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“L’assoluto opera nel nulla”. Dialogo con Raoul Schrott
Questa storia, in cui tutto è possibile, inizia – o finisce – all’abbazia di Pomposa, folgorante edificio del IX secolo, nel ferrarese, dove si dirama, divorandosi, il Po. Affreschi e sculture, spesso arcani, incutono sacro terrore. Qui pare sia stato redatto, nel XVII secolo, il De arte nihil credendi; dello scrittore, Matteo Cnuzen, altrimenti detto Matthias Knutzen, predicatore tedesco, ateo, si ignora la data di morte. Il testo – di cui non si ha altra notizia – è custodito presso la Biblioteca Classense, “non è mai stato pubblicato… ho potuto solo farne una copia a mano”, scrive l’autore. Un fascicolo dal titolo analogo porta la firma di Geoffrey Vallée, anticlericale estremista: in quel libello – titolato, in verità, La béatitude des Chrétiens ou le Fléau de la foy – l’autore dimostra che la fede, fondata sull’ignoranza e sul timore di Dio, riduce l’uomo a una bestia, a uno schiavo. Vallée fu arrestato, impiccato e passato al rogo il 9 febbraio del 1574: aveva ventiquattro anni.  Il testo di Knutzen – che mesce, in cocktail micidiale, reminescenze di Lucrezio e di Spinoza, di Garlandus Compotista e di Levi Smolinides, di Gregorio di Narek e di Sabinus Serrat (faccio scoprire a voi chi di questi è un personaggio fantomatico, fittizio) – è utilizzato dal poeta austriaco Raoul Schrott come monito per un libro dal titolo emblematico, L’arte di non credere a nulla, uscito in Germania, presso Hanser Verlag, dieci anni fa, tradotto ora da Federico Italiano per Crocetti. I brani dell’incendiario pamphlet di Knutzen – veri, verosimili, inventati? l’autore rifiuta spiegazioni – sono corrosivi, perciò corroboranti. Ne cito alcuni: > “sono avido se voglio tutto ciò che si può ottenere dalla vita – avere amici e > allo stesso tempo stare solo? ciò che desidero è difficile da raggiungere – > eppure una volta in mio possesso sono insoddisfatto come se avessi raggiunto > nulla”; > “sii come la neve che si scioglie: dal silenzio nascono i fiori – la lingua > sia il loro bocciolo”; > “tutto inizia con il sangue · inzuppati di sangue veniamo al mondo a testa in > giù: tutto inizia con una separazione e in un mondo capovolto · avvinghiati a > un seno non vediamo che oscurità: ora vivi amaro e cupo · da bambini > scorrazziamo qui e là: e inquieti rimarremo · nella giovinezza ci dissolviamo > sentendoci estranei: è solo un periodo di traviamento e confusione · con la > vecchiaia la mente si annebbia: non aspettarti quindi la beatitudine da vecchi > strampalati · così perplessi procediamo nelle tombe: senza riconoscere da > nessuna parte un’anima o qualcosa di puro – solo imperfezione” Siamo nei dintorni dell’atroce Albert Caraco più che in quelli dell’ardito Zenone, il protagonista de L’opera al nero, il romanzo di Marguerite Yourcenar. Nella prefazione, Schrott cita la Basilica di Sant’Apollinare Nuovo e il Mausoleo di Galla Placidia, a Ravenna e il magnetico trattato De tribus impostoribus, di cui si discute – senza traccia di testo – dal XIII secolo: sarebbe piaciuto a Borges. I legami con il maestro argentino, però, finiscono qui: le poesie di Schrott – affratellate ai violenti aforismi del fatidico Knutzen – non hanno nulla dell’enciclopedica freddezza di Borges. Al contrario, è la vita presente, quotidiana, quella convocata da Schrott: nei suoi testi ci sono il pizzaiolo e lo stilita (“qualcuno disposto a stare sull’orlo del precipizio”), la cassiera (“il mondo è fatto di cose standard/ che mangiamo · beviamo · trasformiamo in esistenza”), il macellaio (“siamo e diventiamo ciò che mangiamo/ con gli occhi spalancati rivoltandoci al pungolo…/ carne trafitta in via di macellazione verso l’assoluto”). L’arte di non credere a nulla è un libro che dà credito alla carne, in crepitio di eros; è un libro pieno di corpi esposti e di rapporti cannibali. In lo sguardo di dio si canta “la vita baciata e gettata come un pezzo di pane”; in una poesia si imitano i toni di una single – donna – fine quaranta; è bello il finale: “la dolcezza · sale tra le mie gambe · orma d’animale selvatico”. In viaggi notturni – forse, il testo più bello – c’è una donna “nuda sul sedile distesa/ lo sguardo rivolto verso il nord che manca come casa”: “il compendio della nostra vaga esistenza/ tali scrupoli appena li considera:/ nomina il desiderio · vuole vederlo divenire realtà/ ma biasima ogni indifferenza”.  