Una parte cospicua del ‘Meridiano’ dedicato a Octavio Paz (Poesie e prose
scelte, Mondadori, 2025) è riservato alle sue traduzioni, o meglio, “Versioni e
divertimenti”. In effetti, si tratta di traduzioni di traduzioni, dalla lirica
indiana antica, da quella cinese e giapponese. In sostanza, Octavio Paz operava
confrontando diverse versioni: in particolare, quelle di Daniel H. H. Ingalls
per la letteratura sanscrita; quelle di Kenneth Rexroth e di Vincent McHugh per
la poesia cinese e giapponese. A volte, si faceva aiutare da studiosi, come il
diplomatico e ispanista Eikichi Hayashiya, cittadino di Tokyo. Non è secondario
ricordare che Octavio Paz – insieme a Vargas Llosa il più importante
intellettuale latinoamericano del secolo scorso, per portata letteraria e
saggistica – è stato ambasciatore del Messico in India e in Giappone: ha
lavorato, con impenitente pazienza, per una ‘unione’ tra Oriente e Occidente.
Sia come sia, gli haiku non sono mai stati così belli – mai così haiku – come
nello spagnolo di Paz; questo è Kobayashi Issa:
> “Guardo nei tuoi occhi,
> libellula,
> monti lontani”
(Miro en tus ojos,
caballito del diablo,
montes lejanos)
Che strano: ci è voluto un poeta messicano vissuto nel XX secolo per farci
apprezzare un poeta giapponese nato nel 1763.
Poeta alieno ai toni canonici della poesia latinoamericana, Octavio Paz aveva
bisogno di rapacità, ritualità, lirica all’arma bianca: toni che ha trovato
nella letteratura estremorientale. Fin da subito, il poeta avverte che “le mie
traduzioni sono traduzioni di traduzioni e non hanno valore filologico”, eppure,
in modo singolare, riescono efficaci, ci investono di nuova autenticità.
*
Il tema è totale, investe l’idea stessa del tradurre. Cathay è il precedente
illustre di Paz, specie di Sion del traduttore-inventore. In quel libro, edito
nel 1915 a Londra, da Elkin Mathews, Ezra Pound costruisce, con pochi cocci,
un’idea occidentale della Cina ancestrale. Pound unì filologia e paradosso:
maneggiò gli studi dell’orientalista Ernest Fenollosa – ne aveva conosciuto la
moglie, da poco vedova, Sidney McCall, ruvida, americana, scrittrice – per poi
fare, magnificamente, da sé. Alcuni versi – “Viaggio faticoso, si ruppero le
ruote,/ Strade come budella di pecora”; roads twisted like sheep’s guts – sono
eminentemente poundiani, reflusso dell’Imagismo. Cathay, in fondo, è il grande
disegno preparatorio dei Cantos, il luogo in cui la fascinazione confuciana di
Pound s’impenna, il libro – divinatorio, divino – in cui Ovidio dialoga con il
Signore di Shang, in cui Ulisse pare consultare l’I-Ching.
Qualche decennio dopo, nel 1938, pubblicando Hölderlin’s Madness (per Dent,
Londra; in Italia: Aragno, 2023), il ventiduenne David Gascoyne, traboccante di
transfert, perfeziona l’idea della traduzione come reinvenzione totale, genio
del tradotto combinato a quello del traduttore. In una nota, il poeta denuncia
il diabolico patto: “Le poesie che seguono non sono la traduzione di poesie
scelte di Hölderlin, ma un libero adattamento, introdotto e collegato da poesie
interamente originali. L’insieme costituisce quello che forse potremmo
considerare una persona”. Traduzione come animismo: tradotto e traduttore
diventano un’unica cosa, una individualità.
Naturalmente – meglio: per effetto di ferina naturalezza – le traduzioni di
Gascoyne – che aveva come riferimento la traduzione dei Poèmes de la Folie de
Hölderlin ad opera di un altro poeta, Pierre-Jean Jouve – sono mirabili.
