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“La poesia porta il caos nella società del controllo”. Dialogo con Nikola Madzirov
Nikola Madzirov è un segugio degli spiragli, si fa ispirare dalle strettoie, entra, con il coltellino, nel corpo dell’assente. Così, in una città, fotografa la camera d’albergo in cui è ospitato: in quel luogo anonimo resistono le tracce di chi vi ha soggiornato, di chi vi abiterà, anche soltanto per una notte. Ogni stanza è un bosco. Della sua vita riferisce dettagli che frugano nell’incredibile: il nonno, profugo dalle infinite guerre balcaniche, che scava per costruire la nuova casa; le antiche armi degli Ottomani bendate da vortici di vermi, necessari alla pesca, esche per sopravvivere. Un Omero frugale giace interrato tra i dedali di questa storia.  In una poesia tra le più belle raccolte in Ciò che abbiamo detto ci perseguiterà (Crocetti, 2025), Silenzio, Madzirov scrive: > “Non esiste il silenzio nel mondo. > Lo hanno inventato i monaci > per ascoltare ogni giorno i cavalli > e le piume che cadono dalle ali”.  Nato a Strumica, Macedonia, al confine tra Grecia e Bulgaria, profugo al proprio tempo, espatriato dalla Storia, classe 1973, Nikola Madzirov è un vagabondo della poesia. Charles Simić, il grande poeta serbo che fu premio Pulitzer, ha detto che leggere Madzirov “è come scoprire un nuovo pianeta nel sistema solare dell’immaginazione”. Piuttosto, Madzirov ti mostra le cose da un’angolatura inattesa, pone le cose in un candore che le fa nuove. Così, mi racconta della madre che conservava gli spazzolini da denti usati, certa “che custodissero ancora al loro interno un granello dell’anima di chi li aveva usati”; del padre che con uno spazzolino da denti usurato, ora, pulisce la lapide della moglie, “con la stessa cura di un archeologo”.  Madzirov parla come scrive: poeta la cui infanzia è stata bendata da destino di guerra, poeta post-sovietico, totalmente europeo, che non si interessa dei ‘massimi sistemi’, ma delle cose minute, dimenticate, smunte, che in sé nascondono un cosmo. Non gli importa scoprire la chiave che squaderna i mondi, ma la chiave sepolta nel comodino della nonna, di una casa che non sarà mai aperta, apparentata a distruzione e fuga.  Piero Salabè, il traduttore di Madzirov – lavora in Germania, per la Hanser Verlag, i suoi libri sono editi da La Nave di Teseo –, ha riconosciuto in lui un lignaggio che, oltre a Simić, tiene insieme Lucian Blaga e Nichita Stanescu, Vasko Popa e Zbigniew Herbert. Il titolo del libro di Madzirov mi ricorda un versetto dal Vangelo di Matteo, il tremendo imperare di Cristo: “di ogni parola vana che gli uomini diranno, dovranno rendere contro nel giorno del giudizio”. Eppure, nella poesia di Madzirov si parla di nomi inauditi, di interdetti al dire, di “parole/ sotto le pietre assieme alle ombre sepolte”. Nei suoi toni – confessionali, ‘vegetali’, in esubero – riconosco l’andare per fiumi di Álvaro Mutis, gi acquazzoni musicali di Bregović.  Grazie a una serie di borse di studio internazionali, Madzirov gira il mondo, scrive con l’estro dell’istrione e del lottatore; coordina il network di poesia “Lyrikline”, che ha sede a Berlino. Quando parla – a identificare una poetica – cita Octavio Paz e Hannah Arendt, Walter Benjamin, le “Filter Yugoslavia”, le guerre nei Balcani, Arvo Pärt; alcuni suoi versi sono stati messi in musica da Oliver Lake, sassofonista statunitense che ha lavorato, tra gli altri, con Lou Reed e Björk. Il 4 aprile prossimo, Madzirov sarà in Italia, a Venezia, tra i protagonisti del Festival Internazionale di Letteratura “Incroci di civiltà”. In alcuni suoi versi si fa il ritratto: > “Mi sono distanziato da ogni verità sull’origine  > degli alberi, dei fiumi e delle città. > Il mio nome sarà una via degli addii > e il cuore apparirà sulle radiografie”.  