La riflessione filosofica sull’esperienza religiosa ha da sempre navigato
attraverso acque turbolente, tra le onde dell’impossibilità di rappresentare il
divino ed il desiderio umano di avvicinarsi ad esso. La tensione tra l’idolo e
la distanza, tra il desiderio di cogliere l’Essere assoluto e l’incapacità di
ridurre il divino ad una figura riconoscibile e domestica, è una delle
problematiche più acute della filosofia teologica e fenomenologica. Questa
distanza, non solo ontologica, ma anche etica ed esistenziale, solleva
interrogativi che attraversano secoli di pensiero.
La filosofia dell’idolo è, per così dire, una filosofia della rappresentazione,
ma non una rappresentazione che possa mai colmare l’abisso che separa il finito
dall’infinito. L’idolo, nel suo significato originario, rappresenta una
proiezione umana del divino, un tentativo di incarnare l’immensurabile in forme
finite. Questa rappresentazione, pur sembrando un accostamento possibile, è,
paradossalmente, la negazione stessa del divino: l’idolo è insieme la verità e
la sua distorsione, la vicinanza e la separazione. La fenomenologia dell’idolo
non può prescindere dalla consapevolezza di un abisso che lo separa dalla
divinità autentica. Da una parte, l’idolo si presenta come il tentativo di
incarnare il trascendente nel finito, dall’altra come il segno di un fallimento
incolmabile, come un simbolo che riduce l’infinito a un’immagine mortale.
La filosofia kantiana, nel suo rigore critico, aveva già messo in luce
l’impossibilità di una rappresentazione adeguata del divino: ciò che è veramente
divino sfugge inesorabilmente alle maglie della comprensione umana. La nozione
di “cosa in sé” esprime una realtà che, pur manifestandosi fenomenicamente,
rimane incognita ed inconoscibile. Non possiamo ridurre Dio ad una
rappresentazione sensibile, né interpretare la sua essenza con le categorie
dell’esperienza. L’idolo, in questo senso, si fa segno di una distanza
irrimediabile, di una separazione ontologica che fa del divino l’oggetto di una
contemplazione che è sempre, al contempo, una perdita di contatto con il divino
stesso. In Kierkegaard, questo abisso tra l’umano ed il divino si esprime
attraverso il concetto di “salto della fede”. La religiosità, per Kierkegaard,
non è una forma di conoscenza oggettiva, ma un atto di fede che sfida ogni forma
di rappresentazione, ponendo l’individuo di fronte ad una divinità che, pur
rivelandosi nella sua alterità, rimane sempre fuori dalla portata della
comprensione. La fede non è un atto di possesso del divino, ma un atto di
abbandono, di apertura ad un mistero che trascende ogni possibilità di idolo,
ogni tentativo di ridurre l’infinito ad una figura conoscibile. Nel momento in
cui il divino viene sottratto alle categorie ontologiche tradizionali, la
domanda su Dio si sposta dal piano dell’essere a quello dell’alterità assoluta.
La filosofia contemporanea, a partire da Heidegger, si è confrontata con la
necessità di pensare Dio non come un essere, ma come un’alterità che sfida ogni
definizione ontologica. Per Heidegger, l’essere stesso non è Dio, ma la sua
“abbandonata” manifestazione; eppure, proprio questa lontananza dell’essere
diventa il terreno di un’interrogazione che resta sempre aperta e
inassoluta. Dio, in questo quadro, non è un essere, ma un oltre, un’apertura che
non può essere colta se non come un’assenza. L’essere stesso è “vuoto” rispetto
alla presenza del divino, e in questa “assenza” risiede la possibilità del
divino di farsi presente, ma sempre sfuggendo alla piena conoscenza.
La fenomenologia dell’eccesso, che pervade la riflessione sul divino, trova una
delle sue espressioni più potenti in Emmanuel Levinas. Per Levinas, Dio è
l’alterità per eccellenza, l’ineffabile che si manifesta nel volto
dell’altro. L’incontro con l’altro, per Levinas, non è mai un semplice incontro
con una realtà finita, ma l’esperienza di un’infinità che sfida ogni pretesa di
riduzione a concetti finiti. Dio, dunque, non è mai un essere tra gli esseri, ma
l’appello che giunge dall’alterità assoluta, dalla distanza che non può mai
essere colmata. In questa prospettiva, la filosofia di Levinas non solo sottrae
Dio alla rappresentazione, ma lo colloca al di là dell’essere, in un ordine che
non può essere messo a sistema, ma che è continuamente esperito come un eccesso
che infrange ogni tentativo di ridurre la realtà ad un oggetto conoscibile. Se
Dio non è riducibile all’essere, se l’idolo ne distorce l’immagine, e se la sua
manifestazione sfugge alle maglie della rappresentazione, allora la
fenomenologia del divino diventa una fenomenologia dell’eccesso. Il divino si dà
non come un concetto, ma come un oltre che irrompe nell’esistenza in una forma
che non può essere afferrata, ma solo vissuta come una tensione, un’aspirazione
che resta sempre inappagata. L’esperienza del divino, in questa luce, non è una
conoscenza, bensì un incontro con l’inconoscibile che ci sfida ad abbandonare
ogni pretesa di dominio. Così come il volto dell’altro ci sollecita a una
responsabilità che non può essere risolta in una semplice rappresentazione, Dio
si fa esperienza di un’infinità che ci solleva e ci sospende.
