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Ai romanzi italiani preferisco Final Fantasy XV. Sulla narrativa che ha smesso di costruire mondi
Mi chiedo, da buon pisquano, che interesse dovrei avere di andare in libreria a scegliere dei libri quando sul PlayStation Store posso comprarmi a 18,99 euro videogiochi come Final Fantasy XV: ditelo a vostra madre e storcerà il naso – invece, è sintomo d’intelligenza. Prodotti come questo hanno raggiunto livelli di complessità e costruzione del mondo che la letteratura italiana ha smesso di perseguire da tempo. FFXV è uscito nel 2016 dopo dieci anni di sviluppo; ha richiesto, nel corso del suo ciclo di produzione, tra le 200 e le 300 persone – nonché un budget fra i 50 e gli 80 milioni di dollari (escluso il marketing). Racconta la storia di Noctis, un ragazzo privilegiato e irrisolto che esce di casa per sposarsi, sale in macchina con tre amici, parte leggero e scopre che quello sarà il suo ultimo viaggio da persona normale. Hajime Tabata, il creatore, ha dichiarato: il cuore del gioco è il viaggio insieme agli amici,  il rapporto padre-figlio rappresenta uno dei pilastri della narrativa. Nella prima scena non c’è nulla di epico: si spinge una macchina in panne con Stand by me (appositamente interpretata da Florence + The Machine) in sottofondo. Poco dopo, campeggio brandizzato Coleman, pasti preparati alla griglia, foto cretine della giornata: un fantasy basato sulla realtà, un mondo di dèi e demoni con pompe di benzina, noodle istantanei e cani che abbaiano fuori dai motel. Narrativamente, concretizza in un gesto preciso: il lettore non si affeziona alla trama, si lega alla complicità tra i personaggi. E quando la storia virerà nel tragico saremo turbati dagli eventi in sé, certo, ma ancora di più dal fatto che sia finita per loro quattro. Si potrebbe riassumere FFXV così: un road trip americano applicato a un JRPG giapponese, dove il viaggio in macchina è metafora dell’ingresso nell’età adulta. Si attraversano una serie di riti di passaggio tra cui il primo grande lutto: la morte di Regis, re di Insomnia, avviene off-screen per Noctis. Il figlio la scoprirà infatti in televisione, come un qualsiasi ragazzo che assiste al crollo del proprio mondo al telegiornale.  Allo stesso modo l’Anello di Lucis, ottenuto attraverso il sacrificio di uno dei personaggi principali – qualcuno che brucia attraverso la sua assenza – è un potere che consuma chi non è degno. Non offre nulla di miracoloso: non conferisce a Noctis gloria, bensì morte. E quando nel finale il protagonista accetta di morire sul trono completa la curva. Smette di essere il ragazzo ai margini diventando suo padre, il re che si sacrifica per il mondo. L’universo di FFXV concretizza tutta una serie di topoi dei JRPG. Un miscuglio barocco di riferimenti (Roma imperiale, cattolicesimo, modernità occidentale, mitologia targata Square Enix) per un risultato che genera un’atmosfera precisa: una leggenda sporca, dove dèi ostili ti costringono a pagare il conto di un passato mai vissuto. Se si esamina il lore di FFXV con l’occhio di chi tiene corsi di scrittura creativa è un disastro: nomi, testi, divinità e profezie che si accavallano, spiegazioni arrivate troppo tardi o di sbieco. Quando si smette però di chiedergli la coerenza del manuale, e lo si inizia a leggere per ciò che è, ne otteniamo un ritratto cristallino. I libri della Cosmogonia sono fondamentali per capirlo: scritture sacre interne all’universo di gioco, hanno il tono dell’Antico Testamento. Non spiegano per rassicurare, proclamano per farti sentire piccolo davanti a una storia che esisteva prima di te – e che continuerà dopo di te. Gli dèi non sono mai dalla parte giusta: sono divinità lontane, indifferenti, quando non apertamente ostili. Non ti aiutano perché sei il protagonista: ti mettono alla prova, ti schiacciano, ti utilizzano come strumento. Nella Cosmogonia sono descritti come esseri il cui pensiero trascende la comprensione umana: non cercano empatia, non spiegano le loro scelte, non offrono misericordia. Siamo noi a dover dimostrare qualcosa.  