Nel 1988 Giovanni Pozzi e Claudio Leonardi pubblicarono, per Marietti,
un’antologia di Scrittrici mistiche italiane. Il libro, straordinario, finito
fuori dai radar editoriali da tempo –nello schema generale, è riproposto
in Mistiche, Magog, 2025, a cura di Alessandro Deho’ –, testimonia una sorta di
contro canone della nostra letteratura. Le “mistiche” contemplate da Pozzi e
Leonardi – non tutte contemplative, dacché si contempla, come scriveva Cristina
Campo, “preparando torte, lavando le stoviglie, prendendosi cura degli altri”;
dalle notissime, Angela da Foligno, Caterina da Siena, Veronica Giuliani, alle
purissime ignote, Osanna Andreasi, Maria Celeste Crostarosa, Angela Gavazzi
– sono state spesso vessate, marginalizzate, processate. Del cristianesimo,
propongono la via eccezionale, degli eccessi; la via oscura.
Tra queste, alcune sono state madri e mogli, altre prostitute (Caterina
Vannini); Carlo Emilio Gadda preferiva Maria Gaetana Agnesi, “matematichessa e
filosofa”, donna d’alto ingegno – insegnò matematica all’Università di Bologna,
nel 1750 – che si diede alle opere di carità e alla teologia senza appartenenza
ad alcun ordine. Di queste donne, scrittrici per estro e per necessità, sono
proprie l’ossimoro e la tautologia, “figure linguistiche di frontiera”, che
sfidano “l’ineffabile”. Ossimoriche e tautologiche, piuttosto, sono le “Otto
mistiche laiche del Novecento” riferite da Lucetta Scaraffia in Dio non è
così (Bompiani, 2025), donne “di frontiera”, “ineffabili”, protagoniste di un
> “tipo di esperienza mistica di natura spontanea, oserei dire selvaggia… non
> nella gabbia di schemi consolidati e accettati, ma con una libertà nuova”
> (Scaraffia).
Donne di rottura, donne dirompenti.
Alle biografie più attese – Simone Weil, Chiara Lubich, Romana Guarnieri –,
redatte con mano partecipe, a tratti impetuosa, seguono profili spiazzanti:
quello di Banine, ad esempio, l’audace scrittrice di origine azera che
scandalizzò i salotti di Parigi, amante-amica di Henry de Montherlant e di André
Malraux, baccante supplice di Ernst Jünger (si legga: Banine, Incontri con Ernst
Jünger, De Piante-Terra Insubre, 2021), che nel folgorante diario, Ho scelto
l’oppio (Massimo, 1965; riprodotto in parte dalle edizioni Magog, 2022),
racconta la catabasi nella conversione (fino al desiderio di sedurre il proprio
confessore). Il libro è aperto dal profilo di Catherine Pozzi, poetessa di
vitrea sapienza, amata da Paul Valéry – che, in sostanza, non la capì –, amica
di Rilke, pari, per vertigine, secondo Michel de Certeau, alla grande mistica
Hadewijch. “Essere donne, essere in un certo senso sempre irregolari, dà a tutte
una ampiezza di vedute che la porta a scelte innovative”, scrive la Scaraffia:
l’abbiamo contattata. Non credo sia un caso la citazione, in esergo, di
Benedetto XVI: “Querere Deum – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui”. Era il
settembre del 2008, il santo padre parlava a Parigi, al Collège des Bernardins.
> “Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come
> non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della
> ragione”.
Disse questo, tra l’altro.
Circoscriviamo il termine. Cosa intende per “mistica”?
Per mistica intendo passione per l’assoluto, ricerca di raggiungere un contatto
personale con l’assoluto.
Quando parla di mistica “selvaggia” mi ricorda Paul Claudel che aveva coniato, a
proposito di Rimbaud, la formula “mistico allo stato selvaggio”. Come dobbiamo
dunque intendere la mistica “femminile”?
