Ti atterrisce. È così, credo, sempre: la poesia ti mette con le spalle al muro.
Ti obbliga ad abolire gli abbagli – a riconoscerti misero.
Sarà stato dieci anni fa. Magro come un chiodo, calvo, classe 1942 – è rimasto
in silenzio per tutta la cena. Una cena che pareva una cattedrale. Ci siamo
incontrati a Morciano, nelle colline romagnole, a casa dell’editore Raffaelli,
che ha pubblicato certi suoi libri: E sempre dopo il vento (2013), Quando tutto
tace (2016). Da Morciano provengono i genitori di Umberto Boccioni –
incidentalmente nato a Reggio Calabria –; un millennio fa da quelle parti ha
piantato tenda San Pier Damiani: gli aironi, garruli messaggeri dei morti,
furoreggiano lungo il fiume Conca. Hugo Mujica preferì ritirarsi in meditazione.
Meditava per ore, contro una parete: in quel muro, vedeva il cielo, l’oceano,
l’osanna delle stelle.
Non so quante vite abbia vissuto Mujica. Nato ad Avellaneda, a tredici anni
lavora in una fabbrica di vetro; la sera studia belle arti. Il padre, anarchico
d’indole, è reso cieco in seguito a un incidente. Diciannovenne, con 37 dollari
nello zaino, Mujica molla l’Argentina per tentare il sogno americano: si piazza
al Greenwich; discepolo di Timothy Leary, prova LSD, dipinge, si aliena dal
mondo.
> “È stato Allen Ginsberg ad aprirmi le porte dello ‘spirituale’: mi ha
> presentato Swami Satchidananda, che ho frequentato e che, paradossalmente, mi
> ha condotto al cristianesimo”.
L’ultimo momento ‘mondano’ di Mujica è il Festival di Woodstock. Il suo maestro,
Satchidananda, intona una preghiera: seguono Ravi Shankar e Joan Baez, Santana,
Janis Joplin, Jimi Hendrix e via così.
Per sette anni, Mujica s’inabissa in un monastero trappista – persegue il
silenzio. All’Athos, apprende la disciplina dell’esicasmo. Al contrario di
quella di Thomas Merton, la poesia di Mujica – che in Italia si può
leggere nell’ampia antologia edita da InternoPoesia, E tutto nomina – procede
per folgorazioni, per trasalimenti e assalti: “Niente si brucia invano:/ tutto
ciò che brucia muore/ illuminando”; “spogliati da ciò che siamo/ non c’è nulla
che non/ siamo”; “Vedere non è aprire gli occhi,/ è mettere da parte il bastone
bianco:// avere l’audacia di camminare/ sul sapersi perduto”. Ordinato sacerdote
a Buenos Aires, per un po’ si occupa di una parrocchia – poi opta per lo studio
e la scrittura. Nasce alla poesia nel 1983, con Brace bianca; ha scritto saggi
su Georg Trakl e Paul Celan, su Giovanni della Croce e Francis Bacon,
sulla Mitología del poeta en la obra de Heidegger.
Mujica vuole giungere alla primogenitura del linguaggio: al punto in cui la
poesia è Adamo e il serpente, il coltello e l’angelo. Come se potessimo
raccogliere il siero delle costellazioni. Chiedo alla sua traduttrice, Zingonia
Zingone, di aiutarmi a raggiungerlo. Mujica non è un uomo facile – atterrisce.
Mi dice di aver letto per l’ennesima volta La morte di Virgilio di Hermann
Broch; ama il finale di Moby Dick. Non cita poeti perché per lui la poesia è
vita; non cerca la fama,
> “la fama è volgare, non ce l’ho e non la cerco – mi importa, certo, sentirmi
> rispettato e ovviamente apprezzato, che è altro dall’essere applaudito”.
È difficile trovare un artista così libero – libero, soprattutto, dalle proprie
convinzioni. La libertà atterrisce. I versi di Mujica, all’apparenza tanto
nitidi, impegnano a un lento sovvertimento di sé.
Res extensa. “Credo, desidero e spero che supereremo sempre più quella visione
schizofrenica della vita: la contrapposizione tra res extensa e res
cogitans, tra soggetto e oggetto, tra sentimento e ragionamento, tra materia e
spirito… Non esiste la soggettività da una parte e il mondo dall’altra: io vivo
il mondo, sono vita che non può essere separata dal mondo, dal corpo, dal
sentire: sono incarnazione. Nel cul de sac di Cartesio non troviamo una
soggettività incontaminata, pura, ma piuttosto una solitudine pura e finale.