Il libro è sigillato – va da sé – dal motto riassuntivo del trattatello di Knutzen: “l’assoluto opera nel nulla”. Quando l’autore – troppo intelligente per cadere nella trappola del refuso – mi dice che il modello de L’arte di non credere a nulla è la Vita nuova di Petrarca (ovviamente, è di Dante), so che mi sta sfidando. D’altronde, Raoul Schrott è una delle menti più sfrenate e sofisticate della letteratura tedesca: mi ricorda, per impeto, Werner Herzog. Nato a Landeck, Tirolo, nel 1964 – ma ha detto, a volte, di essere nato a San Paolo, in Brasile, quando non in nave – è cresciuto tra Tunisi e Zurigo; insegna all’Università di Vienna, dopo aver insegnato a Napoli, a Berlino e a Tubinga, insieme allo scrittore Christoph Ransmayr. Romanziere, poeta, studioso, Schrott è a abituato alle imprese impossibili: ha scritto resoconti tratti dalle sue esplorazioni nel deserto (Il deserto di Lop è stato pubblicato da La Grande Illusion nel 2022); ha partecipato a una spedizione, supportata dall’Università di Colonia, in luoghi del Ciad ancora inesplorati. Da ragazzo, ha studiato il Dadaismo, è stato il segretario di Philippe Soupault, a Parigi; ha tradotto Derek Walcott e Seamus Heaney, la Teogonia di Euripide e l’Epopea di Gilgamesh; nel 2008 ha pubblicato la sua traduzione – sgargiante, a dire dei più – dell’Iliade: la tesi secondo cui Omero fosse uno scriba greco al servizio degli assiri, vissuto a Karatepe, in Cilicia, gli attirò critiche. Tra l’altro, Schrott ha scritto romanzi audaci in immaginario, imprevedibili fin nel titolo (uno di questi fa pressappoco, Racconto del vento, ovvero dell’artigliere tedesco che circumnavigò il mondo una prima volta e poi una seconda e una terza volta); ha vinto premi. Con Erste Erde (2016), libro di magnetica forza, ha tentato di dire in versi la storia del mondo, dal Big Bang a oggi.  L’ultimo progetto – benché non strettamente letterario – è altrettanto ‘mostruoso’: l’“Atlante dei cieli stellati” (Atlas der Sternenhimmel), pubblicato da Hanser lo scorso anno, raccoglie – dispiegandoli – diciassette cieli; le costellazioni degli antichi egizi e degli aborigeni australiani, degli Inuit, dei Tuareg e dei Boscimani. Si narra, così, la storia dell’uomo e di ogni civiltà, a partire dal rapporto con gli astri. Quasi che il cielo sia una bibbia, le stelle una scrittura piena di brusii, vocalizzi, grida.  Insomma, abbiamo preteso Raoul Schrott al dialogo.  Preliminari: esiste davvero il “Manuale dell’esistenza transitoria” o è frutto della sua transitoria immaginazione? Esiste? Tutto ciò che scriviamo e leggiamo – che sia romanzo, poesia o filosofia – esiste: è il frutto della nostra immaginazione.  Come è nata l’idea di accostare le poesie a un trattato del XVII secolo? Qual è stato il ‘metodo’ di costruzione del libro? Vedo, ad esempio, che le poesie non sono disposte in ordine cronologico. In sostanza, le poesie riferiscono di una visione atea della vita e dell’amore, da prospettive differenti. Per me, poesia è un modo di pensare più concentrato e compiuto: ecco perché tutti i miei libri in versi sono centrati su un tema – gli hotel; il sublime; il sacro; l’assenza – e incorniciati da un saggio. Qui si tratta, letteralmente, dell’arte di non credere a nulla. Per costruire un contesto alle poesie la – sbalorditiva – breve storia dell’ateismo mi è parsa più che appropriata.  