Noctis è una figura chiaramente cristologica, e priva di consolazione. Simbolo della luce che si immola per scacciare l’oscurità e pagare il debito dell’espiazione. L’iconografia è esplicita: il sacrificio del Re-Cristo, il trono come Calvario, i Re del passato che lo trafiggono come una comunione violenta di Santi. La tradizione non accoglie, uccide. E solo così riconosce. La mitologia di FFXV promette solo che qualcuno dovrà farsi carico del male: ciò che è divino non è buono, l’ordine cosmico non è giusto e il sacrificio non è glorioso – è necessario. Il ruolo del villain, Ardyn, mostra l’essenza della narrazione. Il villain rappresenta una domanda in grado di farsi sentire anche dopo aver superato le cento ore di gioco. Perché Ardyn, all’inizio, era il prescelto. Non un usurpatore, né un mostro sfortunato: assorbiva il male del mondo su di sé per purificarlo, caricandosi letteralmente addosso la sofferenza altrui. Eppure il suo gesto non viene riconosciuto. Gli dèi e la dinastia dei re lo trasformano in una discarica cosmica, sfruttandolo finché fa comodo, per poi cancellarlo dalla storia.  Da qui nasce tutto. Ardyn non è immortale nel senso romantico del termine. La sua è un’immortalità marcia, corrotta, tenuta in vita esclusivamente per continuare a soffrire. E il rapporto con gli dèi si mostra emblematico: semplice relazione di uso e scarto. Ardyn è indirizzato, costretto e lasciato marcire. L’odio del villain non viene davvero rivolto a Noctis, il bersaglio è il sistema: la monarchia sacralizzata, la profezia, l’ordine divino che decide chi deve sacrificarsi e chi no. Ardyn non contesta il sacrificio in astratto: contesta chi lo impone e con quale diritto. La volontà implicita è devastante: perché io devo diventare un mostro per assorbire il male del mondo, mentre voi restate puri, intatti, venerati? Il villain di FFXV non vuole governare, non vuole vincere: non vuole sostituirsi a Noctis. Il suo obiettivo è quello di far crollare l’impalcatura morale che rende quel sacrificio accettabile. Per questo è vicino ai grandi personaggi della tragedia: la persona giusta nel posto sbagliato, spezzata dal sistema, che ora vuole trascinare tutto con sé. La sua presenza rende il finale di Final Fantasy XV molto più amaro. Perché sì, il sacrificio di Noctis è necessario. Ma Ardyn costringe il lettore a vedere che lo diventa a causa di un ordine cosmico profondamente ingiusto. Non c’è armonia, né provvidenza, né equilibrio. Soltanto qualcuno che paga il conto, ogni volta, al posto degli altri. FFXV fa una cosa rara. Non ti consola. Ti lascia con l’idea che il mondo possa essere salvato solo attraverso un sacrificio imposto da dèi – che non sono buoni – e da una storia che non è mai pulita. Ardyn non è l’errore del sistema. Ardyn è la prova che il sistema è sempre stato marcio. La struttura stessa di FFXV è una di quelle cose che, sulla carta, sembrano un errore. La prima metà aperta, dispersiva, svagata; la seconda parte che si fa chiusa, lineare, soffocante. Un gioco che per ore ti lascia libero di perdere tempo e poi, senza chiedere il permesso, ti toglie tutto. Eppure questa scelta così sbilenca è una delle ragioni per cui la narrazione funziona. I grandi eventi che avvengono fuori scena, il colpo di stato, la guerra, le decisioni politiche, non vengono vissuti perché Noctis non li attraversa. Lo scopo della narrazione non è quello di essere onnisciente: non ti informa, non si pone al tuo servizio mettendoti al centro del mondo. Ti costringe ad abitare uno sguardo limitato: quello di un ragazzo che all’inizio pensa solo a viaggiare, rimandando tutto il resto. Nella prima metà si fa esattamente questo. Ci si perde in cacce inutili, momenti fotografici, dungeon opzionali, battute di pesca, deviazioni prive di senso. Insomnia e la guerra restano un rumore lontano, qualcosa che sai esistere ma non ti riguarda davvero. Lunafreya, Ravus, la politica: conosci le loro gesta per interposta persona, come notizie lette di sfuggita. Rappresenta la fase della vita in cui il mondo va avanti e si è convinti di avere ancora del tempo. Poi, dal capitolo del treno in avanti, tutto cambia. La mappa si chiude, il gioco smette di lasciarti respirare trasformandosi in un corridoio narrativo, cupo, insistente. I toni si scuriscono: Niflheim, Gralea, Tenebrae