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“Dell’amore che buca l’opacità del mondo”
La Trinità di Andrej Rublëv è un incanto dilatato, di terso silenzio: scoscendimento contemplativo, esperienza dell’ustoria gioia del proprio limite. Il contenuto narrativo è tronco: tre angeli che appaiono a Abramo sotto le querce di Mamre (Genesi 18,1-3) – tre persone, una voce sola –, e vivamente alludono alla Trinità. Immagine cui ubbidire immobili, nell’estasi degli aurei sfondi che trasudano dal legno; la disposizione di spazi e flussi di chiarore, la trasparenza delle forme, l’azzurro profondo reiterato nei mantelli sono proiezioni all’infinito; giovane e tenero verde: profumo dell’aperto, spirito vivo; e il porpora velato, scuro del sacrificio: kenosi, offerta. Teologia cromatica ardente, luminescenze che non appartengono alla fisica terrestre della luce, bensì a quell’urgenza epifanica che porta l’annuncio dell’increato nel visibile. L’elemento umano è espunto, tutto è nei tre angeli, esilissimi, dalle ali incorporee, seduti intorno a una mensa che reca il calice eucaristico: da narrazione a diafanìa mistica: visione circonfusa di bagliori soprannaturali, che sostiene la tensione all’ulteriore: la coinerenza armonica, circolare, delle tre essenze trinitarie. La quercia di Mamre: albero della vita, tronco della croce; sullo sfondo la tenda di Abramo, la casa del Padre; la montagna della rivelazione; e, intessuti di aurea chiarità, i tre angeli: in un cerchio quasi perfetto, a inclinare corpi e volti l’uno verso l’altro, creando in chi osserva il ritmo interiore, silente, del reciproco amore. Guardare la Trinità è nuda intuizione del proprio limite, che spezza lo sguardo in preghiera. Il mistero rimane stretto, inospitale, ma sfiora il basso profondo dell’umana ferita. Si partecipa senz’afferrare, possedere. Chi guarda è chiamato a sostare, ai ripidi declivi dell’assoluto, soffrendolo in amore: tale il ruolo kenotico dell’icona, “immagine conduttrice”, via “apofatica”, “ascendente” secondo Pavel Endokimov[1], che si fa limen di catarsi trasfigurativa, evidenza di inadeguatezza, pur adorante, grata. Rublëv vive in epoca asservita, tumultuosa: il giogo tataro, i pesanti tributi all’Orda d’Oro, le frammentazioni, i saccheggi: dilaniata e oppressa la Rus’, non trovando spazi esteriori, reagiva interiormente, con la spiritualità devota e unificante di Sergio di Radonez, “umile servo della Trinità”: dal monachesimo disadorno, spoglio e il carisma mistico di un alter Christus del Medievo. Rublëv iconizza questa condizione: l’impossibilità di comprendere, di circoscrivere il fenomeno porta a una dolente evoluzione intima e personale. È Pavel Florenskij a rilevare, più di chiunque altro, il ruolo attivo, salvifico dell’icona, visuale in grado di sbalordire “con un colpo solo anche lo sguardo più insensibile”, mediante “quel senso acuto, che penetra l’anima, della realtà del mondo spirituale che, come un colpo, come una scottatura, sconvolge all’improvviso” chi osserva, dando “un’autentica percezione dell’aldilà, un’autentica esperienza spirituale”[2]; fino a poter dire: “se esiste la Trinità di Rublëv, allora esiste Dio”[3]. È la condizione del limite che patisce l’intero, l’irreparabile splendore: struggimento che diviene vocazione. Andrej Rublëv, Trinità, 1422 ca. * Così Osip Mandel’štam, astro di mitezza, prono solo all’infinito: perseguitato e indomito, di fronte alle crudeltà della storia rende il suo dire poetico frastagliato e regale, ardito come una leggiadra burrasca: teneramente grave, dal passo sinfonico, concussivo, incendiario nella neve. Autentico poeta del limite, che del dolore fa vermigli diaspri, parola tremante in ragione dell’immenso: “Mia tristezza fatidica, presaga,/ mia quieta, silenziosa libertà/ e tu, sempre ridente, là, cristallo/ della volta celeste inanimata!”[4]. Uno splendore inanimato, che tuttavia commuove. Cozzando con la propria esiguità, il poeta schiude interiormente al sublime:  > “Io mi porto questo verde alle labbra – > questo vischioso giurare di foglie – > e questa terra che è spergiura: madre > di bucaneve, aceri, quercioli. > > Mi piego alle umili radici, e guarda > come divento insieme cieco e forte”[5]; di fronte a oppressioni e persecuzioni, di fronte all’ottusa concretezza, rappresa e incoercibile, della materia e della storia, l’esperienza tetra e glaciale pone il cuore a disarmo, portandolo a fulgore riverso, in intento e parola:  > “dura è la terra, secondo coscienza. > Rintraccerai a stento più puro ordito della > verità d’una tela di bucato. > > Si disfa come sale, nella botte, una stella; > più buia è l’acqua gelida, più pura > la morte, più salata la sventura, > ed è più onesta e paurosa la terra”[6]. Se onesto e pauroso è ciò che si staglia dinanzi, se fuori è durezza e gelo, dentro è retrogrado incendio. È la barriera che sbarra il passo, e dunque impone il retrocedere nei