La maggior parte delle poesie sono ritratti di individui che ostentano le loro opinioni, plasmate dal lavoro che svolgono, dai desideri, dalle circostanze. È una galleria di professioni (di cui ho incidentalmente dimenticato il maestro). Sono raggruppate tematicamente, poi completate da alcuni versi tratti dal Manuale dell’esistenza transitoria, per dare a ogni poesia un significato ulteriore. Se crede, il modello è la Vita nuova di Petrarca (sic!). Come costruisce le proprie poesie? Intendo: parte da un concetto, da un insieme di parole che combaciano audacemente assieme, da una ‘scena’, da una idea narrativa… Tutti questi elementi concorrono: intuizione, esperienza, l’incontro con qualcuno (il cassiere del supermercato che ho incontrato sul treno per Berlino non smetteva più di parlare). Questi elementi consegnano, come diceva Valéry, il vers donnés su cui poi la poesia si sviluppa in vers calculés. In queste poesie, il calcolo provvede alle rime (comunque discrete, difficili da scovare). Tuttavia, la parola in rima di rado ha a che fare con la parola con cui rima, introduce un elemento imprevisto, un frammento del mondo in generale – così che il procedere pensando deve fermarsi in stazioni diverse. Questo rende la scrittura, almeno per me, uno stupore continuo.   Come penetra nel suo linguaggio la lingua delle origini, dei testi che ha tradotto, Iliade, Gilgamesh, Teogonia? La loro lingua non penetra nella mia. Tradurre quei testi, però, ha significato comprendere la tradizione e approfondire il mestiere: per scrivere da quel centro del presente.  Che senso ha, oggi, la poesia? La poesia è la macchina di tutto ciò che è umano, individuale, soggettivo. Ci pensi: i romanzi, in quanto finzione, sono menzogne realistiche (presentano una verità in modo elegante e persuasivo, certo), narrazioni che si basano su trame e personaggi plausibili. La poesia, invece, non può che essere veritiera; esprime i pensieri e le emozioni più profonde: è autentica. Tutto il contrario della plausibilità. Questo vale anche per le poesie peggiori, in cui non si capisce un cazzo [in italiano, ndt], tanto sono autoreferenziali. Dunque: autenticità. Inoltre: la poesia sincronizza le tre modalità cognitive dell’essere: le immagini in cui pensiamo; il linguaggio con cui ci esprimiamo; la musica – metro e ritmo – che corrisponde ai battiti del cuore, al ritmo del respiro, al moto delle ciglia. Ditemi quale altra arte riesce a fare tutto questo con così pochi mezzi! Che rapporto esiste, a suo dire, oggi, tra poesia e storia, la poesia e ‘politica’? Credo che la poesia sia a-storica, nella misura in cui esprime intuizioni senza tempo (pur se fugaci), verità soggettive che nella loro individualità sono sempre in contrasto con la storia come fenomeno di massa. La poesia è il rifugio e l’espressione di tutto ciò che è umanamente possibile, pensabile, sperimentabile in tutta la sua stranezza e bellezza, in tutta la sua assurdità, in tutto il suo orrore. La letteratura è sempre a-politica e a-morale. Non si preoccupa e non deve occuparsi delle ideologie e dell’etica di una comunità, altrimenti diventerà agitprop, slogan, un manifesto, insomma. La letteratura – e in particolar modo la poesia – deve esprimerci come individui, con tutte le nostre emozioni e pensieri, positivi o negativi essi siano, senza vincoli, liberi, per essere autenticamente veritiera. Almeno, così è sempre stato.  