Nikola Madzirov è un segugio degli spiragli, si fa ispirare dalle strettoie,
entra, con il coltellino, nel corpo dell’assente. Così, in una città, fotografa
la camera d’albergo in cui è ospitato: in quel luogo anonimo resistono le tracce
di chi vi ha soggiornato, di chi vi abiterà, anche soltanto per una notte. Ogni
stanza è un bosco. Della sua vita riferisce dettagli che frugano
nell’incredibile: il nonno, profugo dalle infinite guerre balcaniche, che scava
per costruire la nuova casa; le antiche armi degli Ottomani bendate da vortici
di vermi, necessari alla pesca, esche per sopravvivere. Un Omero frugale giace
interrato tra i dedali di questa storia.
In una poesia tra le più belle raccolte in Ciò che abbiamo detto ci
perseguiterà (Crocetti, 2025), Silenzio, Madzirov scrive:
> “Non esiste il silenzio nel mondo.
> Lo hanno inventato i monaci
> per ascoltare ogni giorno i cavalli
> e le piume che cadono dalle ali”.
Nato a Strumica, Macedonia, al confine tra Grecia e Bulgaria, profugo al proprio
tempo, espatriato dalla Storia, classe 1973, Nikola Madzirov è un vagabondo
della poesia. Charles Simić, il grande poeta serbo che fu premio Pulitzer, ha
detto che leggere Madzirov “è come scoprire un nuovo pianeta nel sistema solare
dell’immaginazione”. Piuttosto, Madzirov ti mostra le cose da un’angolatura
inattesa, pone le cose in un candore che le fa nuove. Così, mi racconta della
madre che conservava gli spazzolini da denti usati, certa “che custodissero
ancora al loro interno un granello dell’anima di chi li aveva usati”; del padre
che con uno spazzolino da denti usurato, ora, pulisce la lapide della moglie,
“con la stessa cura di un archeologo”.
Madzirov parla come scrive: poeta la cui infanzia è stata bendata da destino di
guerra, poeta post-sovietico, totalmente europeo, che non si interessa dei
‘massimi sistemi’, ma delle cose minute, dimenticate, smunte, che in sé
nascondono un cosmo. Non gli importa scoprire la chiave che squaderna i mondi,
ma la chiave sepolta nel comodino della nonna, di una casa che non sarà mai
aperta, apparentata a distruzione e fuga.
Piero Salabè, il traduttore di Madzirov – lavora in Germania, per la Hanser
Verlag, i suoi libri sono editi da La Nave di Teseo –, ha riconosciuto in lui un
lignaggio che, oltre a Simić, tiene insieme Lucian Blaga e Nichita Stanescu,
Vasko Popa e Zbigniew Herbert. Il titolo del libro di Madzirov mi ricorda un
versetto dal Vangelo di Matteo, il tremendo imperare di Cristo: “di ogni parola
vana che gli uomini diranno, dovranno rendere contro nel giorno del giudizio”.
Eppure, nella poesia di Madzirov si parla di nomi inauditi, di interdetti al
dire, di “parole/ sotto le pietre assieme alle ombre sepolte”. Nei suoi toni –
confessionali, ‘vegetali’, in esubero – riconosco l’andare per fiumi di Álvaro
Mutis, gi acquazzoni musicali di Bregović.
Grazie a una serie di borse di studio internazionali, Madzirov gira il mondo,
scrive con l’estro dell’istrione e del lottatore; coordina il network di poesia
“Lyrikline”, che ha sede a Berlino. Quando parla – a identificare una poetica –
cita Octavio Paz e Hannah Arendt, Walter Benjamin, le “Filter Yugoslavia”, le
guerre nei Balcani, Arvo Pärt; alcuni suoi versi sono stati messi in musica da
Oliver Lake, sassofonista statunitense che ha lavorato, tra gli altri, con Lou
Reed e Björk. Il 4 aprile prossimo, Madzirov sarà in Italia, a Venezia, tra i
protagonisti del Festival Internazionale di Letteratura “Incroci di civiltà”. In
alcuni suoi versi si fa il ritratto:
> “Mi sono distanziato da ogni verità sull’origine
> degli alberi, dei fiumi e delle città.
> Il mio nome sarà una via degli addii
> e il cuore apparirà sulle radiografie”.