“Chiudo gli occhi, mi copro le orecchie…”, così insegna, e quella testa senza
corpo, quell’IA, diremmo oggi, quel fantasma lo chiama “ego sum”, l’io che è. E
l’altro, quello che da lui deriva, res extensa, l’esilio in terra, è
l’estensione di un mondo non abbracciato, un mondo senza un’anima, è un semplice
costrutto della ragione, un semplice schema esangue della nostra comprensione.
Mi viene in mente una frase di Nietzsche, che stabilisco da subito come epigrafe
interpretativa di ciò che diremo nel seguito di questo dialogo: ‘Di tutto quanto
uno scrive, amo solo ciò che si scrive col sangue. Scrivi col tuo sangue e
imparerai che il sangue è puro spirito’”.
Realtà. “La realtà non è, la realtà diviene, non è qualcosa di finito che
possiamo oggettivare, cioè ridurre e fissare per dominare, ma è tempo, il tempo
in cui possiamo, reciprocamente trasformarci, ricrearci… ‘All’interno di ognuno
non c’è morte che non uccida, non c’è nascita estranea né amore disabitato’,
scriveva Olga Orozco”.
Corpo, corpus. “Tempo fa uno studioso mi fece notare che nei risvolti dei miei
libri, dove solitamente compaiono la biografia dell’autore, i titoli, gli studi,
i premi, ecc., si trovano più spesso le tappe fondamentali della mia vita, le
mie modalità di ricerca, gli approdi e i distacchi. Insomma, più la bio che
la grafia, più i battiti del cuore che i dati. Non me ne ero accorto, ma è così:
la mia scrittura nasce dalla terra su cui ho camminato. Senza esagerare né
romanticizzare, mi leggo mentre scrivo, ascolto il mio corpo che mi precede
sempre, precede la conoscenza riflessiva, grammaticale: io lo traduco, gli dò
voce e così traduco me stesso, mi racconto la mia stessa vita… la vivo,
vivendola. Il poeta è tale nell’ascolto di ciò che la vita gli rivela”.
In viaggio verso Dio. “Ciascuno ha il proprio cammino, ma per giungere a Dio non
ci sono né scale, né sentieri, né approdi. C’è Dio: ognuno deve tracciare la
propria strada, quella che Dio percorre verso di noi”.
Trasformare il mondo. “Trasformare il mondo è una formula arrogante: sfiorare,
emozionare, accarezzare, accompagnare qualcuno o alcuni… non è tutto il mondo,
ma è già qualcosa di enorme, sono già delle vite…”.
Sul silenzio. “Ho vissuto molti anni in silenzio imparando che il silenzio è una
metafora del nulla. Ciò che è, ciò che dev’essere, è ascolto, accoglienza senza
palpebre, senza separazione da ciò che ci raggiunge e penetra: vulnerabilità
pura. Mentre si dilata all’aperto, senza nulla su cui rimbalzare, pura
espansione e allo stesso tempo immensità riposante: ecco quell’esperienza che
chiamiamo silenzio. Dopo, quando qualcosa interrompe l’ascolto, diamo un nome a
quell’interruzione, il riflusso dell’inseparabile unità: flusso e riflusso del
dire e del tacere, di ascoltare e nominare. Naturalmente, quanto più si dilata
l’ascolto, quanto più si estende in profondità o in altezza, tanto più elevata o
profonda, distante o intima, sarà l’intensità con cui si nomina ciò che è
apparso, ciò che l’ascolto ha trovato, o ad esso è stato offerto o rivelato.
Ascolto è come chiamo il silenzio incarnato, e quella è la parola,
l’atteggiamento, la chiave della mia scrittura e della mia vita”.
Sul deserto. “Benché in decenni di scrittura abbia cambiato significati ed
esperienze, il deserto è senza dubbio solitudine. Prima come privazione, poi
come fecondità, poi ancora come luogo privilegiato – come accade nella
tradizione ascetica –, ‘luogo dell’ascolto’, di nudità assoluta, sabbia in terra
e cielo aperto: il miracolo di vivere nella carne viva, il miracolo delle stelle
battenti o del sole cocente. Più quotidianamente: solitudine attenta, attenzione
aperta e in agguato. Senza il deserto non sapremmo tutto ciò che ci ha insegnato
la sete, né le sorgenti verso cui ci ha condotto”.