culmini accesi, nelle frugate, rinvenute nobiltà di sé stessi. Eppure la creatura trema di fragilità e inadeguatezza, in specie quando avverte la fugace, intima verità che centra il cosmo nel suo asse: della soverchiante plenitudine, non saper dire:  > “Superando la fissità della natura > il durazzurro occhio ne penetra la legge: > nella crosta terrestre impazzano le rocce, > dal petto sgorga un lamento minerale. > > E il sordo animalcolo si tende > come per una strada a corno ritorta, > per capire l’eccesso interno dello spazio, > del petalo pegno, e della cupola”[7]. La poesia di Mandel’štam, pervasa di sensi supremi, di biblici e salmici sentori, delinea il punto di arresto, di stasi assorta:  inerme alla volgare alterigia del potere staliniano, al terrore della tirannia, al “mare nero/ che con greve rombo si addossa al capezzale”[8], ed esile, smarrita alle pendici del sacro, la parola s’innalza, finanche più vigile, viva: più vera, nell’impotenza che tocca l’impedimento, perché ad esso s’inchina: vi rende omaggio, celebrandone fondamento e misura; è là, nella morsa del proprio poco, che essa si riaffaccia: effimera, mobile, imprendibile, eppure caparbia: “Quando distrutto l’abbozzo,/ ti sforzi di trattenere nella mente/ il periodo senza pesanti glosse,/ unito e uno nella notte interiore”[9]. Tremare d’inadempienza delinea uno scenario teologico, se pur non di devozione dichiarata: il sacro e l’immane presagiti, mai interamente intesi, custoditi in amore al prezzo estremo: tutti teniamo affettuosa memoria di questo poeta “dei dativi” in luogo dei “nominativi”, il rapsode dello “slancio esecutivo”, con la sua “sacra stoltezza” da bizzarro “corifeo”: magrissimo, in punta di piedi, dallo sguardo “teso, come cieco alle cose di poco conto”[10]. Amato Osip, scarno ed eterno; imprigionato dalle pazzie del regime, privo di denti, semiassiderato; così soavemente impavido, sognante: accanto a un cumulo di rifiuti, nei casti albori di neve, a recitare Dante e Petrarca. * La precarietà, l’umana insufficienza, il caustico tocco del male non compromettono, della parola, la vocazione sacrale, il richiamo metafisico come pratica di resistenza. C’è l’ostinazione dei corpi, la cieca crudeltà della storia, certamente. Tuttavia la tensione all’invisibile – nel poeta, nel devoto che osserva l’icona, e in ogni essere umano che, spossato dal dolore, non lo amplifica, non lo pratica su altri, ma si arresta nel proprio gracile enclave, avendo cura del limite ricevuto in sorte – innalza l’anima al suo vertice:  > “A tu per tu, il gelo in volto io fisso; > lui fissa il nulla, e io fisso dal nulla; > stirata, pieghettata, senza grinze, > respirante miracolo, pianura”[11]. Nell’ottusa violenza del visibile, nello sgomento della bellezza, la micidiale: disarmare il cuore, salire. Secondo Endokimov[12] l’uomo, creatura inferma, come il servo di Yahweh in Isaia (53,2), è afflitto dal velo dell’imperfezione ma, segretamente, in potenza, è, per volontà dell’Altissimo, un microtheós: dotato fin dall’origine di uno speciale “carisma contemplativo” per esperire “il fuoco ineffabile e prodigioso”, “lo splendore folgorante della Bellezza [di Dio] dentro tutte le cose”[13]; l’uomo ha facoltà poetica, la potenzialità di nominare, l’attitudine a sostenere e penetrare la radianza divina disseminata nel creato, tanto da poterle dare nome: come Heidegger diceva di Hölderlin. Se ogni cosa possiede il suo lógos, la sua “parola interiore”, posta in trasparenza tra forma e contenuto dal fiat divino, ebbene l’infermità stessa della materia corporale umana è trascesa “in un superamento, che è vera trasfigurazione”, in cui “l’ostacolo viene messo al servizio dello Spirito con una misteriosa conformità al destino segreto di un essere”[14], e “il pensiero umano che riceve la rivelazione, si crocifigge per rinascere nella luce trisolare della verità assoluta”[15] È sostare con mite realismo nel limite e nel difetto, continuando ad amare, che colma il divario, mediante la discesa della grazia. Il destino è il modo in cui Dio sceglie di annullare la distanza, e di aprirci alla visione, alla “immagine e apparizione della luce inaccessibile, specchio tersissimo, limpido, integro, immacolato, inoffuscato, che riceve tutto lo splendore della prima bellezza”[16], fino alla “identità per assimilazione”, “identità in atto” che, “come un punto, unisce le due sponde al di sopra dell’abisso”[17]: dissolve la pecca, il difetto, il doloroso confine: da immagine l’uomo va a somiglianza. È questo, in Mandel’štam: il margine non è mera finitudine, ma ardua apertura: inclinazione sofferta al mistero. * Nel Trisagion, canto antichissimo, nato nella liturgia bizantina nei primi secoli del cristianesimo orientale, poi diffusosi nell’ortodossia slava, si intona: « Ἅγιος ὁ Θεός, Ἅγιος ἰσχυρός, Ἅγιος ἀθάνατος, ἐλέησον ἡμᾶς», tradotto: “Santo Dio, Santo Forte, Santo Immortale, abbi pietà di noi”[18]. La ripetizione triplice costruisce un ritmo di sospensione: tre attributi divini che trascendono la natura umana precedono l’appello di misericordia: il fedele riconosce la propria pochezza al cospetto del Padre, e partecipa in carenza e povertà, adorando.  