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“La grazia dell’invisibile”. Rilke, le rose e l’enigma dell’ultima donna
Si incontrarono all’Hotel Savoy di Losanna nel 1926, in settembre. Nimet Eloui Bey era di una bellezza pericolosa: viso a spigoli, labbra avide, schiena da ghepardo. Man Ray l’ha eternata in fotografie di cupa audacia. Egiziana, ventitré anni, il padre era stato ciambellano del Sultano Ḥusayn Kāmil; il marito era un facoltoso uomo d’affari: alla giovane moglie piacevano le macchine sportive e sfoggiare un’eleganza ferina. Rainer Maria Rilke, per così dire, la riconobbe. Era stato in Egitto molti anni prima, nel 1910: la Sfinge lo aveva piagato di un’enigmatica inquietudine; quando poteva, faceva visita al Museo Egizio di Berlino, sfidando il profilo di Amenophis IV, “dinanzi al quale si ha soltanto il compito silenzioso di accettare il prodigio”. Conoscere Nimet, l’ultima “amica”, fu una specie di sortilegio. “Il suo profilo era quello che si vede nelle figure faraoniche delle statue regali d’Egitto”, scrisse Edmond Jaloux (in: La Dernière Amitié de Rainer Maria Rilke, Arfuyen, 2023), romanziere, accademico di Francia, intimo di Rilke, che aveva architettato l’abboccamento.  La ragazza era stata sedotta – come tante – dal “Malte”, il romanzo – o poema in prosa – di Rilke; il poeta la portò a Muzot, il suo maniero, “grande vecchio fido animale”. Aveva scoperto quel castelletto del XIII secolo nell’estate del 1921: in Vallese, Svizzera, a poco più di seicento metri sul livello del mare. Si diceva fosse abitato da uno spettro, quello di Isabelle de Chevron: vissuta nel Cinquecento, era diventata pazzia dopo che due pretendenti si erano uccisi in duello per averla. Un mecenate svizzero, Werner Reinhart, comprò Muzot donandolo al poeta. In quel luogo, fuori dal tempo, fuori dal mondo, Rilke aveva compiuto, nel febbraio del 1922, in stato d’estasi, da impossessato – cioè: da spossessato di sé – le Elegie duinesi e I sonetti a Orfeo (di recente ritradotti da Riccardo Held per Mondadori), tra i testi lirici più vasti di ogni tempo (pari, per rivelazione, per umana statura, alle opere di Friedrich Hölderlin e di Emily Dickinson, al Daodejing e al Fedone, alle Illuminations e al Cherubinischer Wandersmann di Angelus Silesius). Nel castello mancava l’elettricità, l’acqua doveva essere attinta da una pompa; Paul Valéry non capiva come si potesse abitare in quel luogo; tutti cominciarono a dire che Rilke era “il recluso dell’arte”, l’eremita della poesia.  Nimet Eloui Bey nel 1930, fotografata da Lee Miller Il poeta amava coltivare le rose. Ne raccolse alcune per Nimet, graffiandosi. L’incidente fu decisivo, il sangue copioso; gli fu diagnosticata la leucemia. In novembre è ricoverato a Val-Mont; morirà a fine anno, il poeta “ucciso da una rosa”. Poco tempo prima, aveva dedicato un ciclo di poesie proprio alle rose: “Rosa, sovrana completezza,/ infinitamente ti contieni e all’infinito,/ ti effondi” (cito da una recente traduzione di Mario Ajazzi Mancini: R. M. Rilke, Le rose, Press & Archeos, 2025). L’ultima lettera di Nimet gli era giunta che delirava, la vigilia di Natale del ’26,  > “Non interrompete il vostro riposo per scrivermi. Il vostro silenzio non vi > rende meno presente, ve lo assicuro”. Uno dei pregi del potente studio biografico di Marilena Garis (Rainer Maria Rilke. Luce sull’invisibile, Edizioni Ares, 2025) è quello di mettere in fila le donne che hanno amato e ispirato da Rilke, venendone, tutte, stigmatizzate. Rilke – il più elusivo quando non il più grande poeta del secolo – è figura chimerica: sembra muoversi da abulico, deambulando in un mondo tutto suo, sigillato, in bulimia di belve celesti; in realtà, era un cannibale, creatura esangue in grado di dissanguare il prossimo, di vampirizzarlo. Di questa schiera di “abbandonate” – tenute all’erta e alla cinghia da epistolari di sgargiante splendore, dalla complicità ambigua: Rilke era un poligrafo e le lettere, tantissime, segnano la quota della sua fame – le più infelici sono state quelle più vicine al poeta. Clara Westhoff, intanto, la moglie, che “offre” Rodin a Rilke e sacrifica il proprio talento artistico – era scultrice – per i grigiori della vita coniugale (in Essere qui è uno splendore, recentemente tradotto da Crocetti, Marie Darrieussecq ne fa un chiaroscurale ritratto). C’è poi la figlia, Ruth: il poeta rifiuta di vederla dal 1919, lei ha diciotto anni; non parteciperà al suo matrimonio con Carl Sieber, non conoscerà mai la nipote, Christine. Tra le amanti-mecenate di Rilke, va citata la principessa Marie von Thurn und Taxis: diede al poeta la possibilità di usufruire del palazzo di Duino. Fu lei ad affibbiargli il soprannome di “Doctor Seraphicus”; scrisse che “sembrava avesse risolto l’enigma della vita”.  Lou von Salomé (1861-1937) Ci sono, poi, le donne che hanno segnato la vita di Rilke. Tra queste, la più importante è Lou von Salomé: introdusse Rilke ai misteri dell’amare; insieme furono in Russia, due volte, nel 1899 e nel 1900. Fu un viaggio fondamentale, quello, per Rilke (“Per me diventa sempre più chiaro che la Russia è la mia patria – tutto il resto è paese straniero”, scrive nel 1902): tra l’altro, conobbe Tolstoj e Leonid Pasternak, l’artista, il papà di Boris. La Russia gli sarà restituita molti anni dopo, tramite Marina Cvetaeva, l’ennesima amata. Dal maggio del 1926, Rilke riceve alcune forsennate, bellissime lettere dalla Cvetaeva – in un ménage che coinvolge anche Boris Pasternak. Lo scambio dura pochi mesi; i poeti non si incontreranno mai (il triplice epistolario, a cura di Serena Vitale, è pubblico come: Cvetaeva, Pasternak, Rilke, Il settimo sogno. Lettere 1926, Editori Riuniti, 1980). Rilke era succube della madre. Sophie ‘Phia’ Entz, figlia di un ricco industriale di Praga, aveva ventiquattro anni alla nascita del figlio, il 4 dicembre del 1875. Ambiva a una vita di lussi a cui il marito – Joseph Rilke, ufficiale in congedo forzato – non poteva dare soddisfazione. I due si separarono dopo dieci anni di matrimonio; Sophie vestiva il figlio come una bambina, lo circondava di bambole. Fu Baladine Klossowska, piuttosto, l’ultima amante di Rilke. Si erano incontrati nel 1919; lui le aveva scritto, “L’Amore non è forse, con l’arte, la sola concessione al superamento della condizione umana?”. Baladine era già la madre di Balthus, l’artista, e di Pierre Klossowski, lo scrittore; Rilke preferiva unirsi a donne sposate.  Clara Westhoff la moglie di Rilke e la loro unica figlia, Ruth, nata nel 1902 Nell’ultimo mese della sua esistenza terrena, il poeta non volle vedere nessuna. Scrisse a Nimet, la ragazza venuto dall’Egitto che per un po’ aveva sconvolto i suoi sogni:  > “Niente fiori, Madame, ve ne prego, la loro presenza eccita i demoni di cui è > piena la camera. Ma ciò che è arrivato con i fiori si somma alla grazia > dell’invisibile”.  Scrisse l’ultima poesia, Val-Mont, con quel verso tremendo, angelico, “E io in fiamme. Da Nessuno riconosciuto” (le ultime lettere di Rilke sono state tradotte e commentate da Franco Rella in: R. M. Rilke, Noi siamo le api dell’invisibile, De Piante, 2022). Al fianco del poeta, soltanto la segretaria, Genija Černosvitov. L’aveva assunta in settembre, poco dopo aver conosciuto Nimet. Era lei a sbrigare la corrispondenza, fu lei a raccogliere le estreme confidenze del poeta. Scrisse a Marina Cvetaeva e a Boris Pasternak della sua morte. Poi si dileguò, come uno spettro – di lei non si sa altro. Bisognerebbe scriverne.  L'articolo “La grazia dell’invisibile”. Rilke, le rose e l’enigma dell’ultima donna proviene da Pangea.
December 29, 2025 / Pangea