in rovina. Lo Starscourge avanza e il mondo diventa letteralmente buio. E il colpo finale arriva con il salto temporale di dieci anni: torni a Eos e non la riconosci. Gli amici sono invecchiati, segnati, stanchi. I luoghi che prima erano tappe del viaggio ora sono infestati da demoni. Ciò che sembrava un ritorno è in realtà un epilogo. La struttura funziona perché è metanarrativa – facendoti sentire il rimpianto del tempo buttato. Hai perso settimane cavalcando Chocoboco mentre il mondo andava in rovina e ora ti si presenta il conto.E soprattutto rafforza il finale: lo avverti, tutto è già successo, non resta che accompagnare la storia alla sua ultima esalazione. Qui il respiro è millimetrico. L’ultima notte accampati insieme. L’ultimo falò. Un momento in cui puoi parlare con Gladio, Ignis e Prompto ma il messaggio è univoco: ti abbiamo portato fin qui, adesso sei solo. E qualche ora dopo, la scelta dell’ultima fotografia prima di affrontare Ardyn è il gesto narrativo più potente della narrazione. Una sola immagine da portare con sé prima di morire. Nessuna spiegazione, nessuna enfasi. Soltanto una meccanica, narrativa pura: ti costringe a ripercorrere tutta la tua esperienza e decidere cosa rappresenta la tua vita. Infine, sul trono, i Re del passato trafiggono Noctis e lui li invita a colpire con maggiore forza. È la rappresentazione più brutale dell’eredità: per entrare nella tradizione occorre lasciare che ti uccida. L’epilogo, con Noctis e Lunafreya in uno spazio sospeso, gioca apertamente la carta del sentimentalismo. Ma a quel punto hai addosso almeno cento ore di strada, di notti in tenda, di silenzi in macchina. E colpisce. Forte. FFXV fa ciò che chiediamo alla letteratura quando smette di essere un compitino. Perché ti fa vivere la parte noiosa della vita, perché ti lega a quattro persone, perché racconta la crescita come perdita: perderai il padre, perderai la fidanzata, perderai la normalità e infine perderai te stesso. È un ibrido instabile: road trip americano, purezza da anime, mitologia pseudo-cristiana, estetica occidentale filtrata dallo sguardo giapponese. Non sempre coerente. Emotivamente devastante. Perché quando tutto finisce si pensa solo a una cosa. Molto semplice, molto vera.  Vorresti ancora una giornata in macchina insieme a loro. Il punto è imbarazzante nella sua semplicità: in un videogioco come Final Fantasy XV puoi restarci dentro per più di cento ore senza annoiarti. Nessun riempitivo, nessuna cortesia: strada, ritorni, scontri e routine che si accumulano e producono senso. Questo mondo non ha fretta di lasciarti andare, non ti accompagna educatamente verso l’uscita, non ti tratta come un consumatore da rispettare. Anzi, devi restare. La narrativa italiana contemporanea risulta sempre più spesso costruita come opuscoletto a servizio del lettore: libri che chiudi nel tempo di fare Fano Torrette-Forlimpopoli con il regionale. Scendi dal treno con addosso la sensazione di aver letto qualcosa di scritto bene senza che nulla ti sia rimasto addosso. I protagonisti si chiamano tutti Giampirla, fingono di soffrire e gli riesce nel modo giusto: riconoscibile, contenuto, presentabile. La fruizione è misurata, innocua, a prova di barbagianni. È una narrativa che raramente richiede tempo, dedizione o rischio. Ti accompagna all’uscita, con un Grazie per avere viaggiato con noi su questo treno e nessuna pretesa di essere ricordata. Quando esci da mondi vasti come quello di FFXV e apri un romanzo italiano contemporaneo la sproporzione è umiliante. C’è poi una ragione materiale, che di solito si finge non esista: un autore italiano pubblicato da una grande casa editrice riceve, nella maggior parte dei casi, un anticipo fra i 1.500 e i 3.000 euro. Stipendio simbolico per un lavoro che dovrebbe richiedere mesi, se non anni, di concentrazione totale. Per dare un ordine di grandezza: un animatore junior in uno studio giapponese o americano guadagna la stessa cifra in un paio di settimane. Lo scrittore, invece, dovrebbe costruire un universo, inventare una voce, reggere una struttura, lavorare sulla lingua, sul ritmo, sull’architettura narrativa: scrivere diventa inevitabilmente un’attività da