E poi ti dice che il poeta è una foglia sull’albero dell’imprevedibile, che bisogna confidare nella solitudine. C’è qualcosa di cavalleresco e antico in Madzirov, poeta prode, pronto al cammino – così diverso da chi deterge una carriera sul lamento e sulla litania, da chi crede, allevato all’aia, di essere alloro, di avere l’oro a fior di dita. No: bisogna sentire l’urlo del fiume, le grida scheggiate della gente – e dire della poesia la sua natura di zappa, di torcia, di scettro.  Che rapporto esiste, a tuo dire, tra il poeta e la Storia? Il poeta è una sentinella ai confini della Storia, ne è un avventato avventuriero, è un espulso? Può cambiare la Storia, il poeta, o subisce gli eventi storici? Responsabilità del poeta è rispondere alle storie “ufficiali”, sia che si tratti di una revisione emotiva dei libri di storia, sia che si tratti di costruire una storia personale che parta non dal giorno della propria nascita, ma dal giorno in cui si inizia a ricordare. Il poeta deve essere abbastanza forte da delineare un confine distintivo tra storia e ricordo, così come è necessario che il poeta faccia una distinzione tra menzogna e immaginazione, o tra globale e universale, poiché il globale è più una categoria geografica, mentre l’universalità è umana e temporale.  Quando i miei antenati, profughi dalle guerre balcaniche dell’inizio del secolo scorso, iniziarono a scavare la nuova terra per costruire la loro nuova casa, si imbatterono in antiche spade risalenti all’epoca dell’Impero Ottomano, che dominò su questi territori per cinquecento anni; mio nonno era più interessato ai vermi che trovava mentre scavava: li usava per pescare, per sopravvivere in tempi di povertà. Stava creando una storia di sopravvivenza e non era interessato all’importanza archeologica degli oggetti che non gli portavano cibo.  Sono nato al crocevia tra le battaglie storiche che sono state combattute nel cortile dove vivo e il mistero della terra che copre gli oggetti perduti, appartenuti a persone vissute qui prima di me. Hannah Arendt dice che nulla di ciò che è, nella misura in cui appare, esiste al singolare; tutto ciò che è, è destinato a essere percepito da qualcuno. La pluralità è la legge della terra. Vivo nei Balcani, dove tutte le guerre iniziano con le battaglie per un passato migliore. La guerra ha il suo plurale – le guerre vanno e tornano come cani affamati davanti a una macelleria chiusa. Solo la poesia esiste al singolare. Eppure, se la poesia esistesse al solo scopo di affermare “verità” storiche, sarebbe già diventata storia da tempo. La storia è il primo confine che voglio attraversare. Che rapporto esiste, nella tua esperienza, tra il poeta e l’esilio, l’esultante espulso, l’inerme esule? Oggi siamo nomadi della paura. La solitudine è una forma di “esilio statico”. Il mondo oggi vive i suoi nuovi localismi e le sue nuove lontananze: al posto dei chilometri, gli orizzonti della nostra presenza si misurano in kilobyte. Quella che un tempo era considerata un’introversione patologica sta diventando una qualità di vita. Tuttavia, esiste un enorme divario tra la solitudine come decisione collettiva e la solitudine come impulso personale. Centinaia di anni fa, in Europa, la nostalgia era considerata una malattia e le persone con l’irrequieta voglia di tornare a casa venivano curate con oppio, sanguisughe o lunghi soggiorni in montagna. Oggi le montagne e gli oceani sono nelle nostre case, insieme alla voglia di nuotare oltre il confine delle malattie e delle guerre. La nostalgia è una ribellione contro l’idea moderna del tempo. L’infanzia è la casa più sicura dei nostri ricordi. Solo dopo la nascita di un bambino ci rendiamo conto di quanti oggetti taglienti abbiamo in casa. Forse la nascita di un nuovo riflesso di sopravvivenza ci aiuterà a fare piazza pulita di tutti i coltelli affilati che abbiamo in casa. Da Wittgenstein a Czesław Miłosz si parla del linguaggio come della nostra vera e unica casa. Io vorrei parlare della casa come di un linguaggio, e immaginare le pareti come punteggiature alla fine del sentimento di (essere) desiderio. La finestra aperta