E poi ti dice che il poeta è una foglia sull’albero dell’imprevedibile, che
bisogna confidare nella solitudine. C’è qualcosa di cavalleresco e antico in
Madzirov, poeta prode, pronto al cammino – così diverso da chi deterge una
carriera sul lamento e sulla litania, da chi crede, allevato all’aia, di essere
alloro, di avere l’oro a fior di dita. No: bisogna sentire l’urlo del fiume, le
grida scheggiate della gente – e dire della poesia la sua natura di zappa, di
torcia, di scettro.
Che rapporto esiste, a tuo dire, tra il poeta e la Storia? Il poeta è una
sentinella ai confini della Storia, ne è un avventato avventuriero, è un
espulso? Può cambiare la Storia, il poeta, o subisce gli eventi storici?
Responsabilità del poeta è rispondere alle storie “ufficiali”, sia che si tratti
di una revisione emotiva dei libri di storia, sia che si tratti di costruire una
storia personale che parta non dal giorno della propria nascita, ma dal giorno
in cui si inizia a ricordare. Il poeta deve essere abbastanza forte da delineare
un confine distintivo tra storia e ricordo, così come è necessario che il poeta
faccia una distinzione tra menzogna e immaginazione, o tra globale e universale,
poiché il globale è più una categoria geografica, mentre l’universalità è umana
e temporale.
Quando i miei antenati, profughi dalle guerre balcaniche dell’inizio del secolo
scorso, iniziarono a scavare la nuova terra per costruire la loro nuova casa, si
imbatterono in antiche spade risalenti all’epoca dell’Impero Ottomano, che
dominò su questi territori per cinquecento anni; mio nonno era più interessato
ai vermi che trovava mentre scavava: li usava per pescare, per sopravvivere in
tempi di povertà. Stava creando una storia di sopravvivenza e non era
interessato all’importanza archeologica degli oggetti che non gli portavano
cibo.
Sono nato al crocevia tra le battaglie storiche che sono state combattute nel
cortile dove vivo e il mistero della terra che copre gli oggetti perduti,
appartenuti a persone vissute qui prima di me. Hannah Arendt dice che nulla di
ciò che è, nella misura in cui appare, esiste al singolare; tutto ciò che è, è
destinato a essere percepito da qualcuno. La pluralità è la legge della terra.
Vivo nei Balcani, dove tutte le guerre iniziano con le battaglie per un passato
migliore. La guerra ha il suo plurale – le guerre vanno e tornano come cani
affamati davanti a una macelleria chiusa. Solo la poesia esiste al singolare.
Eppure, se la poesia esistesse al solo scopo di affermare “verità” storiche,
sarebbe già diventata storia da tempo. La storia è il primo confine che voglio
attraversare.
Che rapporto esiste, nella tua esperienza, tra il poeta e l’esilio, l’esultante
espulso, l’inerme esule?
Oggi siamo nomadi della paura. La solitudine è una forma di “esilio statico”. Il
mondo oggi vive i suoi nuovi localismi e le sue nuove lontananze: al posto dei
chilometri, gli orizzonti della nostra presenza si misurano in kilobyte. Quella
che un tempo era considerata un’introversione patologica sta diventando una
qualità di vita. Tuttavia, esiste un enorme divario tra la solitudine come
decisione collettiva e la solitudine come impulso personale. Centinaia di anni
fa, in Europa, la nostalgia era considerata una malattia e le persone con
l’irrequieta voglia di tornare a casa venivano curate con oppio, sanguisughe o
lunghi soggiorni in montagna. Oggi le montagne e gli oceani sono nelle nostre
case, insieme alla voglia di nuotare oltre il confine delle malattie e delle
guerre. La nostalgia è una ribellione contro l’idea moderna del tempo.
L’infanzia è la casa più sicura dei nostri ricordi. Solo dopo la nascita di un
bambino ci rendiamo conto di quanti oggetti taglienti abbiamo in casa. Forse la
nascita di un nuovo riflesso di sopravvivenza ci aiuterà a fare piazza pulita di
tutti i coltelli affilati che abbiamo in casa. Da Wittgenstein a Czesław Miłosz
si parla del linguaggio come della nostra vera e unica casa. Io vorrei parlare
della casa come di un linguaggio, e immaginare le pareti come punteggiature alla
fine del sentimento di (essere) desiderio. La finestra aperta della realtà mi
permette di toccare i miei sogni e le mie paure, di sentire le dinamiche del
mondo anche quando inizio a credere nelle radici invisibili dell’appartenenza.