In tutti i casi – Pound, Paz, Gascoyne – la traduzione-reinvenzione è funzionale
alla singolare ricerca lirica dei poeti. Insomma: tradurre è andare con le
lanterne, evocare gli spettri; eventualmente, fronteggiare l’urlo e dare marea
all’incendio.
*
Ad esempio: non è vero che i poeti siano i traduttori più bravi. I poeti,
semplicemente, traducono per sopravvivere. Le – pur belle – traduzioni di
Rebora, Sbarbaro, Caproni o Sereni non aggiungono nulla al tema né alla loro
opera; le – pur brutte – traduzioni di Montale ci insegnano qualcosa sul
‘metodo’ lirico del poeta, sulle sue letture. Anche Ungaretti ha tradotto tanto,
spesso con brio: è significativo il suo legame con William Blake (“Lavoro alle
traduzioni di Blake da più di sette lustri. È un poeta difficile. Sempre, anche
quando è semplice come l’acqua. Ma c’è poeta, o un qualsiasi uomo che parli, che
sia nel suo dire interamente decifrabile?”). A conti fatti, il discorso non
cambia.
*
A volte, a contrario, accade che un non poeta riesca a conferire poesia a un
testo tradotto, illuminandolo come mai prima. Nel caso dei ‘classici’, è il
classico esempio di Ezio Savino. Grecista, latinista, scrittore, Savino ha
tradotto Sofocle e Eschilo con primigenia ferocia, una nitidezza rituale che fa
impallidire i classicisti: forse è per questo che lo si guarda come una bestia
rara. Savino è il Chirone dei traduttori.
Allo stesso modo, Angelo Maria Ripellino – slavista per mestiere, poeta per
estro – ha tradotto i poeti russi come nessuno. In particolare, legò con Boris
Pasternak; a proposito, Cesare G. De Michelis scrisse che “l’opera traduttoria
di Ripellino su Pasternak ha acquistato i caratteri non solo dell’autorevolezza
ma anche della definitività”. Il saggio di De Michelis – nell’edizione
einaudiana delle Poesie di Pasternak del 1992 – s’intitola, non per caso, Il
“Pasternak” di Ripellino, come se si trattasse di un’appropriazione più che di
una traduzione. A volte questo appropriarsi accade dopo lungo assedio e strenua
lotta, a volte per coincidenza d’affetto: il corpo lirico del tradotto è
coniugale a quello del traduttore.
Secondo alcuni, le traduzioni di Tommaso Landolfi sono belle perché
‘landolfeggiano’ – del tradotto, poco c’importa. Non è inesatto considerare le
versioni di Hölderlin di Mandruzzato – stampa Adelphi – più belle, al tatto e al
palato, di quelle, più esatte, di Luigi Reitani (stampa Mondadori).
*
In un libro di vertiginosa potenza, L’arco e la lira, Octavio Paz scrive, tra
l’altro, che:
> “…l’opera poetica è in lotta con se stessa. Per questo è viva. E da questa
> continua contesa… ha origine anche ciò che si è chiamato la pericolosità della
> poesia. Il poeta è un essere a parte, un eterodosso per fatalità congenita:
> dice sempre un’altra cosa, anche quando dice le stesse cose del resto degli
> uomini della sua comunità. La diffidenza degli Stati e delle Chiese nei
> confronti della poesia non nasce solo dal naturale imperialismo di questi due
> poteri: l’indole stessa del dire poetico provoca il sospetto. Non è tanto ciò
> che dice il poeta, ma ciò che è implicito nel suo dire, il suo dualismo ultimo
> e irriducibile, ciò che conferisce alle sue parole un sapore di liberazione…
> La parola poetica non è mai completamente di questo mondo: ci trasporta sempre
> oltre, in altre terre, ad altri cieli, ad altre verità. La poesia sembra
> sfuggire alle leggi di gravità della storia, perché la sua parola non è mai
> completamente storica”.
È proprio in questa alterità che funziona la traduzione del poeta; quando,
tramite tradimento, scaturisce una verità nuova. La necessità di un testo di
essere tradotto è in questo sconfinamento del senso, non in altro. La verità
opera nel frainteso.
