Scritti o verbali, la sciatteria linguistica e l’analfabetismo di ritorno sono
come la calunnia della cavatina famosa: iniziano in sordina, montano, si
espandono e finalmente producono «un’esplosione – Come un colpo di cannone, –
Come un colpo di cannone, – Un tremuoto, un temporale, – Un tumulto generale –
Che fa l’aria rimbombar».
C’è però una differenza cruciale: mentre spesso calunnia calunniatori e
calunniati, proprio come il temporale, passano, i disastri linguistici restano e
si aggravano, e più che da Sterbini e Rossini, dovremmo toglier da un trattato
d’oncologia o dal Dsm.
Ora isolerò alcuni modi di esprimersi ormai cuciti a doppio fil di ferro sulle
lingue degli italiani, che tali possono essere definiti soltanto in modo
residuale e anagrafico. Li trascelgo, questi macelli, in modo quasi aleatorio e
assai parzialmente: ma a ogni buon conto avremo, con dovizia e tristizia, la
misura della sciagura.
Iniziamo stappando una bottiglia di bollicine.
Sino a non gran tempo addietro ne avremmo sturata una di spumante, ovvero di
vino frizzante o mosso, magari di champagne (sciampagna, pei puristi vecchio
stile). Gli astemii o chi avesse dovuto guidare si sarebbero contentati d’acqua
gassata, o gasata, o frizzante. E siccome fa male bere senza mangiare, sarà
nostro piacere comandare un dolcino, che non è il medievale frate chiliasta, ma,
a esempio, una pannina cotta o, per esser più rigorosi, una pannacottina, come
ho sentito dire, lo giuro, da un pasticcere (o pasticciere: è davvero lo
stesso), per giunta di toschi natali. Ahi Guido! Ahi Cino! Ahi Cecco! E s’i’
fosse foco…
Che sbadato, però. Ho scordato d’annunciare che in precedenza la “bollicina”
serviva di accompagnamento a una pietanza (parola, quest’ultima, definitivamente
sostituita con «piatto», che è poi aggettivo perfettissimo per il linguaggio
attuale), una pietanza, dicevo, di carnina, guarnita con del
succulento prosciuttino e un po’ piccantina(doppietta!) e contorno vegetale. Ma,
o disdetta!, essendo indaffarato a sgorbiare per questo articolo ho dovuto
ripiegare al supermercato e acquistare, leggo sul tubo, una «Salsina per
le verdurine», che rammenta l’omogeneizzato.
A soccorso di chi avesse trascurate le scuole alte e ignorasse o avesse
dimenticato il significato di «frizzante» o «gassata», si precipita un’azienda
imbottigliatrice che tosto ha modificata l’etichetta: un tempo scriveva «Acqua
gassata», ora «Tante bollicine». Non ne faccio il nome per ovvie ragioni, ma vi
assicuro che esiste.
Avanti di sorbire un corroborante caffettino o magari un ginsenghino (ho sentita
anche questa), arrestiamoci un istante ché il pasto si sta facendo greve assai,
e «tra noi parliamo da buoni amici», come invita Scarpia la buona Floria Tosca
offrendole «vin di Spagna» che ignoro se fosse con o senza “bollicine”.
Quand’ero balilla gl’insegnanti e anche qualche adulto di casa, non per forza
laureati alla Normale summa cum laude, ti fulminavano udendo implorare «un
attimino»; e quanti lazzi contro le casalinghe che impetravano «un aiutino,
signor Mike!». Dire e scrivere «tante bollicine» e «pannacottina», oltre a fare
esteticamente schifo, è sintomo di regressione cognitiva, emotiva, psicologica.
È il linguaggio dei e pei bambini, che ora si è tradotto negli “adulti”.
Una traduzione con, a mio giudizio, due origini.
Da una parte la regressione intellettuale e psicologica dei così detti “adulti”
disabituati alla serietà, come già dissi nell’intervento sulla fotografia e le
risate; dall’altra la tendenza, anch’essa scimmiesca come le risate sguaiate, a
imitare il prossimo per farsene accettare.