Il Trisagion è icona e poesia insieme, pura nozione del margine: la santità, la potenza, l’immortalità sono qualità che eccedono l’umano, ma il canto comunitario consente di entrare in relazione con esse attraverso supplica e ripetizione, costruendo un tempo sospeso in cui la finitudine si apre al trascendente. L’incontro con la propria precarietà è invocazione condivisa, come nella contemplazione di Rublëv o nel gesto poetico, dato e ricevuto, di Mandel’štam. In quest’ottica, il limite è l’unica forma possibile di relazione con l’invisibile, spazio fecondo di elaborazione della sofferenza, piattaforma di devozione radicata nell’umiltà. * Jean-Francois Thomas, in una lunga, incantevole meditazione filosofica[19], pone Simone Weil e Edith Stein in delicata dialettica riguardo afflizioni e amarezze dell’umana esistenza; a ben guardare, il tema del testo è precisamente il limite: soglia da oltrepassare per esperire la piena comunione col sacro, nonché incompiutezza costitutiva della creatura incarnata, gettata nel cronotopo e sferzata dagli automatismi della necessità. L’intero volume è un’accorata riflessione su come due cuori sublimi provarono ad amare l’Eterno da quaggiù, ad accogliere il reale nei suoi orrori senza negarlo, a renderlo teoreticamente compatibile con il sommo bene, che è Dio: cercando di superare la propria corporeità nel continuo slancio all’infinito. Edith infine vi riuscì, con umilissimo abbandono, ponendosi nella consegna totale; Simone non ammorbidì mai il suo atteggiamento radicale, rimase di una durezza intellettuale incorruttibile: la sua postura morale era inconciliabile con le “consolazioni” della fede: pur praticando la compassione attiva, solidale con i più sventurati, fino a morirne, non riuscì a porsi in grembo a Dio. Esattamente il limite, sia come sofferta incarnazione, sia come limen di accesso alla completa comunione in spirito col Padre diviene un assunto nodale del libro. L’abbandono, come in Jean-Pierre de Caussade[20], è l’istante consegnato, il luogo d’innocenza dove Dio ama posarsi, dandosi in trasparenza: > Non è più una vita di pensieri, una vita di immaginazione, una vita di > discorsi e di parole, ad occupare l’anima, a nutrirla, a sostenerla: essa non > procede più, non si sorregge più su queste cose. Non vede più dove cammina, > non prevede più dove camminerà; non si aiuta più con la riflessione per > infondersi coraggio nello sforzo e per sopportare i disagi del cammino; essa > avanza ormai nell’intima coscienza della sua debolezza. La strada si apre > sotto i suoi passi, l’anima vi si inoltra e prosegue senza esitare; essa è > pura, santa, semplice e vera. Nella spiritualità ortodossa è lo jurodivyj, il folle in Cristo, esempio di quella stoltezza paolina che confonde i sapienti (1 Cor 1,27): è san Basilio il Benedetto, è il principe Myškin, l’idiota che dobbiamo diventare, cioè il genio, come diceva Cristina Campo. Un ideale pressoché inattingibile, per la natura incessantemente mobile e conflittuale dell’animo umano. Con allegorica esattezza, è proprio Cristina che, nel trattato Les sources de la Vivonne[21], riguardo il luogo fascinoso – citato da Proust nella Recherche, – che dà nome al saggio, afferma: > Infinitamente più delicata e tremenda è la presenza dell’immenso nel piccolo > che non la dilatazione del piccolo nell’immenso. Tramite la sua scrittura intensamente simbolica e metafisica, nello scenario riportato, Cristina registra l’affinarsi di una dismisura: l’immaginario proustiano della catacombale Entrata agli Inferi, della Cosa extraterrestre s’arresta in un piccolo lavatoio quadrato, “da cui montano delle bolle”. Quest’immane che s’annida nel minuto ricorda ferocemente la presenza di Dio nel cuore dell’uomo: condizione di astrale potenza, di temibile prodigio, perché si assottiglia in vigoria letale l’immenso quando è costretto nel vincolo di un’esiguità. L’interiorità umana è dunque così ricolma e spaventosa, e vacilla tra bene e male con suscettibile, concisa, nervosissima instabilità. L’immenso di Dio nel limite dell’uomo crea un movimento continuo tra spirito afferente all’Eterno e miserevoli margini dell’incarnazione. Allorché indigenze e pochezze vengono attenuate tramite una tenace adesione allo Spirito, rimane comunque un dibattito continuo di ribilanciamento, che può significare, nelle note vie dialettiche di rovesciamento degli opposti, una sofferta e splendida tensione alla salvezza: > In un rapporto non immaginario – un rapporto dal quale il gioco delle forze > sia escluso – nessun sentimento o pensiero regge a lungo isolato ma ciascuno > si capovolge rapidamente nel suo opposto.