Mi piace partire dal potere evocativo delle immagini. Forse è così che, in
fondo, è nata la letteratura: ecfrasi della meraviglia.
Una fotografia in bianco e nero raffigura lo studio di quello che sembra uno
scrittore. Un uomo, colto di profilo, sfoglia le pagine di un libro con aria
trasognata. Lo circondano manoscritti e cartelle dove sono raccolte pagine e
pagine scritte a Varsavia, a Parigi, a New York. Su un ripiano della libreria,
una menorah allarga i suoi sette bracci. Dalla finestra di fronte al tavolo pare
entrare un fascio di luce: si intravedono i grattacieli di Broadway. L’uomo è
Isaac Bashevis Singer. Nel mio bestiario affettivo è una sorta di vispo furetto
dagli occhi di ghiaccio, simili ai cieli della sua infanzia in Masovia.
La fotografia, scattata nel 1979, è sulla copertina del volume adelphiano appena
dato alle stampe, intitolato A che cosa serve la letteratura?, che raccoglie
alcuni saggi selezionati nel tempo da Singer, pubblicati soprattutto su giornali
e riviste di lingua Yiddish. Il progetto, che non vide mai la luce durante la
vita dello scrittore, prevedeva la creazione di un libro che rappresentasse il
miglior commento alla vasta e potente opera narrativa di Singer. I saggi che
compongono le tre parti del libro, pur variando per interesse e intensità, hanno
il merito di condurci per mano all’interno del laboratorio creativo del grande
scrittore.
> “Dentro di me alberga la convinzione che ogni essere umano sia posseduto, e
> per me i veri scrittori sono coloro che sanno praticare l’esorcismo”.
Così suona l’inizio, fulminante e incandescente, della prima sezione del
libro, Le arti letterarie. Lo scrittore si mette in contatto con entità
sovrannaturali: sia dato credito all’invisibile. Ponte tra il mondo fenomenico e
quello al di là della soglia, Singer scrive sotto l’impulso di un daimon: una
voce, o meglio un’energia che si rivela nel disegno dei destini individuali, nel
nitore della nostra presenza nel mondo. Scrivere per lento e oscuro svelamento,
come se si andasse in terra straniera: riconoscersi dapprima forestieri,
nominare le cose appena nate, andare alla ricerca di ciò che si verifica una
sola volta.
> “Se l’arte ha qualcosa da insegnarci è proprio il fatto che in principio ci fu
> l’eccezione”.
La letteratura spariglia le carte, corteggia il prodigioso, fiuta come un
mastino “la divinità del dettaglio”. Non si tratta però, come per Nabokov, di un
eburneo e algido dominio dell’arte: per Singer scrivere è fare i conti con Dio,
il creatore per eccellenza.
> “Il vero talento non lotta tanto con l’ordine sociale quanto con Dio. Le
> persone di talento sono spesso pessimiste o addirittura fataliste. Ma non
> possono essere atee per la semplice ragione che per la loro stessa natura
> devono litigare con i sommi poteri”.
Due rose bianche non saranno mai uguali: una è sfumata di pallido giallo,
l’altra è venata di rosa. Lo sguardo innamorato del creatore si posa sulla
differenza impercettibile, su ciò che separa più che unisce. L’irripetibile è la
preda dell’artista. Per questo motivo, la letteratura è libera di rotolarsi sui
verdi campi dell’immaginazione: priva di vincoli, aliena alle trappole tese
dalla psicologia e dalla sociologia. Il talento genuino è dotato di una forza
che nessuno può contrastare.
L’artista, con versatilità di camaleonte e ampiezza di falco, s’installa come un
rapace notturno nel cuore tenebroso dell’esistenza. Da qui si rivela il destino
di alcuni dei personaggi più emblematici nati dalla penna di Singer: Hertz Grein
in Ombre sull’Hudson, Yasha Mazur nel Mago di Lublino, Hertz Minsker
nel Ciarlatano. Grandi e piccole città, villaggi sperduti nella steppa polacca,
impronunciabili shtetl, diventano il palcoscenico su cui il sommo intrattenitore
proietta e fa rivivere il mondo della sua infanzia: quello della palpitante
Varsavia di inizio Novecento.
Il cammino della creazione segue un sentiero difficile. Lo scrittore nasce sotto
congiunzioni astrali avverse. La cartomanzia non gli predice vita facile.
> “La realizzazione di ogni artista è una tantum e si esaurisce nello sforzo.
