Nel dicembre del 1965 uscì nelle sale americane Il dottor Živago. Il mirabile
esordio di Geraldine Chaplin – ventenne, figlia di Charlie, nipote di Eugene
O’Neill, nel film fa Tonja, la bella moglie del fedifrago dottore – venne messo
in ombra dalla rapace sensualità di Julie Christie, indimenticabile Lara. Agli
Oscar, l’anno dopo, Julie sbalordì tutti: vinse la statuetta come “attrice
protagonista” per l’altro film in cui compariva, Darling di John Schlesinger –
interpretava una mantide che passa di maschio in maschio, preda di furente
ambizione. Il dottor Živago ottenne cinque Oscar sulle dieci candidature
complessive, in categorie secondarie; gli incassi furono straordinari. David
Lean, regista britannico solidissimo e capace nel gergo epico – pensiamo a Il
ponte sul fiume Kwai, 1957 – il suo Oscar l’aveva conquistato tre anni prima,
con Lawrence d’Arabia. Pur in contesti storici e geografici analoghi – la
rivoluzione degli arabi e quella russa; il deserto da un lato, gli innevati
Urali dall’altro – non potremmo pensare a personalità più diverse. T.E. Lawrence
agisce nella Storia, in fondo, per disintegrarsi; Živago subisce la Storia con
l’estro del creatore; uno è un archeologo che si fa guerriero, l’altro un poeta
che presta servizio come dottore. Entrambi scrivono. Sia Il dottor
Živago che Lawrence d’Arabia sono stati ridotti in partitura cinematografica da
Robert Bolt, sceneggiatore abilissimo (tra l’altro, anche di Mission, 1986). Il
dottor Živago uscì nelle sale italiane nel dicembre del ’66; nel suo ultimo film
– del 1984 – David Lean opta per toni più tenui, ‘da camera’,
adattando Passaggio in India, il romanzo di E.M. Forster.
In un articolo recente, Scott Tobias, critico cinematografico del “Guardian”, ha
scritto, grosso modo, che Il dottor Živago è un film elefantiaco, fuori tempo,
“un relitto”, che tuttavia “conquista ancora”. Merito dell’idea di fondo – in
fondo in fondo banale: “l’amore persevera nei tempi oscuri, come l’arte che da
esso scaturisce” – e del fatto, infine, che Il dottor Živago “è il tipico film
da guardare al caldo, durante un lungo pomeriggio invernale”. Omar Sharif, per
certi tratti, ricorda Boris Pasternak.
Il dottor Živago, in effetti, era un film fuori tempo perfino ai suoi tempi: nel
1963 Fellini esce con Otto e mezzo; nel 1961 Ingmar Bergman usciva con Come in
uno specchio; Andrej Tarkovskij aveva vinto il Leone d’oro con L’infanzia di
Ivan nel 1962. Anche in questo, tuttavia, rispecchia il romanzo da cui è tratto:
quando, in modo enigmatico e provvidenziale, Il dottor Živago viene pubblicato
da Feltrinelli, nel ’57, è, a prima vista, un libro arcano, arcaico, che guarda
a Lev Tolstoj più che al romanzo novecentesco, ai risultati spiazzanti di
Faulkner, Céline o Thomas Mann. È un romanzo come non se ne scrivevano più; a
tutta prima ben diverso dalla prosa estasiante, energumena, viva de Il
salvacondotto, la prova autobiografica che Pasternak pubblica nel 1931. Proprio
come accade alla traduzione filmica di Lean, il romanzo di Pasternak è accolto
dalla critica tra entusiasmi e perplessità; il successo è eclatante. Il dottor
Živago è un romanzo che pur parlando di un tempo remoto, parla a tutti, a tu per
tu, con lo scandalo di una confessione. Le Poesie di Jurij Živago in appendice –
non le più belle di Pasternak, ma bellissime, e ben rese da Mario Socrate
nell’edizione originaria – ci costringono a rileggere il romanzo, la cui natura
è sempre più vertiginosa, ad ogni lettura, sempre più prodigiosa. Di fronte
al Dottor Živago – anche di questo si era accorto Giangiacomo Feltrinelli, come
si evince dall’epistolario edito in: Paolo Mancosu, Živago nella tempesta. Le
avventure editoriali del capolavoro di Pasternak, Feltrinelli, 2015 – i concetti
di ‘bello’ o ‘brutto’ svaniscono, come di fronte a chi ti offra una verità, al
contempo adamantina e urgente: quel che conta è la rivelazione, non la materia
di cui è fatta.