[22] In un rapporto non immaginario, ma attentivo: laddove il limite, reclusione primaria, accolto e pacificato, intaglia il vivente nel suo profilo, gli dona identità. Allora dal carente lembo incarnato, dalle doglie di una mente vana e breve, s’innalza l’affidamento, la preghiera, per ricevere svelato il destino: > Esisteva l’immenso soliloquio, il privatissimo canone che insegna a ricondurre > alla sua fonte e al suo fine la sorte di ogni uomo su questa terra: il > Salterio[23]. Nel salmodiare la menomazione diviene contorno, abbozzo di figura che chiede un assenso, obbedienza al presagio, all’elezione. Vi è un limite di partenza, condizione data, misura imposta nel vincolo creaturale, e vi è un limite di arrivo, che è adesione, temperanza: la terminale disciplina di accordare la propria esistenza a una feconda povertà e spoliazione, fino a risiedere gioiosamente nella mancanza. Nessuna virtù, solo la via ineludibile alla compiutezza. Allorquando il limite, connaturato, viene esaudito dal proposito, s’arriva al non asservimento: alla libertà. Ecco, ancora, il rovesciamento degli opposti: dando assenso al vincolo, da figure corporee e desideranti, si va verso altri spazi, a rinsaldarsi in essenze spirituali, dimoranti nell’assoluto: “Dio precipita a piombo in queste celle, in questi corpi, con un solo tremendo batter d’ali. E nei corpi, radicati nel cielo come sono, è una forza che spaventa”.[24] L’incarnazione è, per ogni mistico, la grande prova, l’attraversamento: per giungere al distacco, a mitezza radicale, priva d’autoasserzione. Deporre sé stessi, con fede intera nel sopramondo: far ruotare in petto quel cuore legato che precludeva l’impossibile. Il limite, la pecca, la mancanza, sono l’asse di rotazione del cuore nel petto: cessione di privilegi ed esenzioni, apertura al perenne attrito Frygt og Bæven, timore e tremore, porsi nelle mani di Dio. In tale ascesi, tutto è per sottrazione, un avanzare inverso al silenzio e al vuoto; un restare con cura nella pazienza e nella mancanza, nell’obbedienza, nel rifiuto, alimentano il soffio dello Spirito: la virtù negativa che tesaurizza, mentre la tentata affermazione di sé, a contrappunto, disperde e dissipa. Campo – “io non ti voglio più cercare./ Vibrerò senza quasi mirare la mia freccia,/ se la corda del cuore non sia tesa”[25] – durante tutta la sua vita esprime il sogno mistico di aderire in spirito, di combaciare, rimanendo nella gioia dell’inidoneità, nell’amore purissimo: il cuore sia una corda tesa. Dandosi misericordia, assentire a quel punto scoperto dell’armatura che si fa sorte, rotta ineluttabile, nitida identità:fisionomia, inventario di penurie e talenti; vocazione: “Un vuoto ricolmato di silenzio, nel quale il destino precipiterà per legge fisica come l’energia nel vuoto pneumatico”[26]. Spoliazione, stasi, umiltà: spesso si delineano efficacemente solo innanzi all’irreparabile. Ed è per attinenza che viene alle labbra Giuni Russo, icona pop degli anni Ottanta, la cui nitida e irrevocabile verticalità si era manifestata fisicamente, fin dagli albori, in un’estensione vocale di oltre cinque ottave. Giuni indossò la propria maschera mediatica, come dovuto al mondo, nell’inessenziale, nell’affettato ed estensivo che le era richiesto, fintantoché non ebbe piena esperienza della cifra scoscesa della sua esistenza: che prese forma intera, toccante, negli ultimi anni della sua vita. Dio la raggiunse svelandole il nesso, il pertugio, donandole la sua metanoia, conversione del cuore, che rese fulgido e serrato il suo cammino: intagliato nel limite di un malanno del corpo con cui Dio se la portò vicinissima, e poi la chiamò a sé. Senza fanatismi, senza mistificanti delirî, perché sia chiaro che vivere sani e lieti è un bene incomparabile, che nulla deve al patire o al morire; ma quello stato metanico, così puro e spoglio, di via nitida, segnata, come afferma Olivier Clément, “si precisa necessariamente in memoria della morte, nel senso forte di una anamnesi. ‘Ricordiamoci a ogni istante, se possibile, della morte’ scrive Esichio di Batos, e commenta: ‘Questo ricordo ha per effetto l’esclusione di ogni vana preoccupazione, la custodia dello spirito e la preghiera costante’[27] […] La memoria della morte non riguarda la morte biologica in sé, ma lo stato spirituale che la morte simboleggia e sigilla”[28]. Tutta l’ultima produzione artistica di Giuni Russo è di un misticismo sottilissimo, lucente. In una sua canzone-poesia c’è un presagio del limite-soglia così fulgido, e un senso del limite-carenza così limpido, da regalare istanti di somma beatitudine, e la benedizione delle lacrime: Io nulla Primizia del mio tempo Orlo del velo che copre la presenza Dal vivo occhio mi penetra Un raggio di pura luce Fai cantare alla mia lingua Melodie sconosciute Dell’amore che buca l’opacità del mondo e crea Io nulla, io nulla, io nulla, io nulla Sciàmano pensieri di pura luce La