Se tuttavia lo scimmiottamento è manifestazione del cervello primitivo, non sono
altrettanto certo (non lo sono per nulla) che il rimminchionimento universale
sia il frutto marcio di una ipotetica stanchezza della civiltà e non, più tosto,
il resultato d’un ammaestramento subìto a traverso i mezzi di comunicazione e di
svago, che poi oggi i due pari sono.
Ho ancòra nella memoria le parole d’un dirigente d’una grande televisione
privata, per le quali appresi che progetto lucidamente perseguìto dagli
inventori dei programmi è di somministrare spazzatura e droga a che i cervelli
si atrofizzino. Come si vede i complottisti (accusa di chi non ha argomenti) non
sempre sono complottisti.
Tornando alle “bollicine” e simili è giocoforza che il suo indefesso utilizzo
contribuisca anche all’egerstà di linguaggio, il quale non a caso, giusta
indagini ufficiali, è sempre più limitato banale trasandato.
Pur restando a tavola, andiamo avanti.
Una mattina mia moglie mi annuncia con tono tra il minaccioso e l’accorato, che
la sera sarebbe arrivata a cena una sua amica, che non mi era propriamente
gradita. Non mi sarei potuto opporre neppur volendo ché si era a casa dei
suoceri. La consegna implicita riservatami era: profilo basso, voglio trascorre
una serata piacevole. Obbedisco.
Arriva l’amica e ci accomodiamo attorno al tavolo. La madre di mia moglie ha
preparata la sua solita squisitissima pizza, ma a pranzo ho mangiato un po’
troppa pasta e quindi declino i riquadri di pomodoro e funghi e mi contento di
pan biscotto inzuppato nel latte.
Perché mai non condividevo la succulenta pizza?, chiede l’ospite. Rispondo che
per via della pasta del mezzogiorno, etcoetera. E quella con tono serissimo:
«Uhm… Ma adesso mangi pane… carbo su carbo non va bene». Carbo: una marca di
pane? Mi ero perso un pezzo della conversazione? Macché: carbo stava
per carboidrati, che poi naturalmente, nella testolina della fanciulla, la pizza
non ha.
Mica finita.
Mia moglie, appena udita l’amica, mi scaglia un’occhiata più lancinante della
folgore di Donner: per l’amor del Cielo taci. Io mi limito a replicare
all’ospite con un’alzata di spalle e un’espressione facciale altrettanto
eloquente. Ma quella si ostina e si sente in dovere anche di darmi un
suggerimento: «Dopo, dammi retta, bevi una tisa digerente».
Rimasi col cucchiaio a mezz’aria e qualche goccia di latte mi dové colar per la
barba. Strizzai la faccia in un’espressione di ribrezzo; ma qui, oltre
all’occhiataccia, mi arrivò un calcetto di sotto il tavolo.
Naturalmente tisa stava per «tisana». E c’era poi l’altra
bestialità: digerente in vece di digestiva.
Incassai occhiatacce, calci e insulti alla madrelingua e me ne andai via,
lasciando i carbo sotto forma di pane galleggiare nel latte ormai quasi freddo.
Soffocai anche un rutto, che non era indizio di ribellione gastrica per il
lattosio ma del tutto psicosomatico.
E adesso possiamo andare a parlare d’altro.
Dalla televisione al bar, dall’idraulico al gazzettiere, dall’insegnante al
musicista: s’è pigliato il vizio d’infilare il verbo «andare» ovunque e a
sproposito. Il cuciniere televisivo ai fornelli: «Vado a mettere il sale nella
padella e poi vado a scolare la pasta»; lo “iutuber”: «Andiamo a guardare questo
video» (per inciso non esistono più «filmati» o «riprese»: esistono
solo video e contenuti); il giornalista ci invita: «Andiamo a sentire gli
ospiti» che sono lì a un metro.
Persone più edotte di me in inglese mi spiegano che è una sorta di calco da
quella lingua: «Let’s go to…». Dunque non bastavano gli innumeri intarsi, gli
abusivi, i clandestini verbali imposti nudi e crudi al nostro idioma: adesso c’è
anche un virus che lo aggredisce alla base, corrodendolo polverizzandolo e
spazzandolo via, per infilarci quei cancheri.