Mi racconti qualcosa del suo “Atlante dei cieli stellati”: come nasce il progetto, perché, come si insinua nel suo lavoro poetico? L’Atlante dei cieli stellati non ha a che fare con la mia scrittura. A parte la visibile poesia che raffigurano le costellazioni, è un lavoro accademico: come professore di letteratura comparata ho compiuto ricerche per rintracciare i cieli stellati di diciassette diverse culture del pianeta. Benché l’Unesco li abbia dichiarati patrimonio culturale immateriale dell’umanità, non sono mai stati studiati in modo esauriente: le costellazioni, graficamente ricostruite; il simbolismo e la sapienza che le accompagna; la storia della tradizione astronomica che le spiega; i miti delle origini che narrano la creazione del cielo e della terra, del sole, della luna, delle stelle. Ci sono voluti sette anni di lavoro per ricostruire il cielo dei babilonesi e dei cinesi, degli inuit e dei boscimani, degli inca e degli arabi, dei tahitiani e dei maori… ciò che questa ricerca ha prodotto (con mio grande stupore) sono settantamila anni di storia culturale di cui nessuno sapeva nulla.  *In copertina: Raoul Schrott in un ritratto fotografico di Barbara Seyr L'articolo “L’assoluto opera nel nulla”. Dialogo con Raoul Schrott proviene da Pangea.
November 18, 2025 / Pangea
Gli antichi non raccontavano favole. Il mito di Troia e il sito di Hisarlık
A scuola si ripete spesso che la guerra di Troia è soltanto un episodio del mito, che non si sarebbe mai svolto nella realtà storica, o almeno non in quelle dimensioni e certamente non a causa di una donna. Con un titolo un po’ provocatorio, preso in prestito dal più evemerista degli evemeristi, Mauro Biglino, in questo articolo si cercherà di fare chiarezza. Già gli antichi avevano notato le numerose incongruenze dei poemi omerici, che così possiamo riassumere: il re dei Paflagoni Pilemene prima muore in battaglia (Iliade V, 576) e poi riappare in lutto per il figlio morto (XIII, 643-658); nel canto IX ai vv. 182-198 c’è una serie di verbi al duale che però si riferisce a tre personaggi (Odisseo, Aiace e Fenice); nella notte che è oggetto dei canti IX e X Odisseo cena tre volte e si tengono due consigli notturni dopo che il poeta ha mandato a dormire i protagonisti; Agamennone regna ora come primus inter pares, ora come un signore assoluto miceneo; il re dell’Argolide è ora Agamennone, ora Diomede; la Dolonia (canto X) è un episodio isolato e del tutto insignificante per la narrazione, peraltro con notevoli problemi esegetici.  Nonostante ciò, nessuno mise mai in dubbio che il conflitto fosse realmente avvenuto in un’epoca remota della storia greca, anche se la tradizione storiografica ci fornisce diverse possibili date per la guerra di Troia, che oscillano tra il 1344 e il 1150 a. C. Quella divenuta canonica è la datazione di Eratostene (1194-1184 a. C.), mentre Erodoto riferisce che Omero visse 400 anni prima di lui e che la guerra avvenne 400 anni prima di Omero, quindi approssimativamente intorno al 1250 a. C. Come noto, la tesi della storicità della guerra di Troia ricevette importanti conferme dalle scoperte del tedesco Heinrich Schliemann, che nel 1868 raggiunse il sito di Hisarlık e nell’aprile 1870 diede inizio agli scavi. A dire il vero, il sito gli era stato indicato da Frank Calvert, che vi aveva condotto degli scavi esplorativi tra il 1863 e il 1865, ma all’inglese mancavano le finanze, la fantasia e le capacità narrative di Schliemann, che finì per oscurarne la figura. Va detto anche che dell’antica città non si era mai persa la memoria: i più ritenevano che il sito antico sorgesse al di sotto della città romana di Ilium (Troia IX, I secolo a. C.-IV secolo d. C.) e della città greca di Ἴλιον (Troia VIII, 950-I secolo a. C.). In età bizantina, al tempo dell’imperatore Costantino VII Porfirogenito (913-959), Ilium era stata una piccola sede arcivescovile e, simbolicamente, l’ultimo a farvi visita era stato il sultano Maometto II, poco dopo la caduta di Costantinopoli, quasi a simboleggiare la rivincita dell’Asia sulla Grecia. Determinato a ritrovare a tutti i costi la città omerica e convinto che quest’ultima si dovesse trovare necessariamente al di sotto di almeno altri tre strati (quello romano, quello greco e quello lidio dell’epoca di Omero), Schliemann scambiò però le mura dell’Età