della realtà mi permette di toccare i miei sogni e le mie paure, di sentire le dinamiche del mondo anche quando inizio a credere nelle radici invisibili dell’appartenenza. Il mio cognome significa “migrante”: l’ho scoperto solo dopo aver iniziato a viaggiare intensamente. Questa consapevolezza mi ha messo paura, così ho iniziato a dare un nome alle cose che vedo, che tocco, che riscopro… Mi chiedo sempre se le strade in cui vivo hanno nomi presi dai libri di storia o nomi che appartengono alle storie personali della città. Fotografo le stanze che lascio, invece di fotografare i monumenti intorno all’hotel. Ogni grinza sul lenzuolo nelle sterili camere d’albergo o ogni traccia profonda della gamba della sedia nella spessa moquette è una presenza di qualcuno che potrebbe tornare. La struttura degli oggetti nella stanza è il flusso sanguigno delle case che abito e che lascio. Quando vado da qualche parte sembra che sia di ritorno. Di solito sono i lavoratori edili che vivono in cabine temporanee intorno all’edificio che rimarrà lì per sempre.  Da bambino fuggivo da casa, in pigiama e con le scarpe di mio padre, tre volte più grandi. Viaggiare è l’atto più sicuro finché non lo chiamiamo “abbandono”. Michael Krüger nella poesia Migrazione scrive: “Ora le stanze sono vuote, le valigie/ allineano il corridoio accanto a scatole lunatiche/ in cui i libri lottano con i giornali”. I libri da leggere mantengono la mia fiducia nel ritorno. La lettura è sempre stata il mio carburante per spostarmi, quando ero circondata da guerre e regolamenti sui visti. Ricordo che sognavo di dimenticare tutto, per poter leggere sempre gli stessi libri. Quando ho sentito che l’oblio non sarebbe mai arrivato, ho iniziato a scrivere. Questo è anche il modo in cui vivo intorno alle cose di cui scrivo, cercando di costruire una casa con le parole e gli spostamenti. Quando gli uccelli lasciano i loro nidi, volano via; quando le persone lasciano le loro case, ricordano. Ti chiedo di commentare (come vuoi, anche esulando dal tema) questo tuo verso: “Da tempo ormai non appartengo più a nessuno”.  Mi sento al sicuro nella caverna aperta della non appartenenza. L’appartenenza è spesso nemica del radicamento. Simone Weil dice: “Essere radicati è forse il bisogno più importante e meno riconosciuto dell’anima umana”. Un essere umano appartiene anche agli spazi intermedi, alle case che rimangono incompiute. Vivo a Strumica, una città vicina al confine tra Grecia e Bulgaria, e mi sono sempre sentito più al sicuro in quella striscia di cento metri tra due confini, uno spazio senza monumenti o condizioni per la memoria storica. Questi spazi, chiamati giustamente terra di nessuno, ti dicono che non sei nessuno se li senti tuoi. I sistemi ideologici tendono sempre a creare un Nessuno da un corpo e da una mente, ma “chi crea un Nessuno negando l’esistenza di Qualcuno diventerà egli stesso un Nessuno”, scrive Octavio Paz ne Il labirinto della solitudine. Così è per le città. Sentiamo che una città comincia ad appartenerci quando troviamo un angolo, una piazzetta o un ponte senza nome per ciascuno dei nostri stati interiori, e uno comincia a riferirsi ad essa con un frammento della sua routine di vita o della sua storia personale. Credo che l’appartenenza sia una risposta naturale, ma anche auto-ingannevole, al ritorno in una città. Apparteniamo al luogo in cui torniamo o solo a quello in cui moriamo? Le città in cui si sente di appartenere sono porti della propria impercettibilità, dove, alienati dalle realtà ereditate, si comincia a costruire le verità del proprio mondo. Il titolo del mio primo libro, pubblicato più di vent’anni fa, era Locked in the City, e si riferiva soprattutto allo stato mentale di confinamento, plasmato anche dalla logica politica delle restrizioni attraverso i visti e i muri concettuali. L’appartenenza ai Balcani, volontaria o forzata, è allo stesso tempo una benedizione e una maledizione. Significa nascere nello spazio