Mi contraddico: da Timothy Leary a Heidegger, tra Ginsberg e Trakl. “Quelli che
citi sono figure contraddittorie, è vero: come me, come lo è la vita. Sì, mi
contraddico e ‘con grande onore’ come si dice nel mio paese. ‘Mi contraddico?/
Certo che mi contraddico!/ Sono vasto, contengo moltitudini’, scriveva quel
grande vitalista di Walt Whitman. Sono un coro di voci, pulsioni, sensazioni,
comandi. Siamo tanti in ognuno: tutti quegli autori sono già il mio sangue e il
mio oblio, e ognuno mi ha permesso di essere qualcuno di diverso da quello che
ero; tra di loro divengo in me e negli altri. Non contraddizione, dunque, ma
ricchezza: è un conflitto che crea vita creando da sé più vita ancora. Io stesso
– e quel ciascuno che sono e quel ciascuno che è in me – non sono ciò che sono:
sono il mio nascere continuo, sono la mia libertà creatrice, con cui e in cui
tutto sta nascendo”.
Sulla ricerca spirituale. “La mia ‘ricerca spirituale’ è la mia vita, non un
compartimento separato; e non è nemmeno spirituale: è. Non vivo per separazioni
o opposizioni; vivo – almeno, ci provo – per integrazioni. A volte è un fiore,
molte volte è un dolore altrui che ti ferisce, una poesia o una cantata
dell’immenso Bach, un bimbo o… tutto alimenta la mia ricerca e il mio riposo.
Sono la ricerca che sono: il corpo che respira aria, l’anima che aspira alla
luce, e di nuovo – insisto –, senza alcuna separazione: la musica, non gli
strumenti. E, sempre, l’essere uno e plurale, diverso ma reciproco di tutto”.
Sapere di non sapere. “Ricordo quanto ha scritto Pessoa: ‘Il mio misticismo è
non voler sapere. È vivere senza pensare che vivo’. Lo immagino come una
partenza senza ritorno, uno stare nella vita, non di fronte alla vita. Non è
un’idea, è qualcosa che ho visto – non molte volte, è vero, ma l’ho visto –
negli sguardi che brillano nelle notti stellate, a pupille dilatati, quasi a
immagine dei ciechi che non sanno della propria ombra e non conoscono il proprio
riflesso. Parlo di occhi che guardano senza cercare sé stessi, di un sapere
senza sapersi; parlo di vivere senza quel “sé” che ci restituisce a noi stessi
come cacciatori già saturi di caccia, o selfie che abbiamo già scattato; parlo
di un’esistenza senza che tutto mi riporti verso me stesso, alle medesime cose
di me. Intendo: guardare il sole senza sapere che lo sto guardando – essere il
sole. In definitiva, sto definendo ciò che considero santità: dimenticare sé
stessi, abbandonarsi. Mi devo citare: ‘cerco un’alba vergine di me/ cerco la
nascita della luce/ non il suo illuminarmi’”.
Per una poetica del fulmine. “Tradizionalmente, poetica è la riflessione che lo
scrittore fa sulla scrittura. Nella poesia Poetica, scrivo: ‘Un fulmine,/ nella
notte che dilata,/ illumina il suo stesso spegnersi’. Cerco di far percepire la
scintilla creatrice, quella che accende, o meno, ciò che può essere un’opera;
il Kairós, l’istante propizio, l’ispirazione. Cogliere quel fulmine, avere lo
sguardo rivolto verso l’alto in quell’istante, è la sensibilità di un creatore,
la vulnerabilità con cui si espone allo stupore di essere vivo, con cui si
lascia ferire. Molti di noi sentono i tuoni, ma è già tardi, è già l’eco della
luce, l’ombra delle parole, non il loro splendore”.