del Bronzo per mura di età classica e ordinò la distruzione dei primi nove metri della collina di Hisarlık, nonostante gli inviti a una maggiore prudenza da parte di Calvert. Proprio quand’era sul punto di abbandonare l’impresa, il 31 maggio 1873 Schliemann s’imbatté in quello che ribattezzò “tesoro di Priamo”. Soddisfatto del proprio lavoro, l’anno successivo pubblicò i risultati dei suoi scavi e partì alla volta di Micene. Malgrado l’enfasi con la quale Schliemann presentò le sue scoperte, nulla era stato dimostrato: come si è detto, dell’antico sito di Troia non si era mai persa la memoria, anche se la sua precisa collocazione era ancora ignota. Generazioni di conquistatori avevano fatto visita al sito: Serse, Alessandro Magno, Cesare, Adriano, Caracalla e molti altri, ma non mancava chi, come Erodoto e Strabone, dubitava del racconto omerico. Il fatto che fosse stata scoperta una città di nome Troia non provava che la guerra si fosse effettivamente svolta lì. Come se non bastasse, quando tornò a Hisarlık, nel 1878 e soprattutto nel 1882 e nel 1890, Schliemann si rese conto che la città che aveva trovato non poteva coincidere con quella omerica, che doveva invece essere identificata in Troia VI (1750-1300 a. C.), come proposto dal suo assistente Wilhelm Dörpfeld, che lo affiancò negli ultimi scavi. Il tesoro di Priamo in realtà era di mille anni più antico (Troia II, 2550-2300 a. C. circa). Fu una terribile constatazione: per ironia della sorte, nella sua affannosa ricerca della città omerica, Schliemann aveva distrutto gran parte dell’evidenza archeologica di quel periodo! Ammalatosi di tumore, mentre programmava una nuova stagione di scavi alla ricerca di una città bassa, Schliemann morì a Napoli nei pressi di piazza della Carità, durante uno dei suoi numerosi soggiorni partenopei. Grazie al sostegno finanziario della vedova Sophia e del kaiser Guglielmo II, Dörpfeld poté continuare i lavori per altre due stagioni (1893-1894) e alla fine riportò alla luce le mura dell’Età del Bronzo (quelle che Schliemann aveva scambiato per mura di età classica). Si trattava di mura imponenti: erano alte nove metri, in blocchi calcarei squadrati con elevato in mattoni crudi, presentavano torri imponenti e cinque porte, la più maestosa delle quali viene identificata da coloro che credono al racconto omerico con le porte Scee. Curiosamente, il settore più debole delle mura è quello settentrionale, proprio come nell’Iliade; inoltre, come si può notare dalla foto, le mura sono inclinate, il che potrebbe spiegare il fatto che nell’Iliade Patroclo cerchi per ben quattro volte di scalarle. Si tratta, ovviamente, di semplici suggestioni. Troia VI: tratto di mura e torre di possibile influsso ittita vicino alla Porta Est (primo esempio conosciuto di mura a dente di sega); sulla terrazza adiacente, case di Troia VIIa Tra il 1932 e il 1938, grazie al sostegno dello stesso Dörpfeld, i lavori ripresero sotto la direzione di Carl Blegen, dell’università di Cincinnati, le cui ricerche, però, erano viziate da una sorta di bias di conferma: infatti, egli era assolutamente convinto della storicità della guerra di Troia. Blegen notò il crollo delle torri e la caduta delle mura fuori asse e giunse alla conclusione che Troia VIh era stata distrutta da un terremoto che possiamo datare ai primi decenni del XIII secolo a. C. Secondo lo storico austriaco Fritz Schachermeyr, la leggenda del cavallo di Troia conserverebbe proprio la memoria di questa catastrofe: il cavallo sarebbe soltanto una metafora di Poseidone, dio del mare e, appunto, dei terremoti. Falsa è, invece, la teoria di Francesco Tiboni secondo la quale il cavallo di Troia sarebbe stato soltanto una nave fenicia con protome equina: rappresentazioni del cavallo di Troia sono attestate nell’iconografia sin dall’VIII secolo a. C. Se Troia VIh era stata distrutta da un terremoto, la città di