geografico della colpa: tua madre ha aperto le gambe per darti alla luce sulla sedia vuota di un tribunale penale. Ma chiudersi nella gabbia dell’eterno senso di colpa è tutto tranne che un’appartenenza. Nella nostra infanzia, le prime cose che impariamo sono le solite costanti dell’appartenenza: i nomi dei genitori, il nome della strada in cui abitiamo, il numero della classe… E poi passiamo la vita a imparare ad appartenere solo all’infanzia. Ti chiedo di spiegarmi questo verso: “Sono i resti di un’altra epoca”. Tutti vaghiamo nel cerchio del tempo per trovare il museo dell’innocenza del mondo. E il vagabondaggio è il primo passo per tornare da qualche parte: nella stanza o nella nostra infanzia. L’ombra più grande della nostra realtà nei Balcani è la fame del viaggio temporale di ritorno. Le persone lasciano le case e i ricordi a causa delle guerre e della povertà imposta, e ogni oggetto che hanno portato con sé diventa un manufatto o un simbolo, una voce offuscata di un rituale personale. Le cose diventano resti anche prima di essere perse o distrutte. Mia nonna conservava la chiave della sua casa abbandonata nello stesso armadietto dove teneva le medicine, pensando che questa chiave un giorno avrebbe potuto aprire quella porta che non esiste più e guarirla dalla nostalgia. Tutti, nelle nostre stanze, abbiamo oggetti che rimandano alla nostra morte. Per i Balcani la fuga è più una questione di misurazione del tempo che un calendario dell’assenza. La mitologia dell’infanzia è stata il mio primo rifugio dalla paura di una realtà prevedibile. Mia madre ha conservato i vestiti della mia infanzia, dicendomi che vuole diventare nonna e dare al mio bambino non ancora nato gli abiti con cui mi vestiva. Mia madre conservava tutti gli spazzolini da denti usati in casa, pensando che custodissero ancora al loro interno un granello dell’anima di chi li aveva usati. È morta sei anni fa e ora vedo mio padre che pulisce la sua foto in bianco e nero sulla lapide con uno spazzolino usato, con la stessa cura di un archeologo prima di una scoperta. Ho scritto un saggio sull’ossessione delle persone per gli oggetti e sulla loro metamorfosi utilitaristica durante la crisi del comunismo. Gli oggetti superavano i confini di tutte le scale e i sistemi simbolici conosciuti. L’immaginazione empirica della banalità della vita, acquisita con forza e senza volerlo, ha creato innovatori autoctoni tra le persone che ancora si fidavano del sistema in cui vivevano. La scoperta del pragmatismo polisemantico fu una rivelazione non meno importante dell’estetica della “vita segreta degli oggetti” di Giorgio de Chirico. La mancanza di denaro spingeva le persone a ricavare un vaso per far crescere i limoni dal grande secchio di latta vuoto in cui tenevano il formaggio; a trasformare le lattine vuote delle bibite in portapenne; a costruire coni di carta per i semi di zucca e le arachidi dei venditori ambulanti con le carte dei commercialisti e di altri uffici burocratici; i tappi delle bottiglie di birra e di Coca Cola danno un ottimo sostegno alle gambe di tavoli e a sedie instabili; le scatole delle scarpe sono ripostigli per libri e cassette. Sembra un paradosso, ma si scopre che il nostro surrealismo riproduceva pragmaticamente i disegni di Magritte: Ceci n’est pas une pipe.  Quando parlo di resti di un’altra epoca, non penso al passato, ma a una realtà diversa, alla nostra voglia di calpestare l’asfalto fresco e di tornare a vedere questa traccia innocente del tuo piedino ogni volta che ti senti stanco della realtà. “Uno dei primi istinti dei genitori, dopo aver messo al mondo un bambino, è quello di fotografarlo”, afferma Calvino ne L’avventura del fotografo e prosegue: “L’album fotografico rimane l’unico luogo in cui tutte queste fugaci perfezioni vengono salvate e giustapposte, aspirando ciascuna a una propria incomparabile assolutezza”. Ancora oggi fisso gli spazi vuoti degli album fotografici cercando di indovinare dove sono le foto che mancano, cercando di ricostruire una memoria che non mi appartiene. Le fotografie e le parole non sono residui di un’altra epoca; residuo diventa colui che scrive di tutto o colui che fotografa tutto ciò che vede, per dimenticare tutto.  