Il senso della poesia. “Il senso nasce sempre da un incontro: non è lì, pronto
da prendere e sfruttare, non lo creo dal nulla per porlo in bella posizione. È
come la scintilla che nasce dallo sfregamento di due pietre: una è la poesia,
l’altra è il lettore; la scintilla è il senso, nato dal dono reciproco del dare
e del ricevere la creazione. Un senso non separato dalla poesia né da chi
leggendola la sente, per giocare con il doppio senso della parola. Il senso
della vita è semplicemente sentirla nella sua profondità, nella sorgente da cui
scaturisce. Niente di meno ci ha insegnato Dio quando si è rivelato a sé stesso
come il creatore di ciò che da sempre e per sempre crea, dal cosmo immenso e
infinito fino al più piccolo punto con cui terminiamo questo dialogo, questo
incontro”.
Zingonia Zingone, che ringraziamo, ha reso possibile questo dialogo. in
copertina: Hugo Mujica ritratto da Francisco Vocos
Il testo è pubblicato integralmente nell’ultimo numero de “La Biennale di
Venezia”, 3/25 (“Materia prima/Raw Material”). La storica rivista è “tornata a
nuova vita dopo cinquantatré anni di silenzio editoriale”.
L'articolo “Niente si brucia invano”. Dialogo con Hugo Mujica proviene da
Pangea.
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Se nel Novecento inglese non sono mancati gli esempi di sacerdoti cattolici
votati alla letteratura, come R. H. Benson, Ronald Knox o John Ayscough, di
certo Sylvester Houédard ne è stato il rappresentante più eccentrico, monaco
benedettino e poeta della Beat Generation.
Classe 1924, Pierre-Thomas-Paul Joseph Houédard – Sylvester è il nome assunto da
religioso – era nato a Guernsey, una piccola isola nel canale della Manica, da
una famiglia di origini francesi. Sin da ragazzo dimostrò una non comune
vivacità intellettuale che si associava a una profonda devozione. Nel 1977, in
un articolo per il «Tablet» intitolato Memories of a Catholic Childhood,
raccontò del suo amore di allora per la liturgia latina e di come volentieri
accompagnasse la madre alla messa domenicale.
Rimasto orfano, allo scoppio del Secondo conflitto mondiale fu costretto a
trasferirsi nel Lancashire con il fratello maggiore, pilota della RAF, purtroppo
destinato a morire in combattimento poco tempo dopo. Nel 1941 riuscì a ottenere
l’ingresso al Jesus College di Oxford, dove studiò storia moderna, e venne
nominato presidente della prestigiosa Newman Society, in prima fila nell’animare
la pastorale cattolica in università.
Intanto Houédard iniziava a scorgere nel proprio animo i chiari segnali di una
vocazione religiosa e perciò volle recarsi in visita al monastero di Prinknash,
vicino a Gloucester, dove, di lì a poco, sarebbe entrato come novizio l’amico
Victor Brooke, nipote del famoso generale Lord Alanbrooke.
Sul finire della guerra fu chiamato a operare in Asia per conto
dell’Intelligence e, per un breve periodo, lavorò al Ministero
dell’Alimentazione. Data la pessima calligrafia dovuta alla meningite e
all’artrite reumatoide di cui aveva sofferto da piccolo, finì per essere
costretto a usare sistematicamente la macchina da scrivere: non è esagerato
affermare che senza la scoperta di quel prezioso strumento la sua successiva
carriera d’autore non sarebbe mai iniziata.
Una volta congedato, Houédard ritornò a Oxford per completare il suo percorso di
studi, dopodiché nel 1949 fu libero di indossare l’abito monacale. Prima di
entrare a Prinknash, regalò agli amici ciò che possedeva e a Christopher
Tolkien, terzogenito dell’autore de Il Signore degli Anelli, toccò un bastone da
passeggio in ebano, con un pomello d’avorio finemente intarsiato, che si diceva
fosse appartenuto all’Imperatore d’Abissinia.
Tra il 1951 e il 1954 studiò al Pontificio ateneo Sant’Anselmo di Roma,
scrivendo una tesi sulla libertà nell’opera di Sartre, e nel 1959 venne ordinato
sacerdote.
Al di là dei meriti squisitamente ecclesiastici – scrisse di teologia, collaborò
con diverse case editrici cattoliche e curò la pubblicazione, nel 1966,
della Bibbia di Gerusalemme – Houédard si distinse per essere stato tra i
principali interpreti della cosiddetta “poesia concreta” (concrete poetry), una
delle tante manifestazioni artistiche germogliate in seno
al milieucontroculturale degli anni Sessanta e Settanta.