Pasternak, come si sa, lavorò al Dottor Živago per dieci anni; ne parlò a tutti,
con l’ansia epistolare da cui era afflitto – alla pari del suo maestro, Rainer
Maria Rilke, scriveva dalle vette, con la penna intinta nel cuore del condor,
senza darsi, senza attendere risposta, dacché lui giungeva, rapace, come
un responso –: tra tutti, in particolare, alla cugina, Olga Fréjdenberg,
filologa di talento, naturalmente espulsa dall’università di San Pietroburgo
durante l’estasi stalinista; a lei Il dottor Živago pareva un capolavoro, un
libro “al di sopra di ogni giudizio… una variante tutta particolare del libro
della Genesi” (l’epistolario tra Boris e Olga è stato edito da Garzanti come Le
barriere dell’anima, nel 1987). Al contrario, il libro non piacque a Varlam
Šalamov che lo riteneva una specie di tradimento dalle intuizioni liriche
originarie di Pasternak. Allo stesso modo, Angelo Maria Ripellino, il più grande
interprete di Pasternak in Italia, esalta le opere degli anni Venti e Trenta –
“La sua arte presenta grandi difficoltà al lettore: bisogna scioglierne i nodi
parola per parola, decifrarla come un’algebra verbale, come un esercizio di
complicata sintassi… ma chi sa penetrarla trova ad ogni lettura sempre nuovi
valori, resta abbagliato dalla gioiosa luminosità delle parole” – minimizzando
gli estremi esiti (“pur conservando l’antica freschezza di stile, i libri
pubblicati dopo l’ultima guerra riflettono più intensamente e con modi più
semplici la nuova realtà”). Al dibattito critico, infine infimo – Il dottor
Živago è giustamente ascritto tra i grandi libri del secolo – seguì quello
politico; le infami accuse rivolte al poeta finirono per sfiancarlo: Pasternak
muore nel 1960, trent’anni dopo il suo amico ustorio, Vladimir Majakovskij (che
compare d’improvviso nel Dottor Živago, in nota critica folgorante: “È come una
continuazione di Dostoevskij. O meglio, è una lirica scritta da qualcuno dei
suoi personaggi più inquieti, i giovani, come Ippolit, Raskol’nikov, o il
protagonista de L’adolescente”).
In realtà, Boris Pasternak agisce sempre come un creatore. Anche come poeta,
Pasternak sembra disinteressarsi alla natura ‘letteraria’ dei suoi testi –
adempie un compito ‘bardico’, sciamanico. La scrittura – è in fondo questo il
tema dominante del Dottor Živago, ben più del contesto storico, da cartolina, e
della favola d’amore, di contorno – vince la morte, è una piega nel ventre della
necessità storica. Perché questa scrittura sia efficace è necessario amare, con
totalità che va verso l’impossibile – attraverso Puškin, Pasternak arriva a
Dante: Lara è una Beatrice lasciva. Dacché sono scritte, inscritte, le cose, le
vite, mutano via: il Verbo non è verboso, ma avvera, è vero.
In questo, il film di Lean è maldestro: non può interpretare le pagine
‘cosmiche’ né quelle metafisiche del Dottor Živago, le più alte – la trama, a
conti fatti e a romanzo chiuso, è poca cosa; la Storia un’effimera al veleno al
cospetto degli individui, le cui microscopiche esistenze sono salvate,
integralmente, dalla passione dello scrittore/messia.
> “La notte bianca del nord era alla fine. Nel riapparire delle cose, ognuna
> stava al suo posto, quasi incredula di sé, come inventata: la montagna, il
> bosco, il burrone. […] La cascata dominava tutt’intorno. Era terribile nella
> sua singolarità che la dotava di una vita, d’una coscienza propria e la
> trasformava come in un drago favoloso, in un serpente tiranno del luogo, lì a
> esigere il tributo, a devastare i dintorni”.
Come si può tradurre in immagini un brano pieno di tanta tensione creaturale?
Come è possibile tradurre in sequenze filmiche i paragrafi – i più potenti,
infine, del romanzo – in cui Pasternak/ Živago tenta di tracciare il senso
dell’esistere, come si ferisce un albero perché dia il suo latte, quella
magnifica poltiglia? Questo, ad esempio:
> “Così scrivendo di ogni sorta di cose, rilevò di nuovo e si convinse che
> l’arte è sempre al servizio della bellezza e la bellezza è la felicità di
> dominare la forma, che la forma è il presupposto organico dell’esistenza e
> che, per esistere, ogni cosa vivente deve possedere la forma e che, di
> conseguenza, tutta l’arte, non esclusa quella tragica, è il racconto della
> felicità di esistere”.