Di cosa è testimone il poeta? Se volessi romanticizzare o ironizzare, direi: il poeta è qui per testimoniare il candore della neve. Eppure, credo che il poeta sia testimone dell’imperfezione degli oggetti che dormono sotto quei perfetti fiocchi di neve o forse delle gocce di sangue di un animale o di un soldato ferito sulla neve. Avevo diciotto anni quando iniziarono le nuove guerre in Jugoslavia. Sul mio letto, i politici al potere misero uniformi al pigiama dell’innocenza. Un sistema politico fu sostituito da un altro. Entrambi i cambiamenti avvennero nello stesso momento, distruggendo le pareti di vetro della mia infanzia e le spesse tende della certezza promessa. Improvvisamente, gli autori che erano nelle liste di lettura delle scuole furono dichiarati nemici dello Stato o classici, che significava soltanto una cosa: nessuno li leggeva più. Ho dovuto tagliare io stesso il cordone ombelicale, integrandomi nell’ampio quadro della letteratura europea. Da allora, tutta la mia vita si è trasformata in una fuga – ma non una fuga da qualcosa, bensì verso qualcosa. Mi fido più delle cicatrici del tempo sulla nostra pelle che degli ornamenti sopra le uniformi. Quando il soldato viene ucciso, qualcun altro prende la sua uniforme e butta via tutte le foto di famiglia e le lettere dalle tasche. Io ripeto solo la storia dei miei antenati che hanno dovuto lasciare le loro case a causa della guerra, ma hanno anche portato con sé la chiave, una chiave che avrebbe aperto solo i cancelli della memoria. Non porto con me le chiavi quando viaggio. La lingua è rimasta la mia unica soglia di certezza. Ricordo spesso le parole di Charles Simic, nato in una Jugoslavia diversa da quella in cui sono cresciuto, che diceva che essere un rifugiato non lo ha reso un poeta, ma lo ha reso il tipo di poeta che è. La caduta della Jugoslavia e l’indipendenza della Macedonia mi hanno insegnato che nessun simbolo di Stato è eterno – che tutti i leoni, le aquile, le stelle, i soli, le foglie possono volare via dalla bandiera come un sacchetto di plastica in cerca di un vento più forte. Tra le sigarette più popolari della classe operaia dell’ex Jugoslavia c’erano quelle denominate “Filter Yugoslavia”, mentre chi era “più uguale degli altri” fumava “Lord Extra”. Come se Edward Said avesse previsto il crollo della Jugoslavia: dopo la rottura dello Stato, le sigarette “Filter Yugoslavia” furono chiamate “Filter Oriental”. Lo stesso fumo viaggiava ora da Sud (Yug) a Est (Oriente), con gli occhi dei fumatori rivolti a Ovest. I Balcani sono pieni di varie verità ufficiali con un’intensità tale di singolare dolore, al di là di qualsiasi confine tracciato. La poesia, come testimonianza dolorosa e tagliente, viaggia lentamente e silenziosamente, ma vaga lontano nello spazio e nel tempo, come una lettera senza indirizzo sulla busta. Alain Bosquet diceva che il poeta è nella città solo per testimoniare che la città si trova altrove. Il poeta deve essere testimone dello spostamento dei confini delle sue perdite e delle sue aspettative. La poesia non cambia i mondi, li costruisce. Ti piace questo mondo, questo tempo, il tempo che ti è dato? Mi sento un auto-rifugiato in un periodo di falsa pace. La poesia può cambiare la distanza con cui guardiamo alle ferite aperte del mondo. La poesia può piantare un seme nelle cicatrici del mondo e aspettare la nascita di una storia che non si ripeta. Viaggio costantemente da più di vent’anni ormai, probabilmente per sfuggire alle trappole del tempo. Voglio abitare tutti i mondi di cui sono testimone, voglio nascere nello stesso tempo, così potrei provare a creare un calendario diverso. Scrivi una poesia sul Silenzio. Che valore ha il silenzio nella tua singolare ricerca