Il mio cognome significa “migrante”: l’ho scoperto solo dopo aver iniziato a
viaggiare intensamente. Questa consapevolezza mi ha messo paura, così ho
iniziato a dare un nome alle cose che vedo, che tocco, che riscopro… Mi chiedo
sempre se le strade in cui vivo hanno nomi presi dai libri di storia o nomi che
appartengono alle storie personali della città. Fotografo le stanze che lascio,
invece di fotografare i monumenti intorno all’hotel. Ogni grinza sul lenzuolo
nelle sterili camere d’albergo o ogni traccia profonda della gamba della sedia
nella spessa moquette è una presenza di qualcuno che potrebbe tornare. La
struttura degli oggetti nella stanza è il flusso sanguigno delle case che abito
e che lascio. Quando vado da qualche parte sembra che sia di ritorno. Di solito
sono i lavoratori edili che vivono in cabine temporanee intorno all’edificio che
rimarrà lì per sempre.
Da bambino fuggivo da casa, in pigiama e con le scarpe di mio padre, tre volte
più grandi. Viaggiare è l’atto più sicuro finché non lo chiamiamo “abbandono”.
Michael Krüger nella poesia Migrazione scrive: “Ora le stanze sono vuote, le
valigie/ allineano il corridoio accanto a scatole lunatiche/ in cui i libri
lottano con i giornali”. I libri da leggere mantengono la mia fiducia nel
ritorno. La lettura è sempre stata il mio carburante per spostarmi, quando ero
circondata da guerre e regolamenti sui visti. Ricordo che sognavo di dimenticare
tutto, per poter leggere sempre gli stessi libri. Quando ho sentito che l’oblio
non sarebbe mai arrivato, ho iniziato a scrivere. Questo è anche il modo in cui
vivo intorno alle cose di cui scrivo, cercando di costruire una casa con le
parole e gli spostamenti. Quando gli uccelli lasciano i loro nidi, volano via;
quando le persone lasciano le loro case, ricordano.
Ti chiedo di commentare (come vuoi, anche esulando dal tema) questo tuo verso:
“Da tempo ormai non appartengo più a nessuno”.
Mi sento al sicuro nella caverna aperta della non appartenenza. L’appartenenza è
spesso nemica del radicamento. Simone Weil dice: “Essere radicati è forse il
bisogno più importante e meno riconosciuto dell’anima umana”. Un essere umano
appartiene anche agli spazi intermedi, alle case che rimangono incompiute. Vivo
a Strumica, una città vicina al confine tra Grecia e Bulgaria, e mi sono sempre
sentito più al sicuro in quella striscia di cento metri tra due confini, uno
spazio senza monumenti o condizioni per la memoria storica. Questi spazi,
chiamati giustamente terra di nessuno, ti dicono che non sei nessuno se li senti
tuoi. I sistemi ideologici tendono sempre a creare un Nessuno da un corpo e da
una mente, ma “chi crea un Nessuno negando l’esistenza di Qualcuno diventerà
egli stesso un Nessuno”, scrive Octavio Paz ne Il labirinto della solitudine.
Così è per le città. Sentiamo che una città comincia ad appartenerci quando
troviamo un angolo, una piazzetta o un ponte senza nome per ciascuno dei nostri
stati interiori, e uno comincia a riferirsi ad essa con un frammento della sua
routine di vita o della sua storia personale. Credo che l’appartenenza sia una
risposta naturale, ma anche auto-ingannevole, al ritorno in una città.
Apparteniamo al luogo in cui torniamo o solo a quello in cui moriamo? Le città
in cui si sente di appartenere sono porti della propria impercettibilità, dove,
alienati dalle realtà ereditate, si comincia a costruire le verità del proprio
mondo. Il titolo del mio primo libro, pubblicato più di vent’anni fa, era Locked
in the City, e si riferiva soprattutto allo stato mentale di confinamento,
plasmato anche dalla logica politica delle restrizioni attraverso i visti e i
muri concettuali.