Teorizzata dal brasiliano E. M. de Melo e Castro, la “poesia concreta” sposta
l’attenzione dal contenuto del testo ai suoi elementi costitutivi, che sono
parole, sillabe e fonemi di cui si esalta la dimensione tipografica, variamente
valorizzati mediante la disposizione sul foglio o anche su materiali diversi
dalla carta. L’intento, sulla falsariga delle prove futuriste, è quello di
scomporre il linguaggio tradizionale per donargli una dimensione visiva e sonora
inedita, con un esito che si situa a metà strada tra la letteratura e l’arte
figurativa.
La lettera-manifesto di E. M. de Melo e Castro, apparsa sul «Times Literary
Supplement» nel 1962, incoraggiò un drastico cambio di direzione nella poesia di
Houédard, fino a quel momento limitata a componimenti semi-confessionali in
versi liberi. Le possibilità offerte dalla “poesia concreta” dettero pure un
nuovo contesto agli arabeschi che andava producendo sin dagli anni Quaranta con
la sua fidata macchina da scrivere, una Olivetti Lettera 22.
Houédard realizzò la quasi totalità dei suoi lavori nell’arco di una decina
d’anni, tutti firmati con l’acronimo “dsh” (Dom Sylvester Houédard). Li chiamò
“poemi visivi” o “typestracts”, una crasi tra typewriter e abstractsuggeritagli
dall’amico Edwin Morgan. Fu pertanto molto prolifico, ma solo per un periodo
relativamente limitato, collaborando con numerose riviste, gruppi artistici e
piccole realtà teatrali. Inoltre fu un conferenziere instancabile e le sue opere
vennero esposte sia in Inghilterra che negli Stati Uniti.
Inevitabilmente il suo stato ambiguo di monaco e autore, o, secondo una
fortunata definizione, di «seguace della cultura Beat venuto dal Medioevo», non
mancò di procurare qualche malumore a Prinknash, anche perché il suo legame col
movimento controculturale lo portò a schierarsi politicamente e a occuparsi di
tematiche sessuali in termini un po’ troppo espliciti.
In generale Houédard predicava una visione teologica e artistica la più
inclusiva possibile. Fu un pioniere del dialogo ecumenico, un appassionato
studioso di Islam, di religioni orientali e del mistico Meister Eckhart, e nei
suoi articoli, privi di punteggiatura e zeppi di segni grafici inusuali,
sostenne sempre la necessità di fondere le arti, sintetizzandole in un prodotto
omnicomprensivo. La macchina da scrivere cosmica a cui allude il titolo del
volume curato da Nicola Simpson nel 2012, Notes from the Cosmic Typewriter, ad
oggi lo studio migliore sulla vita e le opere del benedettino, fa appunto
riferimento a una poesia concepita come preghiera, anti-dogmatica, senza limiti,
intesa a cogliere frammenti di quello spirito universale che è Dio.
Sebbene Houédard fosse un tipo schivo, più interessato a sostenere gli scrittori
emergenti che alle luci della ribalta, godette anch’egli del proverbiale quarto
d’ora di celebrità: una sua foto apparve su «Vogue» ed entrò in contatto con un
numero così elevato di letterati e artisti, tra cui Allen Ginsberg, William S.
Burroughs, Jack Kerouac, Yoko Ono e John Cage, che la sua rubrica telefonica
pare contasse quasi tremila nomi. Non è dunque una sorpresa scoprirlo tra gli
spettatori in presenti alla Albert Hall, nel 1965, in occasione della prima
International Poet Incarnation (il suo volto glabro, seminascosto dagli
immancabili occhiali da sole, fa capolino nel filmato dell’evento, The Wholly
Communion, diretto da Peter Whitehead).
Houédard morì nel 1992, all’età di sessantasette anni, e il suo corpo venne
sepolto nel parco del nuovo monastero, dove i benedettini si erano trasferiti
vent’anni prima. Secondo l’ex abate Aldhelm Cameron-Brown, malgrado il
confratello fosse un tipo peculiare,
> «era pur sempre una persona adorabile, ed era dedito alla comunità, anche se
> sentiva che non sempre apprezzavamo quello che stava facendo. […]. A suo modo
> condusse una vita piena di Fede».
Luca Fumagalli
L'articolo «Un Beat venuto dal Medioevo»: storia di Sylvester Houédard, monaco e
poeta proviene da Pangea.