Mistica selvaggia perché è esperienza vissuta al di fuori dei codici imposti
dalla religione, che ha cercato di controllare l’esperienza mistica e di
certificarla distinguendola in buona e cattiva, cioè demoniaca. Queste otto
donne non erano alla ricerca di una codificazione da parte religiosa
istituzionale, sia perché non erano religiose professe sia perché se lo potevano
permettere: nel ’900 non correvano più il pericolo di venire punite come
eretiche. Una libertà dalla religione istituzionale che si configura anche come
libertà dal controllo maschile. Per questo penso che fossero tutte, più o meno
consapevolmente, femministe: del resto lo prova la loro vita.
Proseguendo e variando la domanda precedente: la mistica esprime il proprio
misticismo attraverso il linguaggio, oppure nell’agire nel tempo? Insomma, qual
è il carisma del misticismo?
Esistono diversi tipi di misticismo, anche se quello più noto è quello
certificato dal linguaggio, cioè dal racconto diretto delle esperienze mistiche.
Queste donne, quasi tutte fini intellettuali, hanno raccontato la loro
esperienza per scritto, in modi diversi fra di loro, e con modalità diverse da
quelle tradizionalmente attribuite alla narrazione dell’esperienza mistica.
Proprio per questo svolge un ruolo importante anche la loro vita che, in tutti i
casi, dimostra la possibilità di sperimentare un rapporto intenso con l’assoluto
all’interno di vite normali, segnate da una professione, spesso una famiglia e
comunque anche rapporti intensi e perfino trasgressivi con uomini. In questo si
misura tutta la loro libertà.
Lei è Lucetta Scaraffia
Mistica, di solito, si lega a un pensare e a un vivere eterodosso. È davvero
così? Perché?
In realtà, nella storia del cristianesimo, mistica si lega a una vita super
ortodossa, rinchiusa al mondo, dedicata a una ascesi totale. Il controllo
esercitato sulle mistiche imponeva loro di provare la verità del rapporto con il
divino attraverso una vita di rinunce. Lo stile di vita eterodosso, legato a
una mistica che possiamo definire “selvaggia”, nasce dalla particolare posizione
morale in cui si trova a vivere chi sperimenta queste esperienze, al di sopra
del bene e del male.
Le mistiche sono un punto permanente di contraddizione. La loro, mi pare, è la
purezza nell’impurità. In questo, sono autenticamente ‘cristiane’. Mi sbaglio?
Eppure, come penetra il ‘religioso’, la danza dell’invisibile, nella biografia
delle donne di cui scrive?
Certo le loro biografie sono ricche di contraddizioni. Il religioso penetra come
ricerca di qualcosa di più, di un amore assoluto del quale provano una sete
inesauribile, quasi dolorosa.
La mistica e la Storia. Come si colloca l’esperienza, singolarissima, delle
‘sue’ donne nelle temperie del secolo, del mondo, del mondano?
Le mie donne sono completamente immerse nel mondano, nella storia del loro
tempo, fino alla fine. L’esperienza mistica non le pone fuori dal mondo, ma
suggerisce loro una lettura diversa del mondo in cui vivono e in cui continuano
a vivere. Una lettura che comunicano agli altri, attraverso poesie, diari,
saggi, lettere, assolutamente originali.
Quale, tra le figure che ha scelto, l’ha sorpresa per l’audacia, per la
‘sconvenienza’?
Direi Banine, la musulmana atea che nei suoi libri autobiografici racconta con
ironia di avere fatto quello che noi oggi chiamiamo la escort, che non rinnega
niente della sua vita avventurosa e difficile, e che sa far crescere la sua sete
di conoscenza intellettuale in sete di conoscenza mistica e raccontarla.
Mi pare, a bracciate, che la mistica italiana più mistica di tutte, per
anomalia, sia Cristina Campo. Lei non l’ha rubricata, non l’ha detta. Come mai?
Certo che ho letto Cristina Campo, che amo moltissimo. Ma più che una mistica mi
è sembrata una cacciatrice di misticismo, che sa riconoscere a raccontare, e
soprattutto far scoprire e amare. Ma non mi è mai sembrata una mistica lei
stessa, se pure una donna di straordinaria sensibilità.
Ho anche trascurato Etty Hillesum, che certo era una mistica della stessa
famiglia delle mie otto mistiche, ma sulla quale si è già detto e scritto tanto.