Se poi io sia stato informato male o abbia fraintesa la spiegazione, poco
importa: “andare” quando non si va da nessuna parte è da dementi.
Ravviso in questa forma che si pensa elegante il vezzo degli incolti o, razza
ancor più perniciosa, semi-colti, gli orecchianti, gli “studiati” a mezz’aria,
come il cocciuto Willy il Coyote che precipita al fondo del burrone poiché
incapace di spiccare il salto completo. Ma l’irresistibile cartone perlomeno si
schianta da solo e ci dà sollazzo. Quegli altri in vece ci cadono sulla zucca e
ci impestano l’aria.
Per mascherare insipienza e ottusità costoro si annettono espressioni che al
loro cerèbro suonano colte, raffinate. Ma sono come l’innocente gatto un po’
goffo, che tenta di nascondere la cacca raspando nella sabbia. (Per inciso, non
conto più le volte che m’è toccato di sentire sabbietta, parola doppiamente
fessa, ché la sabbia di lettiera ha grani sensibilmente più grandi di quelli
d’arena).
Mi ricordo d’un tanghero che conoscevo una quindicina d’anni fa, proprietario
d’una caffetteria nel centro di Torino, fisiognomicamente – e non è un’iperbole
– assai più prossimo a un gibbone che a un sapiens, e di un’ignoranza da fare
invidia, benché dicesse d’aver studiato e s’accompagnasse a una donna, dicevano,
laureata. Più e più volte lo sentivo dire: «Nel tal caso che Paola arriva
[ovvio], dille…», «Nel tal caso che il fornitore…».
Il vocabolo «tale» era ai suoi orecchi così alato che gli pareva doveroso
infilarlo ovunque; ma è come spruzzarsi un mediocre profumo su stracci
puteolenti.
Che fatica! Ma, insomma, pur tanta roba, no? Ecco un altro mostro.
«Roba mia, vientene con me!», risovviene dai gorghi della memoria insieme alla
spiegazione della maestra (un tempo già alle elementari ci facevano almeno
assaggiare la buona letteratura, oh sì). La spiegazione era seguìta
dall’ammonimento, ribadita alle medie, di non dar di «roba» o «cosa» a
checcheffosse; i dizionari grondano di parole, di sinonimi: che li imparassimo,
che li usassimo, senza ripieghi generalissimi.
Parole al vento per moltissimi, vistoché anche miei coetanei che si suppone
abbiano frequentate almeno buone scuole di base, lardellano il discorso di
quell’espressione grossolana, davanti a ogni vetrina, notizia, sensazione che
colpisca, ma altrettanto a capocchia. Meglio, di questa espressione tappabuchi o
ombrello, una sana imprecazione veneta: greve bensì ma senza che chi la sbuffa
pretenda d’essere alla moda.
Eppoi, suvvia, ogni tanto manifestare lode al cielo con una bestemmia ci sta,
nevvero? Ecco un altro colpo di mannaia ai diti (Leopardi scrive così, non mi
scocciate) dei negletti e defraudati Tommaseo, Prèmoli, Zingarelli, Devoto,
Oli.(Per inciso – questa non me la posso tenere – c’era un di quei professori
laureati col Sessantotto pel quale Devoto e Oli erano una sola persona, anche se
non si capacitava di non aver trovato sulle Pagine Bianche alcun «Oli professor
Devoto». Chissà che non lo stia ancòra cercando: e chi aveva il coraggio di
togliergli la convinzione?).
Ci sta, dicevamo. ‘Sta specie di singhiozzo interiettivo è talmente entrato
nell’uso da aver impestato anche penne che un tempo sapevano stare inclinate
correttamente, e non stravaccate. Me la ritrovo in fatti in un piccolo libro su
Amadeo Bordiga, il comunista più serio d’ogni internazionale e scrittore
abbagliante, di Pietro Basso – docente di sociologia, niente di meno, a Ca’
Foscari – il quale, bontà sua, consapevole dell’anomalia piega le due parolette
in corsivo come usa per gli esterismi (mio pseudoneologismo da «estero» e
«isterismo»), anche se ahimè sempre di meno.