Omero non poteva essere che lo strato successivo, Troia VIIa (1300-1180 a. C.). Blegen notò che questo strato presentava una maggiore densità abitativa, con muri divisori tra le case, e interpretò questo fatto come la prova di un assedio prolungato. Ciò non è affatto scontato: le strutture di Troia VIIa potrebbero essere interpretate anche come baracche temporanee per ovviare alle distruzioni causate dal terremoto. Del resto, ad oggi le uniche possibili prove di scontri sono alcuni resti umani nelle strade, tre punte di frecce, due rinvenute nella cittadella e una nella città bassa, e una punta di lancia rinvenuta nell’area occidentale. Una delle punte di frecce trovate nella cittadella potrebbe essere di fabbricazione micenea, ma neppure questa può essere considerata prova di un evento bellico: potrebbe trattarsi di una freccia caduta da una faretra o abbandonata! Infine, Troia VIIa mostra chiari segnali di un incendio, ma tale incendio potrebbe anche essere attribuito a una catastrofe naturale. La nuova stagione di scavi, su scala internazionale, è stata inaugurata nel 1988 da Manfred Korfmann, dell’università di Tubinga, e ha coinvolto più di 350 accademici da oltre venti Paesi. Obiettivo principale di Korfmann era l’individuazione della città bassa. Infatti, la cittadella di Troia ha un diametro di non più di 200m e copre un’area di appena due ettari: essa avrebbe potuto ospitare al massimo qualche centinaio di persone. Come si è detto, già Schliemann aveva in programma lo scavo della fertile piana circostante la cittadella, ma la morte glielo aveva impedito e Dörpfeld non era riuscito a ottenere risultati definitivi. Secondo Korfmann, nei livelli che ci interessano (VI e VIIa) la città bassa si sarebbe estesa per circa 20 ettari e complessivamente Troia avrebbe avuto una popolazione compresa tra 4000 e 10000 abitanti, o forse anche più se si include la popolazione che potrebbe aver vissuto al di fuori del perimetro della città, in aree rurali facenti parte del regno. Nel XIII secolo a. C., il perimetro della città sarebbe stato protetto da un muro in mattoni crudi e da due fossati con una palizzata, il primo 400m a sud della cittadella e il secondo altri 100-150m più a sud.  Nel 2001, Korfmann presentò i risultati delle sue ricerche al grande pubblico in un’esposizione intitolata Troia. Traum und Wirklichkeit, nella quale, tra le altre cose, veniva mostrata una ricostruzione completa della città bassa. Fu proprio questo modello ad attirare le aspre critiche di Frank Kolb, suo collega presso l’università di Tubinga. Purtroppo, tale polemica travalicò i confini dell’accademia: intervistato dal Berliner Morgenpost, Kolb accusò Korfmann di ingannare il pubblico con ricostruzioni fantasiose e lo ribattezzò “il von Däniken dell’archeologia” (Erich von Däniken è un celebre pseudoarcheologo sostenitore della teoria degli antichi astronauti, ndr). Secondo Kolb, non ci sarebbe alcuna evidenza dell’esistenza di una città bassa, i due fossati potrebbero essere dei canali usati a scopo agricolo e, calcolando una popolazione di 100/200 abitanti per ettaro, se si ipotizzasse un’area di 11-15 ettari si arriverebbe al massimo a 1000-3000 abitanti. Per Kolb, Troia non presenta alcuna affinità con siti come Efeso e Mileto, è priva di edifici monumentali e di una pianificazione stradale e assomiglia più a un centro protourbano isolato che a una città vera e propria (la ceramica importata è solo l’1%!).  