Ugualmente non ho inserito Maria Zambrano, che considero mistica, perché non
sono riuscita a trovare documentazione esauriente sulla sua vita.
Le chiedo un giudizio sul pontificato di Francesco. Che ruolo hanno avuto le
‘mistiche’, diciamo così, nel suo governo?
Papa Francesco non è mai stato interessato alle parole delle donne, neppure se
mistiche.
Spero che questo papa sia equilibrato e prudente, che ristabilisca pace e
armonia in una chiesa lacerata. Non ho speranze per il ruolo delle donne: nessun
gruppo di potere ha mai ceduto il suo potere spontaneamente. Solo le religiose
possono combattere e ottenere dei risultati veramente significativi, cosa che
fino ad ora non è avvenuta.
*In copertina: una immagine da “Persona”, film di Ingmar Bergman del 1966
L'articolo “Passione per l’assoluto”. Mistiche, cioè: donne allo stato
selvaggio. Dialogo con Lucetta Scaraffia proviene da Pangea.
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Nel marzo del 1963, con il cuore di vetro, “quando bastano tre note di musica
per scoppiare a piangere”, Cristina Campo scrive a “Mita” – cioè Margherita
Pieracci Harwell – che “è morto, giorni fa, William Carlos Williams. Ora non c’è
più nessuno da amare, nella poesia”.
Per la precisione, William Carlos Williams era morto il 4 marzo, a Rutherford,
New Jersey, dove era nato, 79 anni prima. Si sbaglierebbe, tuttavia, a crederlo
un poeta sedentario, seduto. Nei tratti del viso, aperti, solari, primaverili –
“la primavera, il caldo tempo che torna malgrado tutto”, è, secondo la Campo, il
carisma della poesia di Williams – s’intravede la geologia familiare: papà di
origini inglesi cresciuto nella Repubblica Dominicana, madre di Porto Rico con
ascendenze francesi, basche, e finiture ebraiche. In Ritratto dell’autore, il
poeta parla di sé parlando della betulla – “Le betulle sono una follia di
puntolini verdi/ il limitare del bosco brucia del loro verde” –, che per gli
sciamani siberiani è l’albero cosmico, “un albero di luce… simbolo di saggezza”
(così Alfredo Cattabiani, Florario, Mondadori, 1996).
Il poeta aveva studiato a Ginevra, a Parigi, a Filadelfia. Si era perfezionato
in Germania. Tornato a Rutherford, Williams esercitò come medico pediatra: “nel
corso di mezzo secolo aiutò a venire al mondo più di duemila bambini nella sua
piccola città” (Luigi Sampietro). Il dettaglio, al di là dei rilievi
superficiali – il poeta s’installa nella schiera dei medici-scrittori, Čechov,
Bulgakov, Céline, Benn… –, è sostanziale: Williams, pur tra i maestri del
“modernismo”, è poeta della vita, della luce, di una poesia coerente e concreta,
di cui si fa pasto; è un poeta della primavera. Per questo, non gradì La terra
desolata di Thomas S. Eliot, quei versi ingegnosi, disarticolati, meccanici: una
“bomba atomica”, la diceva, una catastrofe. In fondo, pensava che Ezra Pound lo
avesse tradito. Si conoscevano dagli anni dell’università, in Pennsylvania, “è
un bravo ragazzo, icona dell’ottimismo, dai modi eccentrici”: così l’aveva
descritto alla madre. Pound, come sempre, si era dato da fare per aiutare
quell’amico di genio: a Londra lo aveva presentato a Yeats; lo aveva introdotto
nell’alcova di “Poetry”, l’autorevole rivista guidata da Harriet Monroe; ne
aveva fatto uno dei suoi scudieri, inserendolo nell’antologia “Des Imagistes”
(1914). Nell’Autobiography (1951), William Carlos Williams ricorda una recita
universitaria, Pound interpreta una donna, “aveva una parrucca stravagante,
gesticolava selvaggiamente, brandiva i seni enormi in un’estasi di estrema
emozione”.