via dell’assoluto rischiara Primizia del mio tempo alla presenza Io nulla, io nulla, io nulla, io nulla, io nulla Oso fiorir Sciàmano pensieri di pura luce La via dell’assoluto rischiara Primizia del mio tempo Alla tua presenza Io nulla, io nulla, io nulla Fai cantare alla mia lingua Melodie sconosciute Che nascono nel cuore La notte se ne va Primizia del mio tempo Alla tua presenza Io nulla, io nulla, io nulla Davanti a te Io nulla Se l’ego ferito, l’ego rapace, l’ego senza limite e misura, in ogni sua follia esaudito senza restrizione, è l’instancabile, inconscio servo del male; se è, come appare, presupposto di ogni attrito e conflitto; ebbene, nella personalissima sensibilità di chi scrive – a prescindere da qualsivoglia dottrina o devozione, nella nuda umanità quotidiana, nell’intimità con sé stessi, al cospetto del proprio Dio, di fronte alla sfida di amare profondamente e interamente l’altro – Io nulla è l’unico canto, l’unica verità che, in quest’epoca oscura, ci possa ancora salvare. Isabella Bignozzi -------------------------------------------------------------------------------- [1] Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, prefazione di Jacques Rousse, Edizioni San Paolo 1990, pp. 222-223 [2] Pavel Aleksandrovič Florenskij, Iconostasi. Saggio sull’icona. Traduzione e cura di Giuseppina Giuliano, Edizioni Medusa 2008, pp. 55-56 [3] ibidem, p. 52 [4] Osip Mandel’štam, Ottanta poesie, a cura di Remo Faccani, Giulio Einaudi editore 2009, p. 5 [5] ibidem, p. 169 [6] ibidem, p. 85 [7] Osip Mandel’štam, Quasi leggera morte. Ottave. A cura di Serena Vitale, Adelphi Edizioni 2017, p. 43 [8] Osip Mandel’štam, Ottanta poesie, op. cit., p. 55 [9] Osip Mandel’štam, Quasi leggera morte. Ottave, op. cit., p. 45 [10] Serena Vitale, Cuscini, codici, crisalidi. Saggio introduttivo a Osip Mandel’štam, Quasi leggera morte. Ottave, op. cit., p. 13-29 [11] Osip Mandel’štam, Ottanta poesie, op. cit., p. 155 [12] Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, op. cit., pp. 38-41 [13] S. Massimo, Ambiguorum Liber, PG 91, 1148C., rip. in Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, op. cit., p. 41 [14] Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, op. cit., p. 39 [15] ibidem, p. 231 [16] S. Massimo, Mystagogia 23, PG 91, 701C [17] Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, op. cit., p. 41 [18] Pasquale Ferraro, Canti della divina liturgia e settimana sante. Rito bizantino. Testo greco a fronte, Milella 2012 [19] Simone Weil ed Edith Stein, Infelicità e sofferenza, prefazione di Gustave Thibon, Edizioni Borla 2002 [20] Jean-Pierre da Caussade, L’abbandono alla provvidenza divina, traduzione di Melisenda Calasso, Adelphi Edizioni 1989 [21] I° Ed. in “Paragone” XIV, n° 164, agosto 1963; ora in Cristina Campo, Gli imperdonabili, a cura di Guido Ceronetti e Margherita Pieracci Harwell, Adelphi Edizioni 1987, p. 45 [22] Cristina Campo, Gli imperdonabili, op. cit., p. 152 [23] Cristina Campo, Gli imperdonabili, op. cit., p. 114 [24] Cristina Campo, Gli imperdonabili, op. cit., p. 219 [25] Cristina Campo, La tigre assenza, a cura di Margherita Pieracci Harwell, Adelphi 1991 [26] Cristina Campo, Gli imperdonabili, op. cit., p. 119 [27] A Théodule, CLV, Philokalia greca, éd. Astîr, t. I., p.165 [28] Olivier Clément, Jacques Serr, La preghiera del cuore, Àncora Editrice 1998, postfazione di Pavel Endokimov L'articolo “Dell’amore che buca l’opacità del mondo”  proviene da Pangea.
October 9, 2025 / Pangea
William Carlos Williams, il poeta della primavera, della “Sacra luce dell’amore”
Nel marzo del 1963, con il cuore di vetro, “quando bastano tre note di musica per scoppiare a piangere”, Cristina Campo scrive a “Mita” – cioè Margherita Pieracci Harwell – che “è morto, giorni fa, William Carlos Williams. Ora non c’è più nessuno da amare, nella poesia”.  Per la precisione, William Carlos Williams era morto il 4 marzo, a Rutherford, New Jersey, dove era nato, 79 anni prima. Si sbaglierebbe, tuttavia, a crederlo un poeta sedentario, seduto. Nei tratti del viso, aperti, solari, primaverili – “la primavera, il caldo tempo che torna malgrado tutto”, è, secondo la Campo, il carisma della poesia di Williams – s’intravede la geologia familiare: papà di origini inglesi cresciuto nella Repubblica Dominicana, madre di Porto Rico con ascendenze francesi, basche, e finiture ebraiche. In Ritratto dell’autore, il poeta parla di sé parlando della betulla – “Le betulle sono una follia di puntolini verdi/ il limitare del bosco brucia del loro verde” –, che per gli sciamani siberiani è l’albero cosmico, “un albero di luce… simbolo di saggezza” (così Alfredo Cattabiani, Florario, Mondadori, 1996).  