Ti atterrisce. È così, credo, sempre: la poesia ti mette con le spalle al muro.
Ti obbliga ad abolire gli abbagli – a riconoscerti misero.
Sarà stato dieci anni fa. Magro come un chiodo, calvo, classe 1942 – è rimasto
in silenzio per tutta la cena. Una cena che pareva una cattedrale. Ci siamo
incontrati a Morciano, nelle colline romagnole, a casa dell’editore Raffaelli,
che ha pubblicato certi suoi libri: E sempre dopo il vento (2013), Quando tutto
tace (2016). Da Morciano provengono i genitori di Umberto Boccioni –
incidentalmente nato a Reggio Calabria –; un millennio fa da quelle parti ha
piantato tenda San Pier Damiani: gli aironi, garruli messaggeri dei morti,
furoreggiano lungo il fiume Conca. Hugo Mujica preferì ritirarsi in meditazione.
Meditava per ore, contro una parete: in quel muro, vedeva il cielo, l’oceano,
l’osanna delle stelle.
Non so quante vite abbia vissuto Mujica. Nato ad Avellaneda, a tredici anni
lavora in una fabbrica di vetro; la sera studia belle arti. Il padre, anarchico
d’indole, è reso cieco in seguito a un incidente. Diciannovenne, con 37 dollari
nello zaino, Mujica molla l’Argentina per tentare il sogno americano: si piazza
al Greenwich; discepolo di Timothy Leary, prova LSD, dipinge, si aliena dal
mondo.
> “È stato Allen Ginsberg ad aprirmi le porte dello ‘spirituale’: mi ha
> presentato Swami Satchidananda, che ho frequentato e che, paradossalmente, mi
> ha condotto al cristianesimo”.
L’ultimo momento ‘mondano’ di Mujica è il Festival di Woodstock. Il suo maestro,
Satchidananda, intona una preghiera: seguono Ravi Shankar e Joan Baez, Santana,
Janis Joplin, Jimi Hendrix e via così.
Per sette anni, Mujica s’inabissa in un monastero trappista – persegue il
silenzio. All’Athos, apprende la disciplina dell’esicasmo. Al contrario di
quella di Thomas Merton, la poesia di Mujica – che in Italia si può
leggere nell’ampia antologia edita da InternoPoesia, E tutto nomina – procede
per folgorazioni, per trasalimenti e assalti: “Niente si brucia invano:/ tutto
ciò che brucia muore/ illuminando”; “spogliati da ciò che siamo/ non c’è nulla
che non/ siamo”; “Vedere non è aprire gli occhi,/ è mettere da parte il bastone
bianco:// avere l’audacia di camminare/ sul sapersi perduto”. Ordinato sacerdote
a Buenos Aires, per un po’ si occupa di una parrocchia – poi opta per lo studio
e la scrittura. Nasce alla poesia nel 1983, con Brace bianca; ha scritto saggi
su Georg Trakl e Paul Celan, su Giovanni della Croce e Francis Bacon,
sulla Mitología del poeta en la obra de Heidegger.
Mujica vuole giungere alla primogenitura del linguaggio: al punto in cui la
poesia è Adamo e il serpente, il coltello e l’angelo. Come se potessimo
raccogliere il siero delle costellazioni. Chiedo alla sua traduttrice, Zingonia
Zingone, di aiutarmi a raggiungerlo. Mujica non è un uomo facile – atterrisce.
Mi dice di aver letto per l’ennesima volta La morte di Virgilio di Hermann
Broch; ama il finale di Moby Dick. Non cita poeti perché per lui la poesia è
vita; non cerca la fama,
> “la fama è volgare, non ce l’ho e non la cerco – mi importa, certo, sentirmi
> rispettato e ovviamente apprezzato, che è altro dall’essere applaudito”.
È difficile trovare un artista così libero – libero, soprattutto, dalle proprie
convinzioni. La libertà atterrisce. I versi di Mujica, all’apparenza tanto
nitidi, impegnano a un lento sovvertimento di sé.
Res extensa. “Credo, desidero e spero che supereremo sempre più quella visione
schizofrenica della vita: la contrapposizione tra res extensa e res
cogitans, tra soggetto e oggetto, tra sentimento e ragionamento, tra materia e
spirito… Non esiste la soggettività da una parte e il mondo dall’altra: io vivo
il mondo, sono vita che non può essere separata dal mondo, dal corpo, dal
sentire: sono incarnazione. Nel cul de sac di Cartesio non troviamo una
soggettività incontaminata, pura, ma piuttosto una solitudine pura e finale.
