In Lacrimae rerum (Einaudi, 2025) Patrizia Valduga scrive alcune strofe di
sfinitezza e altre di battaglia. Battaglia civile, e poetica. “Ma ho scritto
tutto. Ho chiuso la partita” dice uno dei suoi versi, perché Valduga sembra
davvero prepararsi non soltanto al silenzio ma anche alla propria fine, alla
morte, fino a fantasticare sulla bara che conterrà il suo cadavere:
> “Ma dentro la mia scatola di legno
> avrò sostegno? avrò qualche sostegno?”
Nei versi iniziali della raccolta però la sua rabbia civile e poetica si fa
fuoco e nerbo e combatte lo “stermino che non trova fine,/ tra terra e cielo
senza più confine,/ tra terra e corpi e corpi tra rovine,/ tra cielo e corpi
fusi senza fine”. Patrizia Valduga si riferisce allo scempio di Gaza.
Nelle pagine finali del libriccino, in una serie di note intitolate Quasi
un’appendice, riporta un articolo del 2002 e uno del 2003, apparsi entrambi su
“la Repubblica”; nel primo scriveva che “di tutti gli appelli alla ragione, al
buon senso, all’umanità e alla giustizia, Sharon e il suo esercito se ne fotte
[…]. Si edificherà la pace sui campi concimati dalla carne umana e dalla
cenere?”; nel secondo attaccava Bush e la guerra degli Stati Uniti contro l’Iraq
di Saddam Hussein:
> “L’ho visto Bush che inneggia alla vittoria, che aizza in una perfetta
> scenografia hollywoodiana gli spiriti marziali dei suoi guerrieri, fieri di
> essere arruolati sotto le insegne della morte.”
Erano tempi di tenebra. Lo sono ancora, in misura anche maggiore. Patrizia
Valduga ha capito o sentito di non poter tacere e per lei non tacere significa
scrivere. Scrivere versi.
La poesia può poco contro il male, ma ciò che può non è vano. La poesia può
gridare nel presente ciò che il presente – l’attualità, la politica – stenta a
capire o ad ammettere. Il poeta può farsi non soltanto testimone del proprio
tempo ma anche difensore e giustiziere di ciò che in noi permane di umano di
fronte all’orrore tracotante dei potenti e ai loro soprusi. In questo senso il
poeta è davvero un essere sacro, e anarchico. Il poeta deve parlare ai cuori dei
puri e dei ribelli che in futuro – nel mondo prossimo che verrà, se verrà –
malediranno il male. Che non vorranno assolverlo o ripeterlo.
“Il governo di Israele ha assassinato più di sessantamila palestinesi” scrive
Patrizia Valduga nella nota alla parola sterminio, parola che tanto ha fatto
discutere i maîtres à penser dei salotti occidentali. “È uno sterminio”,
esordisce infatti il suo Lacrimae rerum, e il titolo riprende un’espressione
dell’Eneide, “lacrime delle cose”, o, nella traduzione che riporta Valduga
(Einaudi, 2012), dei “fatti”. Enea – annota Valduga – guarda le pitture che
hanno per oggetto la guerra di Troia e si commuove, scoppia in lacrime. L’eroe
piange e il poeta piange con lui. Anche la storia umana si dispera, e noi con
essa.
Patrizia Valduga può essere definita una poetessa sia erotica che civile. Molti
versi di Lacrimae rerum sono personali, d’amore, di solitudine, di sfinitezza,
di vecchiaia, mentre altri ricordano il suo amato Giovanni Raboni. Il suo
verseggiare è sempre chirurgicamente preciso e energico. Anche per questa
ragione le sue sono spesso strofe di battaglia e di passione.
“Ma adesso servono resurrezioni” urla la poetessa, “non me, non più me: leggete
Raboni!” E già qualche anno fa, in Belluno (Einaudi, 2019), Valduga chiedeva in
versi al sindaco di Milano e al presidente della Repubblica Mattarella di
intitolare una via al poeta che era stato il suo compagno di vita e di poesia.
“Raboni” ribadiva “è fra i più grandi in ogni aspetto:/ è un patrimonio
dell’umanità./ Intitolategli il suo Lazzaretto/ in nome di giustizia e verità!”
Tuttavia la migliore Valduga civile è quella di Corsia degli incurabili, un atto
unico del 1996 ora raccolto in Prima antologia. Ecco due terzine esemplari e
ancora attualissime:
“Ahi! serva Italia ancora coi fascisti,
e con quell’imbroglione da operetta,
ladruncolo lacchè dei tangentisti!
Le tivù ci hanno fatto l’incantesimo…
Se non scarica il cielo una saetta,
tutti servi del secolo ventesimo!”
In Lacrimae rerum – a tratti – il suo orrore e il suo sdegno per le carneficine
in Palestina hanno la stessa forza indoma dei suoi versi migliori.
Il poeta può poco contro il male, ma ciò che può è sacro. Anche di fronte
all’orrore, anche di fronte alla sua stessa morte.
Edoardo Pisani
*In copertina: Patrizia Valduga in un ritratto fotografico di Renzo Chiesa
L'articolo Ai cuori dei puri e dei ribelli. Leggendo le ultime poesie di
Patrizia Valduga proviene da Pangea.