L’appartenenza ai Balcani, volontaria o forzata, è allo stesso tempo una
benedizione e una maledizione. Significa nascere nello spazio geografico della
colpa: tua madre ha aperto le gambe per darti alla luce sulla sedia vuota di un
tribunale penale. Ma chiudersi nella gabbia dell’eterno senso di colpa è tutto
tranne che un’appartenenza. Nella nostra infanzia, le prime cose che impariamo
sono le solite costanti dell’appartenenza: i nomi dei genitori, il nome della
strada in cui abitiamo, il numero della classe… E poi passiamo la vita a
imparare ad appartenere solo all’infanzia.
Ti chiedo di spiegarmi questo verso: “Sono i resti di un’altra epoca”.
Tutti vaghiamo nel cerchio del tempo per trovare il museo dell’innocenza del
mondo. E il vagabondaggio è il primo passo per tornare da qualche parte: nella
stanza o nella nostra infanzia. L’ombra più grande della nostra realtà nei
Balcani è la fame del viaggio temporale di ritorno. Le persone lasciano le case
e i ricordi a causa delle guerre e della povertà imposta, e ogni oggetto che
hanno portato con sé diventa un manufatto o un simbolo, una voce offuscata di un
rituale personale. Le cose diventano resti anche prima di essere perse o
distrutte. Mia nonna conservava la chiave della sua casa abbandonata nello
stesso armadietto dove teneva le medicine, pensando che questa chiave un giorno
avrebbe potuto aprire quella porta che non esiste più e guarirla dalla
nostalgia. Tutti, nelle nostre stanze, abbiamo oggetti che rimandano alla nostra
morte. Per i Balcani la fuga è più una questione di misurazione del tempo che un
calendario dell’assenza. La mitologia dell’infanzia è stata il mio primo rifugio
dalla paura di una realtà prevedibile. Mia madre ha conservato i vestiti della
mia infanzia, dicendomi che vuole diventare nonna e dare al mio bambino non
ancora nato gli abiti con cui mi vestiva. Mia madre conservava tutti gli
spazzolini da denti usati in casa, pensando che custodissero ancora al loro
interno un granello dell’anima di chi li aveva usati. È morta sei anni fa e ora
vedo mio padre che pulisce la sua foto in bianco e nero sulla lapide con uno
spazzolino usato, con la stessa cura di un archeologo prima di una scoperta. Ho
scritto un saggio sull’ossessione delle persone per gli oggetti e sulla loro
metamorfosi utilitaristica durante la crisi del comunismo. Gli oggetti
superavano i confini di tutte le scale e i sistemi simbolici conosciuti.
L’immaginazione empirica della banalità della vita, acquisita con forza e senza
volerlo, ha creato innovatori autoctoni tra le persone che ancora si fidavano
del sistema in cui vivevano. La scoperta del pragmatismo polisemantico fu una
rivelazione non meno importante dell’estetica della “vita segreta degli oggetti”
di Giorgio de Chirico. La mancanza di denaro spingeva le persone a ricavare un
vaso per far crescere i limoni dal grande secchio di latta vuoto in cui tenevano
il formaggio; a trasformare le lattine vuote delle bibite in portapenne; a
costruire coni di carta per i semi di zucca e le arachidi dei venditori
ambulanti con le carte dei commercialisti e di altri uffici burocratici; i tappi
delle bottiglie di birra e di Coca Cola danno un ottimo sostegno alle gambe di
tavoli e a sedie instabili; le scatole delle scarpe sono ripostigli per libri e
cassette. Sembra un paradosso, ma si scopre che il nostro surrealismo
riproduceva pragmaticamente i disegni di Magritte: Ceci n’est pas une pipe.
Quando parlo di resti di un’altra epoca, non penso al passato, ma a una realtà
diversa, alla nostra voglia di calpestare l’asfalto fresco e di tornare a vedere
questa traccia innocente del tuo piedino ogni volta che ti senti stanco della
realtà. “Uno dei primi istinti dei genitori, dopo aver messo al mondo un
bambino, è quello di fotografarlo”, afferma Calvino ne L’avventura del
fotografo e prosegue: “L’album fotografico rimane l’unico luogo in cui tutte
queste fugaci perfezioni vengono salvate e giustapposte, aspirando ciascuna a
una propria incomparabile assolutezza”. Ancora oggi fisso gli spazi vuoti degli
album fotografici cercando di indovinare dove sono le foto che mancano, cercando
di ricostruire una memoria che non mi appartiene. Le fotografie e le parole non
sono residui di un’altra epoca; residuo diventa colui che scrive di tutto o
colui che fotografa tutto ciò che vede, per dimenticare tutto.