“Chiudo gli occhi, mi copro le orecchie…”, così insegna, e quella testa senza
corpo, quell’IA, diremmo oggi, quel fantasma lo chiama “ego sum”, l’io che è. E
l’altro, quello che da lui deriva, res extensa, l’esilio in terra, è
l’estensione di un mondo non abbracciato, un mondo senza un’anima, è un semplice
costrutto della ragione, un semplice schema esangue della nostra comprensione.
Mi viene in mente una frase di Nietzsche, che stabilisco da subito come epigrafe
interpretativa di ciò che diremo nel seguito di questo dialogo: ‘Di tutto quanto
uno scrive, amo solo ciò che si scrive col sangue. Scrivi col tuo sangue e
imparerai che il sangue è puro spirito’”.
Realtà. “La realtà non è, la realtà diviene, non è qualcosa di finito che
possiamo oggettivare, cioè ridurre e fissare per dominare, ma è tempo, il tempo
in cui possiamo, reciprocamente trasformarci, ricrearci… ‘All’interno di ognuno
non c’è morte che non uccida, non c’è nascita estranea né amore disabitato’,
scriveva Olga Orozco”.
Corpo, corpus. “Tempo fa uno studioso mi fece notare che nei risvolti dei miei
libri, dove solitamente compaiono la biografia dell’autore, i titoli, gli studi,
i premi, ecc., si trovano più spesso le tappe fondamentali della mia vita, le
mie modalità di ricerca, gli approdi e i distacchi. Insomma, più la bio che
la grafia, più i battiti del cuore che i dati. Non me ne ero accorto, ma è così:
la mia scrittura nasce dalla terra su cui ho camminato. Senza esagerare né
romanticizzare, mi leggo mentre scrivo, ascolto il mio corpo che mi precede
sempre, precede la conoscenza riflessiva, grammaticale: io lo traduco, gli dò
voce e così traduco me stesso, mi racconto la mia stessa vita… la vivo,
vivendola. Il poeta è tale nell’ascolto di ciò che la vita gli rivela”.
In viaggio verso Dio. “Ciascuno ha il proprio cammino, ma per giungere a Dio non
ci sono né scale, né sentieri, né approdi. C’è Dio: ognuno deve tracciare la
propria strada, quella che Dio percorre verso di noi”.
Trasformare il mondo. “Trasformare il mondo è una formula arrogante: sfiorare,
emozionare, accarezzare, accompagnare qualcuno o alcuni… non è tutto il mondo,
ma è già qualcosa di enorme, sono già delle vite…”.
Sul silenzio. “Ho vissuto molti anni in silenzio imparando che il silenzio è una
metafora del nulla. Ciò che è, ciò che dev’essere, è ascolto, accoglienza senza
palpebre, senza separazione da ciò che ci raggiunge e penetra: vulnerabilità
pura. Mentre si dilata all’aperto, senza nulla su cui rimbalzare, pura
espansione e allo stesso tempo immensità riposante: ecco quell’esperienza che
chiamiamo silenzio. Dopo, quando qualcosa interrompe l’ascolto, diamo un nome a
quell’interruzione, il riflusso dell’inseparabile unità: flusso e riflusso del
dire e del tacere, di ascoltare e nominare. Naturalmente, quanto più si dilata
l’ascolto, quanto più si estende in profondità o in altezza, tanto più elevata o
profonda, distante o intima, sarà l’intensità con cui si nomina ciò che è
apparso, ciò che l’ascolto ha trovato, o ad esso è stato offerto o rivelato.
Ascolto è come chiamo il silenzio incarnato, e quella è la parola,
l’atteggiamento, la chiave della mia scrittura e della mia vita”.
Sul deserto. “Benché in decenni di scrittura abbia cambiato significati ed
esperienze, il deserto è senza dubbio solitudine. Prima come privazione, poi
come fecondità, poi ancora come luogo privilegiato – come accade nella
tradizione ascetica –, ‘luogo dell’ascolto’, di nudità assoluta, sabbia in terra
e cielo aperto: il miracolo di vivere nella carne viva, il miracolo delle stelle
battenti o del sole cocente. Più quotidianamente: solitudine attenta, attenzione
aperta e in agguato. Senza il deserto non sapremmo tutto ciò che ci ha insegnato
la sete, né le sorgenti verso cui ci ha condotto”.
