Nel marzo del 1963, con il cuore di vetro, “quando bastano tre note di musica
per scoppiare a piangere”, Cristina Campo scrive a “Mita” – cioè Margherita
Pieracci Harwell – che “è morto, giorni fa, William Carlos Williams. Ora non c’è
più nessuno da amare, nella poesia”.
Per la precisione, William Carlos Williams era morto il 4 marzo, a Rutherford,
New Jersey, dove era nato, 79 anni prima. Si sbaglierebbe, tuttavia, a crederlo
un poeta sedentario, seduto. Nei tratti del viso, aperti, solari, primaverili –
“la primavera, il caldo tempo che torna malgrado tutto”, è, secondo la Campo, il
carisma della poesia di Williams – s’intravede la geologia familiare: papà di
origini inglesi cresciuto nella Repubblica Dominicana, madre di Porto Rico con
ascendenze francesi, basche, e finiture ebraiche. In Ritratto dell’autore, il
poeta parla di sé parlando della betulla – “Le betulle sono una follia di
puntolini verdi/ il limitare del bosco brucia del loro verde” –, che per gli
sciamani siberiani è l’albero cosmico, “un albero di luce… simbolo di saggezza”
(così Alfredo Cattabiani, Florario, Mondadori, 1996).
Il poeta aveva studiato a Ginevra, a Parigi, a Filadelfia. Si era perfezionato
in Germania. Tornato a Rutherford, Williams esercitò come medico pediatra: “nel
corso di mezzo secolo aiutò a venire al mondo più di duemila bambini nella sua
piccola città” (Luigi Sampietro). Il dettaglio, al di là dei rilievi
superficiali – il poeta s’installa nella schiera dei medici-scrittori, Čechov,
Bulgakov, Céline, Benn… –, è sostanziale: Williams, pur tra i maestri del
“modernismo”, è poeta della vita, della luce, di una poesia coerente e concreta,
di cui si fa pasto; è un poeta della primavera. Per questo, non gradì La terra
desolata di Thomas S. Eliot, quei versi ingegnosi, disarticolati, meccanici: una
“bomba atomica”, la diceva, una catastrofe. In fondo, pensava che Ezra Pound lo
avesse tradito. Si conoscevano dagli anni dell’università, in Pennsylvania, “è
un bravo ragazzo, icona dell’ottimismo, dai modi eccentrici”: così l’aveva
descritto alla madre. Pound, come sempre, si era dato da fare per aiutare
quell’amico di genio: a Londra lo aveva presentato a Yeats; lo aveva introdotto
nell’alcova di “Poetry”, l’autorevole rivista guidata da Harriet Monroe; ne
aveva fatto uno dei suoi scudieri, inserendolo nell’antologia “Des Imagistes”
(1914). Nell’Autobiography (1951), William Carlos Williams ricorda una recita
universitaria, Pound interpreta una donna, “aveva una parrucca stravagante,
gesticolava selvaggiamente, brandiva i seni enormi in un’estasi di estrema
emozione”.
Per farla breve, William Carlos Williams ha scritto alcune delle poesie in
lingua inglese più belle del secolo scorso. “Vivono/ secondo la Sacra luce
dell’amore/ che governa,/ osteggiando la disperazione,/ questo giardino”, scrive
il poeta in The Mental Hospital Garden. C’è sempre una gioia barbara e imberbe,
antimoderna, inebriata e infantile nelle poesie di William Carlos Williams,
degno figlio di Walt Whitman: ci vuole il coraggio della gioia a scrivere di un
cacciatore che ride mentre conficca “un pugnale da caccia… nelle parti intime
dell’animale”, e comprendere, nonostante tutto, che “tu sei un poeta che crede/
nel potere della bellezza/ capace di sanare ogni malattia” (To a Dog Injured in
the Street).
Più passa il tempo, più sembra che la diarchia che ha dominato la poesia del
secolo debba essere sostituita. Non sono più Thomas S. Eliot e Ezra Pound i
reggenti della poesia in lingua inglese, ma William Carlos Williams e Wallace
Stevens. Entrambi poeti nottambuli, di traverso, impiegati in professioni aliene
alla letteratura (Stevens lavorava per una grande compagnia di assicurazioni).
Ma questo è poco importante, ora, chiederebbe troppe spiegazioni.
Piuttosto, William Carlos Williams è tra i rari poeti che migliorano
invecchiando. Nel 1953 fu premiato con il Bollingen Prize – quattro anni prima
era andato all’amico Pound –, dieci anni dopo ottenne il Pulitzer per Pictures
from Brueghel and Other Poems. Nel 1952 era stato eletto “Consultants in
Poetry”, massima onorificenza lirica per il mondo americano: gli fu sottratta
perché aveva osato scrivere una poesia, Russia, che gli attirò un’accusa di
comunismo. Allen Ginsberg lo implorò di introdurre il suo poema
psichedelico, Howl. Secondo Cristina Campo, i beat, “quel patetico gruppo
inarticolato, che urla a pieni polmoni un’estasi troppo simile al pianto”, non
avevano capito nulla di Williams, che pareva, per sapienza rarefatta, un poeta
dell’antica Cina, un sapiente alla stregua di Chuang-tzu, “il più solitario
della poesia americana contemporanea”. Fu proprio la Campo a tradurre Williams
in Italia, insieme a Vittorio Sereni, in due libri di pregio (Il fiore è il
nostro segno, nel 1958, per Scheiwiller, e Poesie, Einaudi, 1961).Eppure, la
poesia di Williams non ha attecchito nel nostro paese, editorialmente prono a
mode più fittizie: per questo, l’antologia curata da Luigi Sampietro e tradotta
da Damiano Abeni per Bompiani nel 2023, A un discepolo solitario,colma a tratti
un vuoto imbarazzante. Stupisce, piuttosto, che non si faccia cenno al lavoro
miliare della Campo: le sue versioni spesso prevalgono, per bellezza di
linguaggio, su quelle di Abeni.
Gli ultimi anni della sua vita – dal 1946 al 1958 – Williams li passò
scrivendo Paterson, poema epico in cinque libri, una Iliade urbana. Si proponeva
di raccontare la città con un linguaggio nuovo, capace di riprodurre “il rumore
delle Cascate”. Di questo poema, “opera tra le più importanti della letteratura
americana” e che “più di ogni altra ha reso William Carlos Williams una figura
fondamentale della nuova poesia americana” (così la quarta dell’edizione
Mondadori, a cura di Alfredo Rizzardi, 1997, ormai fuori catalogo) non c’è
traccia in questa antologia. Pazienza. Ci restano testi meravigliosi, tra cui
spicca Asfodelo, fiore che allude al verde, da imparare a memoria, immane,
immedicabile poesia d’amore, dell’“amore che ingoia tutto il resto”.
L’amore ricorre spesso in queste poesie. 64 volte. Ho contato. E sempre nel modo
giusto: frontale, olimpico, primaverile.
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dell’amore” proviene da Pangea.