Di cosa è testimone il poeta?
Se volessi romanticizzare o ironizzare, direi: il poeta è qui per testimoniare
il candore della neve. Eppure, credo che il poeta sia testimone
dell’imperfezione degli oggetti che dormono sotto quei perfetti fiocchi di neve
o forse delle gocce di sangue di un animale o di un soldato ferito sulla neve.
Avevo diciotto anni quando iniziarono le nuove guerre in Jugoslavia. Sul mio
letto, i politici al potere misero uniformi al pigiama dell’innocenza. Un
sistema politico fu sostituito da un altro. Entrambi i cambiamenti avvennero
nello stesso momento, distruggendo le pareti di vetro della mia infanzia e le
spesse tende della certezza promessa. Improvvisamente, gli autori che erano
nelle liste di lettura delle scuole furono dichiarati nemici dello Stato
o classici, che significava soltanto una cosa: nessuno li leggeva più. Ho dovuto
tagliare io stesso il cordone ombelicale, integrandomi nell’ampio quadro della
letteratura europea. Da allora, tutta la mia vita si è trasformata in una fuga –
ma non una fuga da qualcosa, bensì verso qualcosa. Mi fido più delle cicatrici
del tempo sulla nostra pelle che degli ornamenti sopra le uniformi. Quando il
soldato viene ucciso, qualcun altro prende la sua uniforme e butta via tutte le
foto di famiglia e le lettere dalle tasche. Io ripeto solo la storia dei miei
antenati che hanno dovuto lasciare le loro case a causa della guerra, ma hanno
anche portato con sé la chiave, una chiave che avrebbe aperto solo i cancelli
della memoria. Non porto con me le chiavi quando viaggio. La lingua è rimasta la
mia unica soglia di certezza. Ricordo spesso le parole di Charles Simic, nato in
una Jugoslavia diversa da quella in cui sono cresciuto, che diceva che essere un
rifugiato non lo ha reso un poeta, ma lo ha reso il tipo di poeta che è. La
caduta della Jugoslavia e l’indipendenza della Macedonia mi hanno insegnato che
nessun simbolo di Stato è eterno – che tutti i leoni, le aquile, le stelle, i
soli, le foglie possono volare via dalla bandiera come un sacchetto di plastica
in cerca di un vento più forte. Tra le sigarette più popolari della classe
operaia dell’ex Jugoslavia c’erano quelle denominate “Filter Yugoslavia”, mentre
chi era “più uguale degli altri” fumava “Lord Extra”. Come se Edward Said avesse
previsto il crollo della Jugoslavia: dopo la rottura dello Stato, le sigarette
“Filter Yugoslavia” furono chiamate “Filter Oriental”. Lo stesso fumo viaggiava
ora da Sud (Yug) a Est (Oriente), con gli occhi dei fumatori rivolti a Ovest. I
Balcani sono pieni di varie verità ufficiali con un’intensità tale di singolare
dolore, al di là di qualsiasi confine tracciato. La poesia, come testimonianza
dolorosa e tagliente, viaggia lentamente e silenziosamente, ma vaga lontano
nello spazio e nel tempo, come una lettera senza indirizzo sulla busta. Alain
Bosquet diceva che il poeta è nella città solo per testimoniare che la città si
trova altrove. Il poeta deve essere testimone dello spostamento dei confini
delle sue perdite e delle sue aspettative. La poesia non cambia i mondi, li
costruisce.
Ti piace questo mondo, questo tempo, il tempo che ti è dato?
Mi sento un auto-rifugiato in un periodo di falsa pace. La poesia può cambiare
la distanza con cui guardiamo alle ferite aperte del mondo. La poesia può
piantare un seme nelle cicatrici del mondo e aspettare la nascita di una storia
che non si ripeta. Viaggio costantemente da più di vent’anni ormai,
probabilmente per sfuggire alle trappole del tempo. Voglio abitare tutti i mondi
di cui sono testimone, voglio nascere nello stesso tempo, così potrei provare a
creare un calendario diverso.
Scrivi una poesia sul Silenzio. Che valore ha il silenzio nella tua singolare
ricerca poetica?