poetica? Solo nel silenzio si può sentire il proprio sangue e la voce degli assenti. Eppure, è difficile trovare il silenzio perfino ai funerali o dietro le finestre sfocate delle biblioteche cittadine, come in tutti i rituali del sonno. In alcune regioni dell’America Latina, quando nasce un bambino, la prima cosa che gli dicono mentre piange è: “Preparati a tacere in questo mondo, a essere paziente”. Vivevo in una casa dove le parole di tre diverse generazioni lottavano per il loro status di importanza: mentre alcune parlavano di ricordi, la voce dall’altra parte del muro era piena di aspettative. In quella guerra quotidiana con le baionette delle parole, soltanto ascoltare la musica di Arvo Pärt o di Coltrane con il volume alzato mi ha aperto uno spazio sonoro per il silenzio del pensiero. Le mie case temporanee continuano attraversando i confini di paesi le cui lingue non capisco, sviluppando ricordi in cui non tornerò mai. Tutte le cartoline delle città trasmettono il silenzio dei monumenti delle piazze e il silenzio del postino che conosce le strade della sua città natale. “Tutti gli angoli deserti delle città, tutti i suoni e le cose hanno ancora i loro silenzi, proprio come, a mezzogiorno in montagna, c’è il silenzio delle galline, dell’ascia, delle cicale”, dice Walter Benjamin. Non accetto la definizione semplificata del silenzio come assenza di parole o suoni, perché all’inizio non era la parola, ma il respiro. Stockhausen diceva che non esiste un silenzio assoluto nel mondo, cercava di ampliare il rapporto tra il suono che è assente e il suono che si sente. Quando vedo un’ombra, non penso alla luce perduta, ma alla bella forma del corpo che produce quell’ombra. Il silenzio è la luce che dà forma al corpo delle mie parole. Il poeta rende visibili i suoni e li trasforma di nuovo in quiete attraverso l’atto del creare. Deleuze dice che il problema non è far sì che le persone si esprimano, ma fornire piccoli spazi di solitudine e silenzio in cui possano eventualmente trovare qualcosa da dire. Scrivere poesie significa viaggiare attraverso le oscure vene delle imperfezioni delle parole, scoprendo che il silenzio e l’oscurità sono le due metà del nucleo del codice universale della comprensione. Nel silenzio tutti i suoni sono uguali, nell’oscurità tutti gli oggetti sono uguali. Esiste un’etica oltre alla poetica? In cosa credi? Vivi secondo una tua personale ‘regola’? L’etica consiste nel non tradire la poetica del proprio essere, nel non diventare un mercante del dolore altrui, nel non fidarsi dei monumenti nel cortile sul retro del palazzo del governo. Scrivo di cose riscoperte e mondi assenti non per lodarli, ma per demistificare l’aureola di storia che li circonda. Vivo in una piccola città vicino a tre confini: macedone, bulgaro e greco; attraversare un confine per me è come attraversare la strada con i semafori che non funzionano. A volte penso che ogni ruga sul mio corpo sia solo un riflesso dei confini che ho attraversato. La sfida più grande per me è stata attraversare il confine del tempo, poiché tutte le guerre balcaniche iniziano conquistando prima il passato: soltanto dopo si parla di territori. Storico e isterico: un’unità perfetta per uccidere! In questo senso, mi considero un archeologo illegittimo che, scrivendo poesie o saggi, cerca di demistificare la mitomania ereditata e tutte le grandi narrazioni, mettendole in una prospettiva diversa, più luminosa o più oscura. Raccontare storie di luoghi o oggetti dimenticati è più importante di tutte le lettere e gli ordini segreti firmati da capi di guerra desiderosi di diventare un giorno dei monumenti. Ho fiducia nell’architettura della solitudine e voglio credere che il poeta sia la voce della foglia tremante sull’albero dell’imprevedibile. Che rapporti hai con l’invisibile? Non essere visti è il sogno di ogni osservatore dietro la porta socchiusa del mondo, è il desiderio di ogni poeta perso nel labirinto fatto dei ricordi altrui. La finestra aperta della realtà mi permette di toccare i miei sogni e le mie paure, di sentire le dinamiche del mondo anche quando inizio a credere nelle radici invisibili dell’appartenenza.  