In un saggio in cui sonda il “parlare in lingue”, Lettura e contemplazione –
accolto anche questo nel ‘Meridiano’ – Octavio Paz ricorda una leggenda
tibetana. Un giorno, siamo nel XVIII secolo, il Dalai Lama vide dalla finestra
del palazzo del Potala la dea Tara che danzava. La dea veniva evocata da “un
povero vecchio”, che girava intorno alle mura del palazzo “recitando le sue
preghiere”. Quel recitare, incita la dea a svelarsi. Il vecchio sussurrava le
preghiere di un antico testo in sanscrito: i teologi inviati dal Dalai Lama
intercettarono difetti nella traduzione del testo. Dissero al vecchio di
emendare il dire, di pronunciare correttamente, secondo giustizia filologica,
quella preghiera – “da quel giorno Tara non apparve più”. È in ciò che non
consuona secondo legge umana, in ciò che sfugge alle filologiche spire,
l’ispirazione, il vero.
Forse è per questo che gli scrittori, messi a tradurre il testo sacro,
difficilmente riescono. Intimiditi dalla nuda gloria della Bibbia – un testo che
desertifica il lavorio intellettuale, un testo-dolmen che annienta il
verseggiatore Versailles – tentano di mettere del loro, di ormeggiare lì la
propria lingua. Così, uno scrittore altrimenti geniale come Massimo Bontempelli
s’impantana in versioni bibliche claudicanti, con linguaggio irto di aculei
retorici. Così, ad esempio, alcune lasse dal capitolo XX dell’Apocalisse,
paragonate alla versione di un poeta, Giancarlo Pontiggia, recentemente edita da
De Piante. “E sopra lui chiuse e sigillò perché non traviasse più i popoli”
(Bontempelli) vs. “e vi pose un sigillo sopra, e un ordine:/ Non sedurre più le
genti” (Pontiggia); “E vidi i troni, e su questi si assisero, e fu commesso loro
di giudicare” vs. “E vidi troni,/ e vi si sedettero sopra,/ e fu dato loro di
giudicare”; “E se taluno non si trovò scritto nel libro della vita, fu gettato
nel lago di fuoco” vs. “E chi non fu scritto nel rotolo della vita/ fu gettato
nello stagno del fuoco”.
È vero: Guido Ceronetti ha ‘liberato’ la lettura della Bibbia dalle ganasce
sacerdotali; per certi versi ha dissigillato il Testo. Alcune traduzioni
bibliche – preferisco Giobbe, Cantico dei Cantici, Isaia – sono il vero
capolavoro di Ceronetti: eppure – forse per colpa dell’onnivora ‘mobilità’ del
testo biblico, un testo cannibale – ho il sospetto che il tempo le invecchi
irrimediabilmente. La Traduzione della prima lettera ai Corinti di Giovanni
Testori, invece – pubblicata nel 1991 da Longanesi – convince ancora, è ancora
giovane. Merito dell’audacia – Testori svolge la prosa di San Paolo in poesia;
poesia che rimanda, per chi ha orecchio, a Nel tuo sangue e a Ossa mea – e,
anche qui, della violenza da rabbiosa belva con cui quel testo agisce – ha agito
– nella ricerca letteraria del traduttore. A proposito, Carlo Bo scrisse che
Testori “cerca di farsi traduttore di Paolo con Paolo, di parlare con Paolo”. A
volte: traduzione-duello; a volte: traduzione-confessione. Testori disse di “un
terribile impegno preso con lui”, con Paolo.
> “Volevo portarlo all’interno del processo di verbalizzazione della nostra
> poesia; volevo gettarlo come un ingombrante monumento dentro nostra
> letteratura. Anche di forza; anche peccando di violenza”.
