ha a che fare con la parola con cui rima,
introduce un elemento imprevisto, un frammento del mondo in generale – così che
il procedere pensando deve fermarsi in stazioni diverse. Questo rende la
scrittura, almeno per me, uno stupore continuo.
Come penetra nel suo linguaggio la lingua delle origini, dei testi che ha
tradotto, Iliade, Gilgamesh, Teogonia?
La loro lingua non penetra nella mia. Tradurre quei testi, però, ha significato
comprendere la tradizione e approfondire il mestiere: per scrivere da quel
centro del presente.
Che senso ha, oggi, la poesia?
La poesia è la macchina di tutto ciò che è umano, individuale, soggettivo. Ci
pensi: i romanzi, in quanto finzione, sono menzogne realistiche (presentano una
verità in modo elegante e persuasivo, certo), narrazioni che si basano su trame
e personaggi plausibili. La poesia, invece, non può che essere veritiera;
esprime i pensieri e le emozioni più profonde: è autentica. Tutto il contrario
della plausibilità. Questo vale anche per le poesie peggiori, in cui non si
capisce un cazzo [in italiano, ndt], tanto sono autoreferenziali. Dunque:
autenticità. Inoltre: la poesia sincronizza le tre modalità cognitive
dell’essere: le immagini in cui pensiamo; il linguaggio con cui ci esprimiamo;
la musica – metro e ritmo – che corrisponde ai battiti del cuore, al ritmo del
respiro, al moto delle ciglia. Ditemi quale altra arte riesce a fare tutto
questo con così pochi mezzi!
Che rapporto esiste, a suo dire, oggi, tra poesia e storia, la poesia e
‘politica’?
Credo che la poesia sia a-storica, nella misura in cui esprime intuizioni senza
tempo (pur se fugaci), verità soggettive che nella loro individualità sono
sempre in contrasto con la storia come fenomeno di massa. La poesia è il rifugio
e l’espressione di tutto ciò che è umanamente possibile, pensabile,
sperimentabile in tutta la sua stranezza e bellezza, in tutta la sua assurdità,
in tutto il suo orrore. La letteratura è sempre a-politica e a-morale. Non si
preoccupa e non deve occuparsi delle ideologie e dell’etica di una comunità,
altrimenti diventerà agitprop, slogan, un manifesto, insomma. La letteratura – e
in particolar modo la poesia – deve esprimerci come individui, con tutte le
nostre emozioni e pensieri, positivi o negativi essi siano, senza vincoli,
liberi, per essere autenticamente veritiera. Almeno, così è sempre stato.
Mi racconti qualcosa del suo “Atlante dei cieli stellati”: come nasce il
progetto, perché, come si insinua nel suo lavoro poetico?
L’Atlante dei cieli stellati non ha a che fare con la mia scrittura. A parte la
visibile poesia che raffigurano le costellazioni, è un lavoro accademico: come
professore di letteratura comparata ho compiuto ricerche per rintracciare i
cieli stellati di diciassette diverse culture del pianeta. Benché l’Unesco li
abbia dichiarati patrimonio culturale immateriale dell’umanità, non sono mai
stati studiati in modo esauriente: le costellazioni, graficamente ricostruite;
il simbolismo e la sapienza che le accompagna; la storia della tradizione
astronomica che le spiega; i miti delle origini che narrano la creazione del
cielo e della terra, del sole, della luna, delle stelle. Ci sono voluti sette
anni di lavoro per ricostruire il cielo dei babilonesi e dei cinesi, degli inuit
e dei boscimani, degli inca e degli arabi, dei tahitiani e dei maori… ciò che
questa ricerca ha prodotto (con mio grande stupore) sono settantamila anni di
storia culturale di cui nessuno sapeva nulla.
*In copertina: Raoul Schrott in un ritratto fotografico di Barbara Seyr
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