Per farla breve, William Carlos Williams ha scritto alcune delle poesie in
lingua inglese più belle del secolo scorso. “Vivono/ secondo la Sacra luce
dell’amore/ che governa,/ osteggiando la disperazione,/ questo giardino”, scrive
il poeta in The Mental Hospital Garden. C’è sempre una gioia barbara e imberbe,
antimoderna, inebriata e infantile nelle poesie di William Carlos Williams,
degno figlio di Walt Whitman: ci vuole il coraggio della gioia a scrivere di un
cacciatore che ride mentre conficca “un pugnale da caccia… nelle parti intime
dell’animale”, e comprendere, nonostante tutto, che “tu sei un poeta che crede/
nel potere della bellezza/ capace di sanare ogni malattia” (To a Dog Injured in
the Street).
Più passa il tempo, più sembra che la diarchia che ha dominato la poesia del
secolo debba essere sostituita. Non sono più Thomas S. Eliot e Ezra Pound i
reggenti della poesia in lingua inglese, ma William Carlos Williams e Wallace
Stevens. Entrambi poeti nottambuli, di traverso, impiegati in professioni aliene
alla letteratura (Stevens lavorava per una grande compagnia di assicurazioni).
Ma questo è poco importante, ora, chiederebbe troppe spiegazioni.
Piuttosto, William Carlos Williams è tra i rari poeti che migliorano
invecchiando. Nel 1953 fu premiato con il Bollingen Prize – quattro anni prima
era andato all’amico Pound –, dieci anni dopo ottenne il Pulitzer per Pictures
from Brueghel and Other Poems. Nel 1952 era stato eletto “Consultants in
Poetry”, massima onorificenza lirica per il mondo americano: gli fu sottratta
perché aveva osato scrivere una poesia, Russia, che gli attirò un’accusa di
comunismo. Allen Ginsberg lo implorò di introdurre il suo poema
psichedelico, Howl. Secondo Cristina Campo, i beat, “quel patetico gruppo
inarticolato, che urla a pieni polmoni un’estasi troppo simile al pianto”, non
avevano capito nulla di Williams, che pareva, per sapienza rarefatta, un poeta
dell’antica Cina, un sapiente alla stregua di Chuang-tzu, “il più solitario
della poesia americana contemporanea”. Fu proprio la Campo a tradurre Williams
in Italia, insieme a Vittorio Sereni, in due libri di pregio (Il fiore è il
nostro segno, nel 1958, per Scheiwiller, e Poesie, Einaudi, 1961).Eppure, la
poesia di Williams non ha attecchito nel nostro paese, editorialmente prono a
mode più fittizie: per questo, l’antologia curata da Luigi Sampietro e tradotta
da Damiano Abeni per Bompiani nel 2023, A un discepolo solitario,colma a tratti
un vuoto imbarazzante. Stupisce, piuttosto, che non si faccia cenno al lavoro
miliare della Campo: le sue versioni spesso prevalgono, per bellezza di
linguaggio, su quelle di Abeni.
Gli ultimi anni della sua vita – dal 1946 al 1958 – Williams li passò
scrivendo Paterson, poema epico in cinque libri, una Iliade urbana. Si proponeva
di raccontare la città con un linguaggio nuovo, capace di riprodurre “il rumore
delle Cascate”. Di questo poema, “opera tra le più importanti della letteratura
americana” e che “più di ogni altra ha reso William Carlos Williams una figura
fondamentale della nuova poesia americana” (così la quarta dell’edizione
Mondadori, a cura di Alfredo Rizzardi, 1997, ormai fuori catalogo) non c’è
traccia in questa antologia. Pazienza. Ci restano testi meravigliosi, tra cui
spicca Asfodelo, fiore che allude al verde, da imparare a memoria, immane,
immedicabile poesia d’amore, dell’“amore che ingoia tutto il resto”.
L’amore ricorre spesso in queste poesie. 64 volte. Ho contato. E sempre nel modo
giusto: frontale, olimpico, primaverile.
L'articolo William Carlos Williams, il poeta della primavera, della “Sacra luce
dell’amore” proviene da Pangea.