Traduzione come terribile impegno – cosa, scrive Testori, che “rasenta il
ridicolo”. Tra il terrore e il ridicolo. Spogliarsi per essere falciati da
linguaggio altro – perciò: mio. Esempio dal primo capitolo; così eclatante da
impedire didascalia:
> “Paolo,
> io,
> da Cristo vocato
> – volontà Dio –
> con Sostene,
> ai fratelli della corinzia Chiesa,
> ai creati da Lui,
> luogo in ogni chiamati,
> grazia invoco,
> pace.
> Per donazione del Padre
> e del Figlio ricchezza
> in parole,
> in fede-scienza,
> dato vi fu
> del Mistero coscienza
> e d’ostenderlo imperio
> ad altrui conoscenza.
> Così
> in voi e in noi
> di Cristo il Verbo,
> niente cedendo,
> in crimine alcuno cadendo,
> l’ultima rivelazione sua attendendo,
> testimonianza riceve
> e dà”.
Essere Paolo più di Paolo – tradurre: entrare nella pelle del tradotto,
rivelarlo a lui stesso, con lavorio d’amore e di lama.
*
Questa dinamica del tradurre per tradimento ha, in Italia, due fuochi. Il primo
è Salvatore Quasimodo. La sua versione dei Lirici greci (Edizioni di Corrente,
1940, poi Mondadori, 1944) è stata tanto rivoluzionaria da costituire una novità
nella poesia in italiano. Il poeta ritorce la filologia contro i filologi, con
parole dirompenti: “Quella terminologia classicheggiante (per intenderci: opimo,
pampineo, rigoglio, fulgido, florido, ecc.) che pretese di costituirsi a
linguaggio aromatico, adatto soprattutto alle traduzioni dei testi greci e
latini, se ancora perdura in una zona storicamente evasiva della cultura
nazionale, è morta nello spirito delle generazioni nuove”. E poi:
> “Il valido apporto della filologia decade sempre oltre i limiti d’una
> interpretazione del testo esaminato e ricostruito. L’indicazione dello
> studioso non può esaurire la ‘densità poetica’ del testo; ma prepara alla
> scelta di quella parola o costrutto che rientri nella situazione di canto del
> poeta che si traduce”.
Gli esiti, insuperati per nitore, sono noti; solito esempio:
> “Tramontata è la luna
> e le Pleiadi a mezzo della notte;
> anche giovinezza già dilegua
> e ora nel mio letto resto sola”.
Dal lato opposto, Pier Paolo Pasolini che traduce L’Orestiade di Eschilo per
Vittorio Gassman, nel 1960. Il poeta, per voluttà e voracità – tutto il suo dire
è affanno di fame, è famelico: “non mi è restato che seguire il mio profondo,
avido, vorace istinto”; “mi sono gettato sul testo, a divorarlo come una belva”;
“con la brutalità dell’istinto” –, ignora il testo greco: maneggia le versioni
francese (di Paul Mazon, 1949), inglese (edita a Cambridge nel 1938) e quella
italiana di Mario Untersteiner (del 1947), innervandole nel suo “italiano:
quello delle Ceneri di Gramsci (con qualche punta espressiva sopravvissuta
da L’usignolo della chiesa cattolica)”. Nota di brigantaggio: “Peggio di così
non potevo comportarmi”. L’ideologia pasoliniana agisce ovunque: “La tendenza
linguistica generale è stata a modificare continuamente i toni sublimi in toni
civili… Da ciò un avvicinamento alla prosa, all’allocuzione bassa, ragionante”.
In sostanza, all’Eschilo edotto nei misteri di Eleusi si predilige il militare e
il cittadino, alla sostanza religiosa quella politica, al tempio l’agorà.
È un Eschilo tutt’altro, venuto da altrove, quello di Pasolini, dove anche
Cassandra non parla cinta da estasi e isteria: si rivolge con parole misurate a
“Dio” – pare un’Antigone:
> “Oh Dio! Tu parli, e compi la nostra rovina.
> No, non si può lottare con te, Maledizione
> divina di questa casa! Tu vedi tutto.
> Ciò che io credevo al sicuro e lontano,
> tu lo colpisci, con la tua arma che non perdona”.