Solo nel silenzio si può sentire il proprio sangue e la voce degli assenti.
Eppure, è difficile trovare il silenzio perfino ai funerali o dietro le finestre
sfocate delle biblioteche cittadine, come in tutti i rituali del sonno. In
alcune regioni dell’America Latina, quando nasce un bambino, la prima cosa che
gli dicono mentre piange è: “Preparati a tacere in questo mondo, a essere
paziente”. Vivevo in una casa dove le parole di tre diverse generazioni
lottavano per il loro status di importanza: mentre alcune parlavano di ricordi,
la voce dall’altra parte del muro era piena di aspettative. In quella guerra
quotidiana con le baionette delle parole, soltanto ascoltare la musica di Arvo
Pärt o di Coltrane con il volume alzato mi ha aperto uno spazio sonoro per il
silenzio del pensiero. Le mie case temporanee continuano attraversando i confini
di paesi le cui lingue non capisco, sviluppando ricordi in cui non tornerò mai.
Tutte le cartoline delle città trasmettono il silenzio dei monumenti delle
piazze e il silenzio del postino che conosce le strade della sua città natale.
“Tutti gli angoli deserti delle città, tutti i suoni e le cose hanno ancora i
loro silenzi, proprio come, a mezzogiorno in montagna, c’è il silenzio delle
galline, dell’ascia, delle cicale”, dice Walter Benjamin. Non accetto la
definizione semplificata del silenzio come assenza di parole o suoni, perché
all’inizio non era la parola, ma il respiro. Stockhausen diceva che non esiste
un silenzio assoluto nel mondo, cercava di ampliare il rapporto tra il suono che
è assente e il suono che si sente. Quando vedo un’ombra, non penso alla luce
perduta, ma alla bella forma del corpo che produce quell’ombra. Il silenzio è la
luce che dà forma al corpo delle mie parole. Il poeta rende visibili i suoni e
li trasforma di nuovo in quiete attraverso l’atto del creare. Deleuze dice che
il problema non è far sì che le persone si esprimano, ma fornire piccoli spazi
di solitudine e silenzio in cui possano eventualmente trovare qualcosa da dire.
Scrivere poesie significa viaggiare attraverso le oscure vene delle imperfezioni
delle parole, scoprendo che il silenzio e l’oscurità sono le due metà del nucleo
del codice universale della comprensione. Nel silenzio tutti i suoni sono
uguali, nell’oscurità tutti gli oggetti sono uguali.
Esiste un’etica oltre alla poetica? In cosa credi? Vivi secondo una tua
personale ‘regola’?
L’etica consiste nel non tradire la poetica del proprio essere, nel non
diventare un mercante del dolore altrui, nel non fidarsi dei monumenti nel
cortile sul retro del palazzo del governo. Scrivo di cose riscoperte e mondi
assenti non per lodarli, ma per demistificare l’aureola di storia che li
circonda. Vivo in una piccola città vicino a tre confini: macedone, bulgaro e
greco; attraversare un confine per me è come attraversare la strada con i
semafori che non funzionano. A volte penso che ogni ruga sul mio corpo sia solo
un riflesso dei confini che ho attraversato. La sfida più grande per me è stata
attraversare il confine del tempo, poiché tutte le guerre balcaniche iniziano
conquistando prima il passato: soltanto dopo si parla di
territori. Storico e isterico: un’unità perfetta per uccidere! In questo senso,
mi considero un archeologo illegittimo che, scrivendo poesie o saggi, cerca di
demistificare la mitomania ereditata e tutte le grandi narrazioni, mettendole in
una prospettiva diversa, più luminosa o più oscura. Raccontare storie di luoghi
o oggetti dimenticati è più importante di tutte le lettere e gli ordini segreti
firmati da capi di guerra desiderosi di diventare un giorno dei monumenti. Ho
fiducia nell’architettura della solitudine e voglio credere che il poeta sia la
voce della foglia tremante sull’albero dell’imprevedibile.
Che rapporti hai con l’invisibile?
Non essere visti è il sogno di ogni osservatore dietro la porta socchiusa del
mondo, è il desiderio di ogni poeta perso nel labirinto fatto dei ricordi
altrui. La finestra aperta della realtà mi permette di toccare i miei sogni e le
mie paure, di sentire le dinamiche del mondo anche quando inizio a credere nelle
radici invisibili dell’appartenenza.