Vedo la poesia come un corpo intoccabile che si disloca a ogni nuova lettura. Nonostante la sua fragilità, la poesia può portare il caos all’interno di società altamente controllate. I dittatori hanno paura del significato invisibile delle parole, perché a loro piace creare cose assolute e visibili. Mi considero un fragile testimone della dura realtà e dell’aldilà, che ruba momenti invisibili o verità non dette, piuttosto che uno che ruba storie o fotografie dagli album di famiglia. Alejandra Pizarnik scrive: “temo di non sapere come nominare/ ciò che non esiste”. Gli scienziati potrebbero facilmente dare un nome ai pianeti o ai minerali che non sono ancora stati scoperti, ma la poetessa vuole credere che il silenzio sia il nome perfetto per tutte le cose invisibili e assenti. Scrivere è solo un modo per rimandare la mia assenza. Ritaglia un verso, un distico dalla tua opera che ti rappresenta – e dimmi perché. “Lontane sono tutte le capanne in cui ci riparavamo dalla pioggia e dalla pena dei cervi che morivano davanti a cacciatori più soli che affamati.” La distanza non può essere un rifugio dalla sofferenza del mondo. ** Ciò che abbiamo detto ci perseguiterà Abbiamo dato un nome alle piante selvatiche che crescono dietro agli edifici in costruzione, e a tutti i monumenti dei nostri invasori. Abbiamo battezzato i bambini con i nomi affettuosi trovati nelle lettere lette una sola volta. Abbiamo poi, di nascosto, decifrato le firme in fondo alle ricette per le malattie incurabili e col binocolo abbiamo ravvicinato le mani che ci salutavano dalle finestre. Abbiamo lasciato le parole sotto le pietre assieme alle ombre sepolte, sulla collina che conserva l’eco di antenati che non compaiono nell’albero genealogico. Ciò che abbiamo detto senza testimoni ci perseguiterà per molto tempo. In noi si sono stipati molti inverni che nessuno ha mai menzionato. * Quando il tempo si fermerà Siamo i resti di un’altra epoca. Ecco perché non posso parlare della casa o della morte o di dolori prevedibili. Finora nessun ladro di tombe ha scovato le mura tra di noi, né il freddo calato nelle ossa fra i resti di tutte le epoche. Quando il tempo si fermerà, discuteremo della verità e sulle nostre fronti le lucciole formeranno una costellazione. Nessun falso profeta aveva previsto che il bicchiere si sarebbe rotto e neppure che si sarebbero toccati i palmi – due grandi verità da cui sgorga acqua pura. Siamo i resti di un’altra epoca. Ci ritiriamo nei paesaggi della solitudine addomesticata come lupi che contemplano la colpa eterna. * Da ogni mia cicatrice Sono un mendicante senza il coraggio di chiedere l’elemosina a me stesso. Sui miei palmi si incrociano le linee e le ferite di tutte le carezze mancate, di tutte le febbri non misurate sulla fronte, dell’amore scavato abusivamente. Da ogni mia cicatrice emerge una verità. Cresco e svanisco con il giorno, mi addentro senza paura nell’origine, e intorno a me tutto si muove: la pietra diviene casa, la roccia granello di sabbia. Quando smetto di respirare, il cuore batte più forte. * Loro e noi Probabilmente gli angeli hanno uomini tatuati sulle spalle, e custodiscono le proprie ombre nello scrigno dei ricordi. A volte appaiono come una voce che annuncia l’alba o come una luce soffusa sotto un letto d’ospedale. Noi esistiamo perché loro esistono, loro volano perché noi camminiamo. Siamo così vicini e lontani come i protoni e i neutroni nel nucleo di tutti i mondi. Traduzione di Piero Salabè Da Nikola Madzirov, Ciò che abbiamo detto ci perseguiterà, Crocetti Editore, Milano, 2025. *In copertina: Nikola Madzirov in un ritratto fotografico di Sophie Kandaouroff L'articolo “La poesia porta il caos nella società del controllo”. Dialogo con Nikola Madzirov proviene da Pangea.
March 31, 2025 / Pangea