D’altronde, il coro non impenna lemmi ambigui, vestali, ma versi da moralista
settecentesco:
> “Il male chiama altro male:
> non si può giudicare: chi
> vuol prendere è preso,
> chi ha ucciso è ucciso: nel trono
> di Dio sta scritto: Chi ha peccato paga”.
Forse nella traduzione di traduzione – questo sussurro di sussurri, questo
colibrì che si fa aquila – emerge una verità più limpida di quella che si scorge
nella pura traduzione. È come se in questo passaggio di consegne, di torce in
stormi, si giunga a qualcosa di più sottile: il terzo mette a tacere la lite tra
i due.
*
Tradurre, quando non è un gesto ‘professionale’ ma ‘esistenziale’ – i cui esiti
investono l’esistenza del traduttore, per cui quella traduzione è un hic et
nunc, un primo-e-ultimo, un ora-e-mai-più – è un sacrificio. Qualcosa, perché
accada qualcos’altro, deve morire. Ciò che non vediamo del testo tradotto è
l’altare, lo scannatoio, la bestia che sanguina. A volte, il corpo sacrificale è
quello dell’autore tradotto – a volte quello del traduttore. Soltanto di rado
sono entrambi a officiare il sacro rito del tradurre – sacralità che accade per
dissacrazione, per dissoluzione dei vincoli di fede.
La gratitudine segue l’atto di razzia, la grazia accade dopo la barbarie.
Secondo San Paolo, la traduzione – “interpretazione delle lingue”, hermeneia
glosson; secondo Testori: “d’ogni lingua interpretazione” – è un carisma: in sé
ha dunque tutti gli scorticanti drammi del dono. La traduzione è un dono
pentecostale, ha a che fare con l’escatologia, con la conoscenza delle cose
ultime – lingua morta che risorge: già, ma quanto sarà serbato del
corpo originale? Poco importa: la nostra tradizione non riguarda lingua sacra –
ebraico, arabo – ma linguaggio che ha i blasoni della blasfemia e della
latitanza – il greco dei Vangeli non è lingua che parlava Gesù il Nazareno –
lingua da espulsi, da senza patria, da paria. Non più questione di ‘rispettare
lo spirito’ di un testo ma di essere ispirati.
Così la traduzione prende efficacia, diventa belva, preme e opera. Divora.
*In copertina: “Tavola Doria” frammento ricalcato dalla “Battaglia di Anghiari”,
Leonardo da Vinci
L'articolo “Peccando di violenza”. Della traduzione come tradimento proviene da
Pangea.
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Caro Giovanni Testori,
ti vedevo inevitabilmente alla stessa ora, quando, studente, uscivo
dall’Accademia di Belle Arti, e tu entravi in un palazzo di via Brera. Allora
(fine anni Settanta) eri molto famoso, si può dire che eri all’apice. Una
mattina ebbi il dubbio, un attimo prima di svoltare, di infilarti nel palazzo e
scomparire, che tu mi abbia rivolto un sorriso. Vera o non vera che fosse la mia
impressione, decisi di non passare più di lì. Fatto sta che questo è il mistero,
mi dico oggi, se sei uno dei miei scrittori preferiti, avendo letto tutto di
te.
Tempo dopo m’iscrissi all’università, e il corso di storia dell’arte verteva sul
Sacro Monte di Varallo. Passa ancora tempo e conosco Luca Doninelli, Davide
Rondoni, Emanuele Banterle, Riccardo Bonacina, e quindi mi arresi! Tu diverso
dagli altri, figlio di industriali, ma con una voglia antica di essere povero, e
perciò radicalmente cristiano. Ci si sente malati a pensarla così. La vita
giudica, è disperata, come te. Ecco perché la malattia vera ti ha spalancato le
porte al perdono. La Grazia che hai sempre voluto è arrivata nella carne. Da
malato l’hai conosciuta, vera malattia, non malattia psicologica o sociale,
bensì organica, di sangue, corpo che si appesta, dolore che si stringe intorno
ai nostri pensieri, ferita a cui occorre porre rimedio, che sanguina. Qualche
senso ce lo deve avere tutto questo! Il male non può significare la fine! Il
Cristo lo spiega, la Croce lo spiega.