Il poeta aveva studiato a Ginevra, a Parigi, a Filadelfia. Si era perfezionato in Germania. Tornato a Rutherford, Williams esercitò come medico pediatra: “nel corso di mezzo secolo aiutò a venire al mondo più di duemila bambini nella sua piccola città” (Luigi Sampietro). Il dettaglio, al di là dei rilievi superficiali – il poeta s’installa nella schiera dei medici-scrittori, Čechov, Bulgakov, Céline, Benn… –, è sostanziale: Williams, pur tra i maestri del “modernismo”, è poeta della vita, della luce, di una poesia coerente e concreta, di cui si fa pasto; è un poeta della primavera. Per questo, non gradì La terra desolata di Thomas S. Eliot, quei versi ingegnosi, disarticolati, meccanici: una “bomba atomica”, la diceva, una catastrofe. In fondo, pensava che Ezra Pound lo avesse tradito. Si conoscevano dagli anni dell’università, in Pennsylvania, “è un bravo ragazzo, icona dell’ottimismo, dai modi eccentrici”: così l’aveva descritto alla madre. Pound, come sempre, si era dato da fare per aiutare quell’amico di genio: a Londra lo aveva presentato a Yeats; lo aveva introdotto nell’alcova di “Poetry”, l’autorevole rivista guidata da Harriet Monroe; ne aveva fatto uno dei suoi scudieri, inserendolo nell’antologia “Des Imagistes” (1914). Nell’Autobiography (1951), William Carlos Williams ricorda una recita universitaria, Pound interpreta una donna, “aveva una parrucca stravagante, gesticolava selvaggiamente, brandiva i seni enormi in un’estasi di estrema emozione”. Per farla breve, William Carlos Williams ha scritto alcune delle poesie in lingua inglese più belle del secolo scorso. “Vivono/ secondo la Sacra luce dell’amore/ che governa,/ osteggiando la disperazione,/ questo giardino”, scrive il poeta in The Mental Hospital Garden. C’è sempre una gioia barbara e imberbe, antimoderna, inebriata e infantile nelle poesie di William Carlos Williams, degno figlio di Walt Whitman: ci vuole il coraggio della gioia a scrivere di un cacciatore che ride mentre conficca “un pugnale da caccia… nelle parti intime dell’animale”, e comprendere, nonostante tutto, che “tu sei un poeta che crede/ nel potere della bellezza/ capace di sanare ogni malattia” (To a Dog Injured in the Street).  Più passa il tempo, più sembra che la diarchia che ha dominato la poesia del secolo debba essere sostituita. Non sono più Thomas S. Eliot e Ezra Pound i reggenti della poesia in lingua inglese, ma William Carlos Williams e Wallace Stevens. Entrambi poeti nottambuli, di traverso, impiegati in professioni aliene alla letteratura (Stevens lavorava per una grande compagnia di assicurazioni). Ma questo è poco importante, ora, chiederebbe troppe spiegazioni.  Piuttosto, William Carlos Williams è tra i rari poeti che migliorano invecchiando. Nel 1953 fu premiato con il Bollingen Prize – quattro anni prima era andato all’amico Pound –, dieci anni dopo ottenne il Pulitzer per Pictures from Brueghel and Other Poems. Nel 1952 era stato eletto “Consultants in Poetry”, massima onorificenza lirica per il mondo americano: gli fu sottratta perché aveva osato scrivere una poesia, Russia, che gli attirò un’accusa di comunismo. Allen Ginsberg lo implorò di introdurre il suo poema psichedelico, Howl. Secondo Cristina Campo, i beat, “quel patetico gruppo inarticolato, che urla a pieni polmoni un’estasi troppo simile al pianto”, non avevano capito nulla di Williams, che pareva, per sapienza rarefatta, un poeta dell’antica Cina, un sapiente alla stregua di Chuang-tzu, “il più solitario della poesia americana contemporanea”. Fu proprio la Campo a tradurre Williams in Italia, insieme a Vittorio Sereni, in due libri di pregio (Il fiore è il nostro segno, nel 1958, per Scheiwiller, e Poesie, Einaudi, 1961).Eppure, la poesia di Williams non ha attecchito nel nostro paese, editorialmente prono a mode più fittizie: per questo, l’antologia curata da Luigi Sampietro e tradotta da Damiano Abeni per Bompiani nel 2023, A un discepolo solitario,colma a tratti un vuoto imbarazzante. Stupisce, piuttosto, che non si faccia cenno al lavoro miliare della Campo: le sue versioni spesso prevalgono, per bellezza di linguaggio, su quelle di Abeni.  Gli ultimi anni della sua vita – dal 1946 al 1958 – Williams li passò scrivendo Paterson, poema epico in cinque libri, una Iliade urbana. Si proponeva di raccontare la città con un linguaggio nuovo, capace di riprodurre “il rumore delle Cascate”. Di questo poema, “opera tra le più importanti della letteratura americana” e che “più di ogni altra ha reso William Carlos Williams una figura fondamentale della nuova poesia americana” (così la quarta dell’edizione Mondadori, a cura di Alfredo Rizzardi, 1997, ormai fuori catalogo) non c’è traccia in questa antologia. Pazienza. Ci restano testi meravigliosi, tra cui spicca Asfodelo, fiore che allude al verde, da imparare a memoria, immane, immedicabile poesia d’amore, dell’“amore che ingoia tutto il resto”.  L’amore ricorre spesso in queste poesie. 64 volte. Ho contato. E sempre nel modo giusto: frontale, olimpico, primaverile.  L'articolo William Carlos Williams, il poeta della primavera, della “Sacra luce dell’amore” proviene da Pangea.