Anche Nietzsche, nel suo pensiero sulla morte di Dio, non intende un
annientamento del divino, ma un superamento delle metafisiche che hanno ridotto
il divino ad un’entità da comprendere e dominare. La morte di Dio, per
Nietzsche, non è la fine del divino, ma la fine di un concetto di divinità che
poteva essere compreso e ordinato. Dio, nell’ordine della volontà di potenza, è
il segno di un oltre che non può essere trattenuto da alcuna rappresentazione,
un’espressione di una forza che travalica ogni limitazione. La fenomenologia del
divino si presenta come un’esperienza di tensione e distanza, in cui l’idolo,
pur avvicinando l’uomo al divino, ne tradisce l’essenza. L’idolo è la forma che
il divino assume nel tentativo di essere afferrato dal finito, ma è anche il
segno di una separazione che lo rende irriducibile a ogni figura e
rappresentazione. Il divino, nell’alternativa proposta dalla fenomenologia
dell’eccesso, non è un essere, ma un’alterità che si fa presente solo
nell’inaccessibilità, solo nella distanza che resta. Non c’è concetto che possa
contenere Dio, non c’è rappresentazione che possa esaurirlo. Solo l’esperienza
di un incontro con l’infinito ci permette di avvicinarci al mistero, senza mai
riuscire a comprenderlo appieno. Eppure, proprio in questa impossibilità di
possederlo, il divino si rende manifestamente presente come l’oltre che ci
interpella senza risposte definitive, come un’eccedenza che sfida ogni tentativo
di riduzione all’essere.
Jean-Luc Marion, nel suo Dio senza l’essere (Dieu sans l’être, 1982), si propone
di superare la tradizione ontoteologica che ha caratterizzato il pensiero
occidentale, in particolare a partire dalla scolastica e dalla sintesi
heideggeriana della metafisica. La tesi fondamentale dell’opera è che Dio non
possa essere costretto entro le maglie del concetto di essere, poiché
quest’ultimo è un determinante filosofico che riduce la trascendenza alla misura
del pensiero umano. In questo senso, Marion si inserisce in un solco di critica
radicale alla metafisica occidentale, riprendendo e rielaborando le intuizioni
di pensatori quali Heidegger, Derrida e, ancor più, la tradizione teologica
negativa che da Pseudo-Dionigi l’Areopagita arriva fino a Meister Eckhart.
Marion accoglie la diagnosi di Heidegger sull’ontoteologia, secondo cui la
metafisica occidentale ha sempre pensato Dio a partire dall’essere,
trasformandolo in summum ens, cioè in un ente supremo, anziché lasciarlo nella
sua irriducibile alterità. In tal senso, il Deus ens della tradizione tomista e
scolastica è per Marion una forma di idolatria concettuale, poiché costringe Dio
entro categorie umane. Tuttavia, mentre Heidegger suggeriva un Gelassenheit, un
lasciar-essere che aprisse all’evento della verità dell’essere, Marion sposta il
centro dell’attenzione su un altro concetto: il dono. Come scrive:
> «L’essere non ha titolo sufficiente per pensare Dio, e dunque deve essere
> decostruito a favore di un pensiero dell’eccedenza».
Questo lo pone in contrasto con l’ermeneutica heideggeriana, che pur
individuando la problematica dell’ontoteologia, non riesce a liberarsi del
primato dell’essere. Dio non si definisce in base all’essere, bensì in base al
dono assoluto, un’eccedenza che non può essere ricondotta ad una logica
ontologica. Qui, Marion introduce il concetto chiave del fenomeno saturo, cioè
un fenomeno che si manifesta in eccesso rispetto alla capacità del soggetto di
accoglierlo e comprenderlo. L’evento rivelativo divino è esattamente questo:
qualcosa che si dona senza misura, oltrepassando la possibilità di essere
oggettivato. Egli scrive:
> «Dio non è, bensì dona se stesso senza riserve, e nel donarsi eccede ogni
> concettualizzazione».