Nei tuoi confronti mi sento come il mulo che portò Gesù, slegato, libero di
reggere un simile peso, il peso della Grazia, che arriva fino a te. Tradizione
che ci hai lasciato, consentimi, fuori dagli schemi. Tutto, tutto dice della tua
condizione, mentre gli altri recitavano un non-dialogo, o recita continuamente
interrotta, vale a dire, senza vocazione, quella che viviamo ancora oggi,
sommersi come siamo da distrazioni, vincoli, controlli, chiacchiere a vuoto,
convulse, alterate, per giunta, mentre tu sei per una rivoluzione spirituale,
d’esilio. Perché se il presente è l’esilio (è stato sempre come sentirsi soli!),
ebbene tu nella malattia hai trovato Gesù, l’hai abbracciato, desiderandolo in
misura maggiore che da sano. Tremo mentre te lo scrivo. Ma il discorso adesso
tende ad ampliarsi, in assonanza con la tua opera infinita. Ti dico che
cancellarsi nell’Altro è rivelare il divino dell’amore; lasciarsi condurre per
perdersi, è potere d’amore, e, allo stesso tempo, potere d’invio. Perciò nascita
e morte sono i due poli della tua opera. Ma in funzione di un dolore che ripara.
Ecco che l’arte potenzia la vita.
Non credo né nella tua istituzionalizzazione, né nella filologia (sebbene
rispetti entrambe le cose). Paradossalmente con quanto detto, non credo in
niente. Mi aiuta vedere quelli che si lamentano dell’eccesso che rappresenti,
che storcono la bocca per via di tutte le croci che hai descritto, ti sei
innalzato per cadere, in tutte le variazioni sparse fra i tuoi libri e drammi,
in cui hai sviscerato il tema. Non come variazioni, scusa, mi sono espresso
male, ma come senso del vero e proprio, come evidenza del vero, come
testimonianza, cioè tema antico, di natura libera, dolorosa.
In fondo è accaduto questo (forse lo sai) in Italia, nella tua Milano, di fronte
alla fine del mito della rivoluzione, si ritiene, oggi, sia meglio vada tutto in
malora, anzi, meglio prima accordarsi con tutti, fingere di essere ecumenici,
quando invece si coltiva la negazione, perché c’è ancora da vivere, e conviene
prima della fine.
La realtà è complessa. Lo dice la forma d’arte che hai preferito. Altro che
scuola di scrittura! Con te si scopre cos’è scrivere: ch’e’ ditta dentro.
L’interiorità è secondaria al dettato, o è sorella del dire, del rivelare. Da
dove viene questo?, me lo chiedo sempre. Dal mistero, io credo, mistero che ci
abita, sono convinto, e dunque sono con te. Mistero incarnato, ritengo, nel tuo
cono di luce, che si sottrae all’essere maestro, ma fatto di relazione,
impastato di tempo che si libera, matura, fonda imperi e solitudini; tuttavia
non cancella l’impressione che fa un bambino appena nato, e quanto il suo
organismo preveda tutto in potenza, anche se in forma minuscola, destinata.
La scrittura è desiderio, la scena è il corpo, la poesia si rivolge a qualcuno,
in cerca di avvenimenti. La poesia stessa è avvenimento, giacché ha forato la
maschera del linguaggio ed è apparso un volto nudo. Il travaglio, o lavoro, che
il poeta ha dovuto fare per arrivare a dire, riscatta il non detto, che è
silenzio contro la babele che ci sovrasta, che s’insinua fin dentro il nostro
cuore, “e reclama quell’essenziale della Parola di te in me” per dirla con
Michel de Certeau. Del resto si sentiva nel tono della tua voce, usavi un tono
di canto per dire persino le cose minime, ma che non erano mai banali. Sono
ancora lì, nei video che ci sono rimasti delle tue preziose interviste.