> Gli artisti non possono imparare dal proprio passato. Come gli amanti, sono
> sempre esposti al rischio di fallire”.
Ma quando le Muse sorridono e mostrano il loro volto benigno agli artisti,
allora essi
> “creano qualcosa che al prossimo porta gioia, oblio, la sensazione di un
> piacere soprannaturale, e una visione degli enti superiori che hanno creato il
> mondo”.
L’errore più grave che uno scrittore possa fare è presumere che l’epoca del
godimento estetico sia finita e che gli artisti possano permettersi di annoiare
il pubblico in nome di uno scopo superiore.
> “Non esiste un paradiso che ripaghi i lettori annoiati. Nell’arte, come nel
> sesso, l’atto e il godimento vanno di pari passo”.
Gli scrittori più grandi sono intrattenitori nel senso più alto del termine.
Isaac B. Singer, novecentesco Omero della Vistola, è narratore d’altri tempi.
Come un bardo, un cantastorie medievale, girovaga di città in città, di paese in
paese, raccontando storie agli angoli di piazze colorate, davanti a cattedrali
fiammeggianti. Le sue parole evocano immagini plastiche, simili a quelle che
adornano i fregi dei templi e le svettanti colonne trionfali. C’è, nel periodare
calmo e ipnotico di Singer, una saggezza millenaria, un raccoglimento da
focolare, un finale ricomporsi in armonia attraverso le sfide dell’ignoto: un
non so che di dolceamara fiaba.
Leggere Singer richiede di andare oltre la sospensione dell’incredulità: bisogna
albergare in sé stessi semi di meraviglia, estendere l’ospitalità del pensiero
verso quello che si trova dall’altra parte della foresta incantata. Occorre
credere agli angeli, ai folletti e ai fantasmi; accettare virtù e nefandezze
delle forze magiche; accogliere i chiasmi e le antinomie della sempre mutevole
creazione divina. In questo senso, bisogna risvegliare il bambino che forse
ancora vive dentro di noi:
> “I bambini non hanno alcuna difficoltà ad accettare l’esistenza di Dio, degli
> angeli e dei demoni. Si potrebbe dire che abbiano un senso istintivo del
> soprannaturale”.
E allora, da quale lingua, se non dallo yiddish, può sgorgare la sorgente della
meraviglia? Idioma dell’esilio e dell’identità, lo yiddish si fa ponte tra
culture e modi di creare, diventando, nelle mani di Singer, una vera e propria
lingua-arca, che nomina le cose prima e dopo il diluvio, tra le ferite laceranti
della storia.
Il mare dell’immaginazione e della creazione è vastissimo: custodisce
innominabili meraviglie, ma nasconde perigliose insidie negli abissi, temibili
Scilla e Cariddi. Il compito degli scrittori in prosa
> “è quello di evitare le frasi abusate cercando allo stesso tempo di non
> ignorare l’essere umano vivente. Di sorvolare il più rapidamente possibile su
> ciò che è comune a tutti, e di sottolineare l’elemento che invece è unico. Di
> fare uso della conoscenza senza diventare pseudoscienziati, sociologi o
> psicologi da strapazzo, o peggio dei moralisti. Di cercare con ogni forza
> l’effetto simbolico senza cadere nel simbolismo”.
Al tempo stesso, lo scrittore di talento deve essere paladino della purezza in
letteratura, rivendicandone con forza la dirompente e libera creatività. In una
vibrante filippica che suona quanto mai attuale, Singer si scaglia contro la
banalità della nostra epoca, fatta di fatue mode letterarie, corsi di scrittura
creativa e capricci di editori. Viviamo in un tempo di
> “impazienza artistica che baratta l’amore con la pornografia e maschera la
> propria impotenza con una superpotenza meccanica”.
Come antidoto all’algoritmo, la nuova stella polare che orienta gusti e
tendenze, Singer sembra dirci che la nostra unica salvezza si trova nella
ricerca continua della bellezza.
“A thing of beauty is a joy forever”, recita il meraviglioso verso
nell’Endymion di Keats.
Infine, ci sia concessa un’ultima riflessione sul titolo scelto per la versione
italiana: A che cosa serve la letteratura? La letteratura non è serva né
ancella. I suoi unici servitori sono le schiere di lettori innamorati. Conosco
più di uno scrittore che si è già adombrato nei Campi Elisi.
Lorenzo Giacinto
L'articolo Lo scrittore è un amante, è il sommo esorcista. Isaac B. Singer: un
antidoto contro l’algocrazia proviene da Pangea.