Questo concetto richiama la surabondance di Henri de Lubac e il pensiero di
Emmanuel Levinas, il quale afferma che «l’Altro si presenta come ciò che non può
essere ridotto a un concetto» (Levinas, 1961). Tuttavia, mentre per Levinas il
volto dell’Altro è l’accesso etico alla trascendenza, per Marion il dono divino
è un’eccessività che si manifesta senza condizioni.
Uno dei momenti più densi del testo riguarda la distinzione tra idolo e icona,
già centrale in L’idole et la distance (1977). L’idolo è l’immagine che chiude
lo sguardo su di sé, che permette all’uomo di contenere il divino nel proprio
orizzonte. L’icona, al contrario, è ciò che si sottrae allo sguardo, che invita
lo sguardo umano a oltrepassarsi, a non esaurirsi nella rappresentazione. Dio,
nel suo rivelarsi, non è un idolo concettuale, ma un’icona che lascia
intravedere un’eccessività irriducibile:
> «L’icona non è ciò che noi vediamo, ma ciò che ci guarda».
Questa distinzione si rivela decisiva nel contesto della teologia negativa,
poiché sposta l’accento dalla definizione di Dio alla sua fenomenalità come
rivelazione eccedente. Se l’idolo è un riflesso che il soggetto controlla,
l’icona è il punto in cui il soggetto si scopre guardato:
> «Nell’icona, non siamo noi a vedere, ma siamo visti».
Questo si ricollega alla mistica cristiana, dove la contemplazione non è il
raggiungimento di Dio, ma il lasciarsi invadere dalla sua presenza. Non
sorprende che il pensiero marioniano trovi assonanze profonde con la tradizione
mistica cristiana. La sua critica all’essere è, in un certo senso, un recupero
della via negativa che attraversa Pseudo-Dionigi, Maestro Eckhart e persino la
mistica carmelitana di Giovanni della Croce. Dio non è colto nell’essere, ma
nell’esperienza del suo donarsi, un’esperienza che rimane sempre sovrabbondante
rispetto alle nostre categorie. Come scrive Pseudo-Dionigi:
> «Dio è più alto di ogni affermazione e più nascosto di ogni negazione».
>
> (De Mystica Theologia)
Questo si sposa perfettamente con la nozione di fenomeno saturo di Marion, che
indica una rivelazione che eccede ogni presa concettuale.
In Dio senza l’essere, Marion ci offre un pensiero radicale e vertiginoso, che
tenta di liberare la riflessione su Dio da ogni compromissione con la
metafisica. L’uscita dall’ontoteologia non è solo un gesto decostruttivo, ma
l’apertura a una nuova possibilità di pensare la trascendenza: non come essere
supremo, ma come dono infinito. Questa prospettiva lo distingue da altri
pensatori della decostruzione del divino come Derrida, per il quale il concetto
di différance lascia Dio in una sospensione incessante. Marion, invece, va oltre
la sospensione e si inoltra nell’esperienza di una rivelazione che si dona in
sovrabbondanza. In questo, il pensiero di Marion rappresenta una delle sfide più
affascinanti e audaci della filosofia contemporanea, tracciando un percorso che
collega fenomenologia, teologia negativa e mistica in un dialogo fecondo.
Giusy Capone
*In copertina: Jan van Eyck, Polittico dell’Agnello Mistico, 1426-1432,
particolare
L'articolo “Dio non è, bensì dona se stesso senza riserve”. Per una
fenomenologia dell’eccedenza proviene da Pangea.
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“Ci voleva un maomettano.” Così scherza Pietrangelo Buttafuoco, non accreditato
motore del progetto straordinario della Biennale di Venezia
dedicato all’Expositio Sancti Evangelii secundum Iohannem del filosofo e teologo
domenicano “Meister” Johannes Eckhart (1260 – 1328 ca.), in scena a Venezia fino
al 15 marzo.
Ma più che un maomettano, chi scrive aggiungerebbe che ci voleva un Buttafuoco
per trasformare in spettacolo lo sguardo che la vertigine teologica di Eckhart
schiude sulle pagine evangeliche di Giovanni, scegliendole in relazione a cinque
temi: Logos, Essere, Amore, Bene e Male, Anima e Corpo.
Le risposte a ciascuno di questi soggetti, antologie tratte
dall’Expositio eckhartiana, diventano così una serie di spettacoli di “teatro
della parola”, che prendono vita nel Portego delle colonne della Scuola Grande
di San Marco. Grazie alla visione del regista Antonello Pocetti e dello
scenografo Antonino Viola (già protagonisti della ricreazione del Prometeo di
Luigi Nono nel 2024), lo spazio si trasforma in una basilica trascendente, dalle
pareti mutevoli, che si popolano di scorci d’arte, figure astratte e giochi
d’ombre (opera dell’artista video Andrew Quinn).