March 13, 2025 / Pangea
“Torno da un sogno”. Li Quingzhao: vita & versi della poetessa millenaria
Quasi che tra cenere e sogno nessuna differenza sussista, se non quel sussulto, quello scarto tra il grigio e il ghigno del sopravvissuto.  Intrisa nel sogno, di bava d’ambra, onirica all’onestà, è l’opera di Li Quingzaho, perché è lì, nell’inconsolabile consistenza dell’inconsistente, che accade tutto: il lutto e l’amplesso, la gioia, a gorghi, e la rassegnazione, il primevo amore, il primato della razzia, i volti – tanti, ambiti, ambigui – come i fiori del pruno. Leggo che i fiori del pruno sono il simbolo della speranza, dell’eternità – in Li Quingzhao è la quieta disperazione ad avvincerci, piuttosto, l’incendio di nevi, la fuga tra corpi illusori, il senso, acuto, del transitorio. La nobiltà di questa poetessa recidiva nel recidere è in una sorta di infallibile debolezza. Così, quando scrive al Signore di Hu – una lettera intrisa di lacrime rattenute nel sangue –, alto funzionario imperiale, quella donna ai margini, tra i laterizi dell’esilio, non esita a insistere perché l’Imperatore ricordi che non è tempo di sotterfugi e negoziazioni quando decenni di caos hanno falciato i suoi sudditi, i suoi figli. Ma ancora una volta: la Storia non è che un sogno, la pietra levita in neve, la parola è cenere. Che incenerisca l’opera, allora, perché con quel nulla d’argento altri rifondino i toni, i tuoni. Se ne lordino il volto. Nacque nello Shandong, nel 1084, Li Quingzhao, in una famiglia di intellettuali: il padre era un insigne accademico, seguace dei circoli letterari più noti dell’epoca; la madre, nel cui lignaggio alligna un ministro del regno, scriveva poesie. In quell’aura libresca, Li Quingzhao si librò con eccezionale libertà: di precocissimo ingegno, già più che smaliziato, eccelse nel ci, poesia di irregolare lunghezza, modellate su toni e modelli definiti, cantabili. Si sposò nel 1101, diciottenne, con Zhao Mingcheng; fu un’unione al limite dell’idilliaco: entrambi poeti, praticavano la calligrafia e la scrittura, si inoltrarono nell’arte delle iscrizioni su pietra e su bronzo. Collezionavano libri – dialogavano in versi, durante le lunghe assenze di Zhao, impegnato nelle estenuanti prove per diventare burocrate del regno (la pratica lirica era una delle eccellenze essenziali per ‘fare carriera’ in quei ranghi).  Al tempo dell’unione, seguì quello della distruzione. Li Quingzhao e il marito vissero l’abisso della guerra che impegnò la dinastia Song contro i Jin – costretti alla macchia, subirono la razzia della casa. Non erano ricchi – i loro manoscritti furono bruciati, insieme ai libri. Nel fuoco, Li intravide lo stigma di una conversione.  Zhao morì durante i giorni della fuga, nel 1129 – Li passò mesi di vagabondaggio, di pieve in pieve, incenerita dal dolore. Finì i suoi anni a Hangzhou, dove i Song avevano stabilito la nuova capitale – ma tutto era già capitolato. Dicono di uno stuolo di pretendenti, malignano di un nuovo matrimonio, con un artista più giovane di lei, terminato in disastro; pare si sia data al buddhismo, piuttosto; le poesie misero il lutto: dai toni lievi, primaverili degli anni nell’oro, Li passò a quelli del rimorso, della malinconia, del grido in gola. Sono le poesie più belle, quelle in cui la neve si mescola al sogno, l’airone al pruno, vaghe figure della fugacità. Soltanto il vino offre un futile riparo al dolore: da ciò che si legge, Li sapeva precipitare nell’ebbrezza. Morì a 71 anni, pare – l’incerto consacra questa donna tra le semprevive leggende –, intorno al 1155 – del suo canzoniere, tra i più rinomati e noti del canone cinese, restano un centinaio di poesie, briciole per lo più di un’esistenza votata alla letteratura.  Li Qingzhao piaceva a Cristina Campo, che la voleva nel suo libro delle Ottanta poetesse (riprodotto da Magog, con l’aiuto di Giorgio Anelli, 2023); Farrar, Straus and Giroux ha da poco pubblicato i “Complete Poems of Li Qingzhao” con un titolo suggestivo, The Magpie at Night: i versi “della più grande poetessa cinese della storia” sono tradotti, con garbo minimalista, da Wendy Chen. Al di là dei tributi all’oggi, di quell’irreggimentare all’ovvio – si parla del “lavoro invisibile e irrequieto… di una donna che ha creato all’ombra dell’esilio, della guerra, di un ambiente letterario poco accogliente” – pare che facciano di Li una Emily Dickinson di Cina, rapita da una poesia fitta di intrepide ironie, da reclusa. In verità, Li era singolarmente nota ai tempi, e la poesia – pur apodittica, secondo i modi ideogrammatici d’Oriente – non artiglia l’intelligenza: dilata il cuore in lago.  Si sente, semmai, in sottofondo, un lento sciabordio: i versi inseguono la stesura del fiume, sono come cartigli, come foglie, lasciati alla livrea del rio. Prendili, a piena bocca: l’al di là del sogno è ricchezza in neve – non puoi lasciare tracce – né eseguirle.  *** Li Qingzhao In sogno Ricordo il giorno  passato sullo strame del rio: guardavi il tramonto che artigliava il padiglione. Così ubriachi da perdere la via del ritorno. Era tardi – fu troppo tardi. Voltammo la barca incagliandoci in un gorgo di radici di loto.  Remavi remavo –  splendevano, a riva, gli aironi.  * Mentre scorre il fiume L’equinozio si spezza primavera arriva. Legna nell’incensiere: da froge  di giada sfugge il fumo.  Torno da un sogno.  Cerco le forcine per i capelli sotto il cuscino. Le rondini di mare sono ancora lontane.  La gente gioca con l’erba, i fiori del pruno riempiono il fiume. Il salice germoglia una bava di seta. Compieta: l’altalena è bagnata dalla pioggia.  * Ubriaca alla festa del nono giorno  Nebbia sottile, nuvola esangue. Il giorno è il destriero del desiderio. Tronchi di canfora bruciano nella bocca di bestie dorate.  Festa del nono giorno. Cuscino di giada, tonaca zanzariera. Il gelo di mezzanotte azzanna il mondo. Crepuscolo. Mi ubriaca il chiostro che costringe Oriente e le mie maniche sono fragranti. Non dire che mi è indifferente amare. Quando il vento dell’ovest fa sbattere la tenda, sono più fragile di un fiore giallo.  Mi bruci la mano ma il tuo cuore è freddo.  * Sul tema “Come un sogno” Notte: vento violento lavacro di pioggia. Dagli abissi del sogno inebetita dal vino chiamo l’ufficiale delle tende che mi risponde: “i fiori di ciliegio e quelli di melo sono gli stessi” “Oh, ancora non lo sai? Il rosso si assottiglia il verde è diventato enorme”.  * Sul tema “Rosse le labbra” Nella più remota stanza: infiniti dolori infieriscono  su ogni lato del mio essere.  La primavera è passata troppo presto: piogge, come frecce, disperdono gli amici. Mi sporgo dal balcone: sono stanca.  Dov’è lui, il mio amato? La prateria non ha orizzonte avvizzisce: la strada del ritorno è ormai invisibile.  * Moribonda primavera – non ho voglia di sistemarmi i capelli.   Il pruno perde i fiori  che vagano tra le rive  del vento serale. Luna pallida, nubi in estro.  L’incenso non brucia più nella conca di giada, ha la forma di un’anatra –  la tenda ha ancora quell’antico pudore.  Basta il suono di un corno a spaventare il freddo?  * Lamento  Notte fonda: ebbra mi levo le vesti un fiore di pruno tra i capelli appassisce.  Tutto scema ma l’odore del vino sbriciola i sogni prima che l’anima  riconosca la via di casa.  Silenzio.  La luna indugia: accarezzo il fiore appassito accarezzo i petali profumati voglio il mio tempo perduto.  * Il sole si disfa come oro fuso le nuvole, a sera,  sono un disco di giada. La nebbia avvolge i salici e un flauto suona “Fiori di pruno”.  Quanti giorni ancora durerà primavera? La festa delle lanterne dovrebbe rendermi felice ma sono inerme al candore del tempo – quando torneranno il vento e la pioggia? * Ogni anno è nella neve che raccolgo i fiori del pruno: la loro bellezza mi inebria. Avida, li accarezzo: bagno la veste di lacrime ed è così che consumo il mio viso.  Quest’anno ho vagato fino  al limite della foce, fino al punto che inficia l’orizzonte – ormai  grige le tempie.  Il vento della sera è forte: non riuscirò più a godere del languore di quei fiori.  * Al Signore di Hu Non chiediamo della preziosa perla del Duca di Dui né dell’inestimabile disco di giada di Ho, sommo maestro. Chiediamo notizie della nostra patria. Il Palazzo dell’Illuminazione è ancora lì, in rovina? In che stato sono le pietre inabissate nell’erba quelle tigri messe a guardia della tomba imperiale? Dopo la razzia, pur al giogo, la nostra gente continua a piantare alberi di gelso.  Dicono che i mercenari pattugliano  le mura della città: è davvero così? Il nonno e il padre della vedova che vi scrive sono nati nello Shantung: benché non abbiano mai ricoperto alti incarichi, la loro fama veleggiava ovunque.  Ricordo quando discutevano alle porte  della capitale insieme ad altri studiosi: gente a ventate, sudore pari a pioggia.  I loro figli hanno attraversato il fiume molti anni fa per nutrirsi del sud: alla deriva, tra le rapide, tra i rifugiati. Invio lacrime torchiate nel sangue alle montagne della mia patria; spargo una tazza di terra sulla Rupe Orientale. Immagino il vostro arrivo, degno agnello di Sua Maestà: passerete per le capitali tra stole di genti – tutti faranno a gara per offrirvi il tè, per ostentare un torbido benvenuto… Il cuore dell’Imperatore soffre insieme a chi soffre:  siamo i suoi figli. Ditegli che la volontà celeste  ha memoria di ogni creatura. La fede con cui ci ricompensa brilla come il sole, è vero, ma non è tempo di negoziare per troppi anni siamo stati il cibo del caos.  L'articolo “Torno da un sogno”. Li Quingzhao: vita & versi della poetessa millenaria proviene da Pangea.
March 11, 2025 / Pangea