Questo linguaggio giovanilistico (Basso ha ampiamente varcati di settanta) sarà
un modo per cattivarsi i semprinvocati giovani, dovendo trattare d’un soggetto
che in Italia conosceremo non solo per sentito dire in duecento, età media
settant’anni. Se è così, ci sta. O forse no. (Siccome il libro uscì anche in
Gran Bretagna come prefazione a un’antologia bordighiana, mi domando come
accidenti se la siano cavata).
C’è anche il tu distribuito come coriandoli a carnevale. In pratica il Lei è in
via d’abolizione. Dico, si noti, abolizione e non estinzione, ché questa è un
processo spontaneo, naturale, mentre l’altra è deliberata scelta. Non a caso –
conservo ancòra il messaggio di una medichessa – non a caso lo chiamano «tu
inclusivo», e ormai a milioni lo dispensano a ogni categoria e anagrafe. Persone
alle quali avantieri non si sarebbe rivolta parola se non a capo chino e
sull’attenti eccole apostrofate con la seconda persona singolare; nemmeno la
nuora o il capufficio li arpiona così, e adesso arrivano bimbiminkia, anche di
cinquant’anni. E ciò, in parentesi, nell’epoca dell’autismo universale, dove
ognuno si contempla nemmen più allo specchio, ma solo il proprio orifizio anale.
È la compensazione.
E con la medichessa, giustappunto, dovetti altercare, ché nonostante il «tu
inclusivo» non si degnava di rispondermi al telefono, giacché rifiutava per
principio di sentire i pazienti a voce: solo inclusivissimi messaggi.
È però arrivato il momento di fermarci, anche se potremmo davvero seguitare a
lungo.
Vado solo ad aggiungere una noticina, che ci sta.
Che sia saltata la discriminazione tra espressione scritta e parlata, è ormai
ahinoi storia vecchia. Più recente è la sgangheratezza irremeabile insinuatasi
nella carta stampata.
Saranno almeno tre o quattr’anni che mi càpita d’imbattermi in titolazioni di
grandi quotidiani italiani “in rete” privi di punteggiatura, sicché il soggetto
della prima frase sembra passare alla seconda, ma senza concordare col verbo, e
un predicato è conteso tra due frammenti di titolo. Tutto ciò comporta che
occorra mezzo secondo in più per capire che cosa si stia leggendo. Le prime
volte, giuro, per un istante temetti qualche mia microischemia cerebrale, sopra
tutto quando di secondi me ne occorsero ben due o tre per cogliere che accidenti
si volesse comunicare.
Sono le medesime negligenze sintattiche che spesso, sempre più spesso ricevo sul
telefono. Con la differenza che qui mi scrive per solito un idraulico, il
barista cinese, o la donna delle pulizie.
So per certo che i titoli, sulle pagine virtuali dei giornaloni, sono affidati
perlopiù a giovanissimi praticanti (non pagati) o arcigiovanissimi “stagisti”
(non pagati). I quali, tuttavia, stanno lì perché vogliono, poveretti!,
diventare gazzettieri. E che costoro non abbiano le basi per farlo, è evidente.
Ma a chi controlla la titolazione, o sia giornalisti fatti e finiti, quei
“whatsapp” o “sms” non fanno problema e forse nemmeno se ne accorgono. È molto
indisponente che su fogli che ogni santo giorno ammanniscono lezioncine
politiche e morali non si controlli nemmeno la lingua italiana.
Ma questo ennesimo imbarbarimento della stampa va a vantaggio di molti: avete
una ragione in più per non leggerla e per invitare chi possiate a evitare quelle
pattumaie.
Sulle quali, ne sono certo, non vedrete mai comparire un articolo come questo.
Luca Bistolfi
*In copertina e nel testo: opere di Roland Topor
L'articolo “Andiamo” alle “bollicine”: “ci sta”! Note su alcuni orrori del
linguaggio odierno proviene da Pangea.