Un pulpito è posto al centro – come quello che si racconta fosse stato fatto
realizzare da Savonarola per la chiesa di San Marco – e da esso si irradia la
parola, il Logos. Una triplice voce, talvolta corale, talvolta dialettica
(interpretata dagli attori Federica Fracassi, Leda Kreider e Dario Aita), tuona
da dietro un velo. (E qui la mente già si sforza di superarlo per affrontare il
mistero: tra le sue pieghe l’akousma pitagorico, il velo del Tempio, ma anche le
cortine chiuse dei presbitèri orientali in questo tempo di Quaresima).
L’Expositio serve, se non a squarciare quel velo, a renderlo trasparente: la
parola ambisce a far “apparire attraverso” (trans-parere) la verità
trascendente, in linea con la vocazione dell’Ordo predicatorum a cui Eckhart
apparteneva (insieme a Tommaso d’Aquino, Caterina da Siena e Alberto Magno, per
citare alcuni illustri domenicani).
Ma in queste serate veneziane, accanto al Logos come ragione, parola e
argomentazione, troviamo anche il Logos come suggestione sottile e non verbale.
L’uno al centro, l’altro tutt’attorno: oltre alla dialettica con l’arte
suggerita dai mutevoli muri di video, il “dramma totale” in scena alla Scuola di
San Marco si avvale anche della musica. Canto gregoriano, per lo più, ma anche
telluriche e primordiali polifonie improvvisate, eseguite dal Coro della
Cappella Marciana diretto da Marco Gemmani, promana da quattro palchetti intorno
al pubblico. Dopotutto, il canto gregoriano è musica rivelata, e in esso ancora
si manifesta il Logos.
Ogni sera, dunque, ottanta adepti si raccolgono tra le colonne della Scuola di
San Marco e assistono all’esposizione di quel pensiero attorno a cui è stato
costruito questo immaginifico apparato, che racchiude la teatralità del dramma
come rito: le parole e il pensiero di Eckhart, a suo tempo – e così ancora oggi
– in bilico tra santità sapienziale ed esoterica eresia.
Nelle prime due sere, per il Logos e l’Essere, Eckhart ci parla di un Verbo
creatore e divino, Essenza trascendente che coincide con Dio e che diviene
altresì principio divino dell’anima umana: quella Parola (magica?) che permette
l’unione mistica con Dio. Poi, l’Amore: amore per Dio, testimoniato dai mistici,
e amore di Dio per la creazione, che ama sia l’altro da sé sia quanto di sé è
nella creazione.
Le ultime due diadi teologiche chiudono i cinque episodi: Bene e Male, Anima e
Corpo. Qui la cautela è d’obbligo: il Dio eckhartiano è totalmente trascendente,
al di là di ogni conoscenza, e dunque si sottrae alle categorie umane. Il bene e
il male, intesi in senso umano, non esistono, ma esiste solo il bene del seguire
Dio, senza porsi il problema di cosa sia bene o male. Allo stesso tempo, non c’è
contrapposizione tra mondo (e dunque corpo) e Dio, poiché il mondo è teofania
continua e presente. Per l’“uomo nobile” non c’è “contemptus mundi”, ma una
gioia continua nella contemplazione della potenza dell’Essere divino,
percepibile nel mondo fisico e percepibile.
Nelle prime serate, con la prima sequenza di cinque episodi, ospiti speciali
hanno offerto prospettive e spunti illuminando il multiforme testo eckhartiano:
il Cardinale Tolentino de Mendonça, il filosofo Peter Sloterdijk, la studiosa
d’arte Cristiana Collu, la filologa e critica Monica Centanni, il Patriarca di
Venezia Francesco Moraglia. Troppo lungo sarebbe anche solo richiamare i momenti
più alti dei loro interventi, ma, nella loro libertà, peculiarità, rivelazione
personale delle prospettive interiori dei cinque ospiti, questi testi
preparavano i convenuti al viaggio, lo facevano avvicinare ed immergere
nell’atmosfera mistica, disponevano lo spirito e la mente a quello che sarebbe
venuto di lì a poco.
Eppure, per quanto illuminanti, questi interventi appartengono alla dimensione
della superficie razionale. La comprensione vera avviene dopo: quando si
spengono le luci, il velo si chiude, e comincia il rito.
Carlo Ferdinando de Nardis
L'articolo Eckhart on stage. Inseguire Dio: l’Expositio del teologo domenicano
alla Biennale proviene da Pangea.