Occasioni per capire quanto ti spendevi per chiunque.
Una volta mi hanno raccontato che entrasti in un taxi e chiedesti al conducente
di portarti a Parigi, da Milano a Parigi. Leggenda o verità che sia, la uso come
spunto. Avrei voluto trovarmi al posto del tassista. Sì! Chissà che cosa vi
siete detti?, che discorsi avete intrecciato, di te innamorato, che andavi a
Parigi per amore. Cito da pagina 227 de “I trionfi” (Feltrinelli, 1965):
> “[…] così come si fondono, qui, in me
> le gioie dei tuoi occhi
> e in te
> le adulte mestizie
> e dolorose
> dei miei anni
> e andando poi così
> e disfacendo sé,
> nube ed amante,
> e l’una e l’altro sempre,
> insieme nel dolore
> d’una vita che vivere
> bisogna
> nell’attesa d’una più grande
> ombra
> che in sé ridisferà
> l’amarsi della vita
> nella sera
> e della sera nella vita,
> immensa e sacra sera
> che ormai s’è fatta ombra
> e si farà, tra poco, anche per noi
> più lunga e sacra luce”.
Il sacro, certo, la sacralità della vita, di tutto, anche quello che ci opprime,
soprattutto quello, come ti ho detto fino ad ora, si può dire che non ho fatto
altro che dire questo, che l’intera lettera a te non vuole che ribadire.
> “Va la carcassa atavica;
> s’aggrappa sanguinante
> ai templi,
> alle rovine millenarie,
> la spinata testa
> cancerosa”.
La poesia va avanti, ed è tratta da un tuo libro del ‘94, riedito da Scheiwiller
nel 2002. È questa la gloria che cerchi? Non a caso il libro s’intitola “Segno
della gloria”. Che è anche culto di bellezza, ma si ottiene solo a prezzo di
dura nevrosi. Perché la gloria è mito, o trasfigurazione, o sacrificio in
segreto di disporsi a questo estremo sogno, estremo ideale carnale di teatro
immaginario, eppure luogo per ciò che si vive, che si vuol vivere, fino
all’ultimo. Riporto la postfazione al libro di Carlo Bo:
“Questa che suona come una farneticazione poetica è in realtà il testamento, uno
degli ultimi testamenti che Testori ha lasciato al suo amico Gabai e a tutti gli
uomini […] Non mi sembra che molti altri siano andati così lontano
nell’interpretazione della vita; di solito si procede per speculazioni limitate,
si accumulano delle piccole verità parziali e così facendo si tende a rimettere
nelle mani di un potere senza nome i nostri giorni, al contrario Testori non si
dà per vinto, preferendo la lotta che prelude alla sconfitta e una visione
catastrofica dell’esistenza, dove pure respira, se non l’idea, l’aspirazione
verso Dio: questo anelito che ha contraddistinto tutta la sua travolgente
ricerca”.
Ecco che cosa hai cercato, quella testa di re incoronata di spine. Tutta la
vita, questo, questo! E tu stesso testa di gloria, fatto di vita gloriosa, che
non si piega al “commercio dei dolori e delle pene e immagina di restare attore,
anche se attore perdente e incapace di trovare un rimedio” (sempre Carlo Bo).
Pensa se non ti dicessi che questa tua nevrosi ti ha salvato, e parimenti la tua
malattia, rendendoti moderno, vicino, fratello di tutti, di noi ansiosi di
comprendere che cosa ci fa uomini, ognuno col suo cruccio da vivere, di essere
per qualcosa. Non sarebbe gloria lo stesso?
Vincenzo Gambardella
*In copertina: Festa a Villa Il Tasso, casa di Roberto Longhi e Anna Banti, per
i primi 100 numeri di “Paragone”, 1958: a destra, Giovanni Testori, al centro,
Roberto Longhi (Archivio Giovanni Testori).
L'articolo “Più lunga e sacra luce”. Una lettera a Giovanni Testori proviene da
Pangea.