Mentre Schliemann e Blegen erano stati criticati per la loro eccessiva fiducia nel racconto omerico, paradossalmente Kolb criticò Korfmann proprio facendo ricorso al cieco cantore. La città ricostruita da Korfmann – dice Kolb – non ha nulla della monumentalità dell’alta rocca di Priamo: l’edificio più imponente, la Pillar House di Blegen, non ha nulla a che vedere con le sessanta stanze del palazzo descritto in Iliade VI, 242-249. Inoltre, essa presenta due cinte murarie, mentre quella omerica ne ha solo una. Infine, la città di Korfmann ha una vocazione commerciale, mentre quella omerica è abitata da allevatori, pastori e costruttori, non da commercianti. Come si può vedere, si tratta di una tesi facilmente smontabile: Omero è pur sempre un poeta, non un archeologo, e si può sempre ipotizzare che alla sua epoca il muro in mattoni crudi della città bassa fosse crollato. Questo eccessivo scetticismo, unito con la volontà di spiegare la realtà archeologica di Hisarlık attraverso Omero, si è imposto nell’immaginario collettivo e ha dato adito alle teorie più strampalate: ex-ingegneri nucleari si sono improvvisati archeologi e ci hanno spiegato che queste incongruenze sono facilmente risolvibili se si sposta la cittadella di Priamo 3000 km più a nord e nel XVIII secolo a. C., a Toija, in Finlandia. Un abbaglio culturale collettivo, quello generato da Omero nel Baltico di Felice Vinci, che non ha risparmiato illustri classicisti e accademici, primi tra tutti Rosa Calzecchi Onesti e Umberto Eco (quandoque bonus dormitat Ecus). Tornando a questioni più serie, la ricerca successiva ha dimostrato, invece, che questo scetticismo era del tutto ingiustificato. Tra il 15 e il 16 febbraio 2002, l’università di Tubinga organizzò un simposio dal titolo The Meaning of Troy in the Late Bronze Age, con la partecipazione di 13 relatori, che giunsero alla conclusione che i dati di Korfmann erano in larga misura validi. La scarsità di evidenze archeologiche per la città bassa è dovuta all’eccezionalità delle condizioni del sito di Hisarlık, che è stato in gran parte danneggiato dall’erosione – come del resto è avvenuto anche alle fasi preistoriche – e all’asportazione di materiali in età ellenistica e romana. Del resto, meno del 5% del sito è stato scavato! Pertanto, la presenza di una città bassa può essere solamente dedotta sulla base della presenza di ceramica al di fuori della cittadella nei periodi VI e VIIa e anche sulla base di un semplice argomento logico e contrario: l’idea che Troia rappresenti soltanto una residenza aristocratica non può essere sostenuta perché rappresenterebbe un unicum a livello archeologico, laddove il sistema di fortificazioni ricostruito da Korfmann, con fossato, cinta muraria esterna e muro principale, è il più frequente del mondo antico, dall’Età del Bronzo fino all’età bizantina! Negli studi più recenti, si ipotizza che la città bassa occupasse un’area compresa tra 25 e 35 ettari, con circa 5000-6000 abitanti, dimensioni del tutto compatibili con i centri micenei e con città ittite di medie dimensioni come Gordion, Alişar, Kuşaklı/Šarišša, Beycesultan e la città-Stato portuale di Ugarit, il che ne farebbe una potenza regionale. L’idea che i due fossati avessero uno scopo agricolo non è più sostenibile, anche se è stato dimostrato che essi non sono contemporanei, ma risalgono a due fasi diverse, rispettivamente VI e VIIa. A Korfmann è succeduto il collega Pernicka, dal 2006 al 2012, poi Rüstem Aslan dal 2014. Quest’ultimo ha riportato alla luce un ulteriore livello precedente a tutti gli altri, Troia 0 (3500-3000 a. C.). Complessivamente, sono stati riportati alla luce undici diversi livelli, suddivisi a loro volta in oltre cinquanta fasi: Troia 0 (3500-3000 a. C.), Troia I (3000-2550 a. C.), Troia II (2550-2300 a. C.), Troia III (2300-2200 a. C.), Troia IV (2200-2000 a. C.), Troia V (2000-1750 a. C.), Troia VI (1750-1300 a. C.), Troia VIIa (1300-1180 a. C.), Troia VIIb (1180-1000 a. C.), Troia VIII (= Ἴλιον, 950-I secolo a. C.), Troia IX (I secolo a. C.- IV secolo d. C.) e Troia X (dopo il IV secolo d. C.). Christian Allasino  *In copertina: Henry Fuseli, Frammenti dall’Iliade, da un quaderno di schizzi L'articolo Gli antichi non raccontavano favole. Il mito di Troia e il sito di Hisarlık proviene da Pangea.
March 29, 2025 / Pangea