Questa frase – piuttosto astrusa rispetto alle norme estetiche comuni, per cui
l’arte è il frutto dorato di un amaro soffrire, ma assai ‘russa’: l’Onegin è un
poema che trasuda, pur nella tragedia, felicità e vita, una felicità che
potremmo dire dominio, natura e perfino Dio – testimonia che il Pasternak
di Živago non è diverso dal Pasternak di Mia sorella, la vita, dal Pasternak del
magnetico poemetto Le onde. Nel 1935, invitato – e inviato per obbligo di Stato
– al “Congresso Internazionale degli Scrittori per la Difesa della Cultura”
ordito da André Gide e da André Malraux, Pasternak si espresse, in sostanza, con
le stesse, lapidarie parole: “La poesia rimarrà sempre eguale a se stessa, più
alta di ogni Alpe d’altezza celebrata: essa giace nell’erba, sotto i nostri
piedi… quanto più ci sarà felicità a questo mondo, tanto più sarà facile essere
artisti”. Fu a Parigi tormentato dall’insonnia, il suo intervento durò,
all’incirca, un paio di minuti: per la prima volta, dopo anni di lettere e di un
corpo – quello di Rilke – spartito, setacciato, depauperato, Pasternak incontrò
Marina Cvetaeva. Chissà se avrebbe scritto nello stesso modo Il dottor Živago se
Marina Cvetaeva non fosse morta, a fine agosto, nel ’41, di tutto priva, con la
corda al collo – messianica Marina.
Nel Dottor Živago appare perfino una ‘politica’, una ‘poetica della politica’.
Pasternak anela al tempo in cui “la vita di ognuno si svolgeva liberamente, non
secondo un’illustrazione didascalica”. Una vita in lode – senza legge; una vita
in comune – senza dominatori, nient’altro che erba; una vita infante, imberbe,
per sempre novizia. Una vita tesa al sacro – un sacro che un tempo (brevissimo,
come angelica apparizione) si chiamò “rivoluzione”, ma che è poi
riconciliazione. Una vita da primo e da ultimo giorno.
Il dottor Živago – vuoi per le circostanze storiche in cui è nato, vuoi per
l’esistenza del suo autore, devoto all’opera fino a morirne – resta un libro più
importante di altri ben più riusciti (Vita e destino di Vasilij Grossmann, ad
esempio, oppure i Racconti di Kolyma di Varlam Šalamov, per non dire dei libri
sperimentali di Andrej Belyj che tanto piacevano a Nabokov o di quelli radicali
di Aleksandr Solženicyn) perché è un libro che trascende la letteratura (“Il
fatto è che non so se esista più l’arte e che cosa essa significhi ancora”).
Pasternak, con la consueta, indulgente, indifesa indifferenza, tentò di
scarcerare il manoscritto del DottorŽivago dall’Unione Sovietica, dove il libro
non avrebbe mai visto luce, certo di ciò che sarebbe accaduto: l’infamia,
l’accusa, la messa al bando. In qualche modo, Pasternak doveva andare fino in
fondo, doveva spogliarsi. Desiderava il martirio. Non era più di questo mondo.
“Io sono già morto e tu vivi ancora” è l’attacco di una delle vertiginose poesie
di Živago, Il vento.
Quando, nel 1954, girò voce che Pasternak avrebbe potuto vincere il Nobel per la
letteratura – andò a Hemingway – ricevette una cartolina dalla cugina. Da
qualche tempo si scriveva con Ariadna, la figlia di Marina Cvetaeva, sepolta –
per effetto del lignaggio, si dirà: il padre, impegnato nei servizi segreti, era
stato ucciso nel 1941 – nelle prigioni staliniste, “siamo grandi amici, sebbene
l’abbia vista soltanto nel ’35 a Parigi, quando era ancora una bambina. È una
donna infelice e intelligentissima, che scrive delle lettere straordinariamente
piene di talento”. Alla cugina disse della necessità di “vivere silenziosamente
e segretamente”, che le viete circostanze della fama non avrebbero potuto
“cambiare di un minuto il corso delle ore della vita semplice, laboriosa, senza
nome e ignorata da tutti che conduco”. È vero, c’è sempre una bruma ambigua in
ciò che scrive Pasternak – ma che scrittura… Spesso, a Peredelkino, lo vedevano
con la zappa in mano – che è poi un modo per arpionare la penna. Spesso
camminava nei boschi. “C’è un angelo custode nella mia vita, questa è la cosa
principale. Siano rese grazie a lui”. Chissà se il suo angelo era tremendo
quanto quello di Rilke – o era uno di quelli imbozzolati tra quattro e sei ali,
immani crisalidi, incerti tra la figura sterile o la gravidanza in spade.
*In copertina: Julie Christie sul set del Dottor Živago
L'articolo “C’è un angelo custode nella mia vita”. L’epopea infinita del “Dottor
Živago” proviene da Pangea.