Vedo la poesia come un corpo intoccabile che si disloca a ogni nuova lettura.
Nonostante la sua fragilità, la poesia può portare il caos all’interno di
società altamente controllate. I dittatori hanno paura del significato
invisibile delle parole, perché a loro piace creare cose assolute e visibili. Mi
considero un fragile testimone della dura realtà e dell’aldilà, che ruba momenti
invisibili o verità non dette, piuttosto che uno che ruba storie o fotografie
dagli album di famiglia. Alejandra Pizarnik scrive: “temo di non sapere come
nominare/ ciò che non esiste”. Gli scienziati potrebbero facilmente dare un nome
ai pianeti o ai minerali che non sono ancora stati scoperti, ma la poetessa
vuole credere che il silenzio sia il nome perfetto per tutte le cose invisibili
e assenti. Scrivere è solo un modo per rimandare la mia assenza.
Ritaglia un verso, un distico dalla tua opera che ti rappresenta – e dimmi
perché.
“Lontane sono tutte le capanne in cui ci riparavamo dalla pioggia
e dalla pena dei cervi che morivano davanti a cacciatori
più soli che affamati.”
La distanza non può essere un rifugio dalla sofferenza del mondo.
**
Ciò che abbiamo detto ci perseguiterà
Abbiamo dato un nome
alle piante selvatiche
che crescono dietro agli edifici in costruzione,
e a tutti i monumenti
dei nostri invasori.
Abbiamo battezzato i bambini
con i nomi affettuosi
trovati nelle lettere
lette una sola volta.
Abbiamo poi, di nascosto, decifrato le firme
in fondo alle ricette
per le malattie incurabili
e col binocolo abbiamo ravvicinato
le mani che ci salutavano
dalle finestre.
Abbiamo lasciato le parole
sotto le pietre assieme alle ombre sepolte,
sulla collina che conserva l’eco
di antenati che non compaiono
nell’albero genealogico.
Ciò che abbiamo detto senza testimoni
ci perseguiterà per molto tempo.
In noi si sono stipati molti inverni
che nessuno ha mai menzionato.
*
Quando il tempo si fermerà
Siamo i resti di un’altra epoca.
Ecco perché non posso
parlare della casa o della morte
o di dolori prevedibili.
Finora nessun ladro di tombe
ha scovato le mura tra di noi,
né il freddo calato nelle ossa
fra i resti di tutte le epoche.
Quando il tempo si fermerà,
discuteremo della verità
e sulle nostre fronti le lucciole
formeranno una costellazione.
Nessun falso profeta
aveva previsto che il bicchiere si sarebbe rotto
e neppure che si sarebbero toccati i palmi –
due grandi verità da cui sgorga
acqua pura.
Siamo i resti di un’altra epoca.
Ci ritiriamo nei paesaggi
della solitudine addomesticata
come lupi che contemplano la colpa eterna.
*
Da ogni mia cicatrice
Sono un mendicante senza il coraggio
di chiedere l’elemosina a me stesso.
Sui miei palmi si incrociano le linee e
le ferite di tutte le carezze mancate,
di tutte le febbri non misurate sulla fronte,
dell’amore scavato abusivamente.
Da ogni mia cicatrice
emerge una verità.
Cresco e svanisco
con il giorno, mi addentro
senza paura nell’origine,
e intorno a me tutto si muove:
la pietra diviene casa,
la roccia granello di sabbia.
Quando smetto di respirare,
il cuore batte più forte.
*
Loro e noi
Probabilmente gli angeli
hanno uomini tatuati sulle spalle,
e custodiscono le proprie ombre
nello scrigno dei ricordi.
A volte appaiono
come una voce che annuncia l’alba
o come una luce soffusa
sotto un letto d’ospedale.
Noi esistiamo perché loro esistono,
loro volano perché noi camminiamo.
Siamo così vicini e lontani
come i protoni e i neutroni
nel nucleo di tutti i mondi.
Traduzione di Piero Salabè
Da Nikola Madzirov, Ciò che abbiamo detto ci perseguiterà, Crocetti Editore,
Milano, 2025.
*In copertina: Nikola Madzirov in un ritratto fotografico di Sophie Kandaouroff
L'articolo “La poesia porta il caos nella società del controllo”. Dialogo con
Nikola Madzirov proviene da Pangea.