ritagli, notti rubate, fine settimana deserti. È un miracolo che qualcuno ci riesca. Ed è in questo vuoto che prosperano le operette a servizio del lettore. Fino a pochi anni fa relegate agli Autogrill, oggi catene fondanti di molte collane di narrativa: traumi minimi, famiglie raccontate sottovoce, autofiction così controllate da perdere ogni ragion d’essere. Una letteratura fatta di banalità che registra il vissuto senza filtrarlo, come se raccontare fosse diventato un atto di buona educazione – qua e là camuffato da titoli sciocchi come La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera. Narrativa che ha smesso di costruire mondi per accontentarsi di descrivere stanze. A questo punto la questione smette di essere teorica e diventa personale, materiale,  misurabile. Io vivo di scrittura. Vengo pagato – e pure bene – per creare strategie SEO e scrivere articoli su pomodori, lucidalabbra, insetticidi, piastrelle, vacanze a Riccione. Qualsiasi cosa le persone cerchino su Google. Lavori apparentemente insignificanti, privi di aura, senza alcuna ambizione simbolica. Li scrivo con metodo e responsabilità: producono valore e risultati, ottengo stipendi regolari. Insegno alla Scuola Holden, vengo contattato dalle agenzie di comunicazione, nel 2025 ho formato più di duecento persone su come si scrive davvero oggi: come si struttura un testo, come si governa l’attenzione, come si produce senso in un algoritmo che non regala nulla. Scrivo, tutti i giorni. Solo che lo faccio dove ha ancora senso farlo. L’alternativa sarebbe investire una manciata di mesi in un romanzo italiano contemporaneo: sottopagato, destinato a una circolazione gentile quanto breve. Un libro che deve stare sotto una certa soglia di rischio, che non può essere troppo lungo, troppo strano, troppo ambizioso. Un libro che nasce già pensando a dove verrà presentato, premiato, difeso. Un oggetto di consumo da chiudere in poche ore e non pretende nulla. Scrivere narrativa oggi è un gesto di adattamento: si scrive per stare dentro un perimetro, mai per infrangerlo. Si limano le asperità, si riduce il mondo, si abbassa il volume dell’immaginazione. Il risultato sono romanzi corretti, molto spesso ben scritti, a volte sinceri, necessari a un’editoria fondata sull’inflazione. Opere che descrivono stanze perché non hanno i mezzi per costruire mondi. E allora la scelta diventa brutale e limpida. Da una parte posso passare cento ore dentro Final Fantasy XV, attraversando un luogo che non ha fretta di lasciarmi andare, che richiede tempo, attenzione, labirinti che mi fanno perdere, tornare indietro, cercare il punto di noleggio dei Chocoboco, sbagliare. Un’opera che non mi tratta come un consumatore da compiacere, ma come qualcuno che deve trovare da sé la via. Dall’altra posso leggere – o scrivere – un romanzo pensato per non disturbare, non eccedere, non pretendere troppo: un prodotto che finisce in fretta, si commenta educatamente su Instagram e viene sostituito dalla successiva notifica di Tik Tok. Tra le due cose, oggi, non c’è davvero gara. Quando un videogioco da 18,99 euro riesce a offrire più tempo, spazio, memoria e più perdita d’orientamento di gran parte della narrativa contemporanea, il problema non è il medium. È l’ecosistema che ha disintegrato l’ambizione. È un sistema editoriale che paga poco, isola gli autori, premia chi è moderato e scambia la rinuncia per profondità. Scrivere oggi, in Italia, non è difficile perché mancano le storie. È difficile perché manca la possibilità di prenderle sul serio. E finché sarà così, finché la letteratura continuerà a ridursi a oggetto di consumo tranquillo, finché verrà chiesto agli autori di essere visionari senza fornire loro spazio, tempo e denaro il lettore continuerà a cercare altrove – in un gioco, in una serie, in un mondo digitale – quella sensazione di vastità che i libri hanno smesso di promettere. Quando rinunci ai mondi non perdi solo lettori. Perdi ambizione. Tempo. Senso. Nicolò Locatelli *In copertina e nel testo: immagini tratte da Final Fantasy XV L'articolo Ai romanzi italiani preferisco Final Fantasy XV. Sulla narrativa che ha smesso di costruire mondi proviene da Pangea.
December 17, 2025 / Pangea