Mi contraddico: da Timothy Leary a Heidegger, tra Ginsberg e Trakl. “Quelli che
citi sono figure contraddittorie, è vero: come me, come lo è la vita. Sì, mi
contraddico e ‘con grande onore’ come si dice nel mio paese. ‘Mi contraddico?/
Certo che mi contraddico!/ Sono vasto, contengo moltitudini’, scriveva quel
grande vitalista di Walt Whitman. Sono un coro di voci, pulsioni, sensazioni,
comandi. Siamo tanti in ognuno: tutti quegli autori sono già il mio sangue e il
mio oblio, e ognuno mi ha permesso di essere qualcuno di diverso da quello che
ero; tra di loro divengo in me e negli altri. Non contraddizione, dunque, ma
ricchezza: è un conflitto che crea vita creando da sé più vita ancora. Io stesso
– e quel ciascuno che sono e quel ciascuno che è in me – non sono ciò che sono:
sono il mio nascere continuo, sono la mia libertà creatrice, con cui e in cui
tutto sta nascendo”.
Sulla ricerca spirituale. “La mia ‘ricerca spirituale’ è la mia vita, non un
compartimento separato; e non è nemmeno spirituale: è. Non vivo per separazioni
o opposizioni; vivo – almeno, ci provo – per integrazioni. A volte è un fiore,
molte volte è un dolore altrui che ti ferisce, una poesia o una cantata
dell’immenso Bach, un bimbo o… tutto alimenta la mia ricerca e il mio riposo.
Sono la ricerca che sono: il corpo che respira aria, l’anima che aspira alla
luce, e di nuovo – insisto –, senza alcuna separazione: la musica, non gli
strumenti. E, sempre, l’essere uno e plurale, diverso ma reciproco di tutto”.
Sapere di non sapere. “Ricordo quanto ha scritto Pessoa: ‘Il mio misticismo è
non voler sapere. È vivere senza pensare che vivo’. Lo immagino come una
partenza senza ritorno, uno stare nella vita, non di fronte alla vita. Non è
un’idea, è qualcosa che ho visto – non molte volte, è vero, ma l’ho visto –
negli sguardi che brillano nelle notti stellate, a pupille dilatati, quasi a
immagine dei ciechi che non sanno della propria ombra e non conoscono il proprio
riflesso. Parlo di occhi che guardano senza cercare sé stessi, di un sapere
senza sapersi; parlo di vivere senza quel “sé” che ci restituisce a noi stessi
come cacciatori già saturi di caccia, o selfie che abbiamo già scattato; parlo
di un’esistenza senza che tutto mi riporti verso me stesso, alle medesime cose
di me. Intendo: guardare il sole senza sapere che lo sto guardando – essere il
sole. In definitiva, sto definendo ciò che considero santità: dimenticare sé
stessi, abbandonarsi. Mi devo citare: ‘cerco un’alba vergine di me/ cerco la
nascita della luce/ non il suo illuminarmi’”.
Per una poetica del fulmine. “Tradizionalmente, poetica è la riflessione che lo
scrittore fa sulla scrittura. Nella poesia Poetica, scrivo: ‘Un fulmine,/ nella
notte che dilata,/ illumina il suo stesso spegnersi’. Cerco di far percepire la
scintilla creatrice, quella che accende, o meno, ciò che può essere un’opera;
il Kairós, l’istante propizio, l’ispirazione. Cogliere quel fulmine, avere lo
sguardo rivolto verso l’alto in quell’istante, è la sensibilità di un creatore,
la vulnerabilità con cui si espone allo stupore di essere vivo, con cui si
lascia ferire. Molti di noi sentono i tuoni, ma è già tardi, è già l’eco della
luce, l’ombra delle parole, non il loro splendore”.
Il senso della poesia. “Il senso nasce sempre da un incontro: non è lì, pronto
da prendere e sfruttare, non lo creo dal nulla per porlo in bella posizione. È
come la scintilla che nasce dallo sfregamento di due pietre: una è la poesia,
l’altra è il lettore; la scintilla è il senso, nato dal dono reciproco del dare
e del ricevere la creazione. Un senso non separato dalla poesia né da chi
leggendola la sente, per giocare con il doppio senso della parola. Il senso
della vita è semplicemente sentirla nella sua profondità, nella sorgente da cui
scaturisce. Niente di meno ci ha insegnato Dio quando si è rivelato a sé stesso
come il creatore di ciò che da sempre e per sempre crea, dal cosmo immenso e
infinito fino al più piccolo punto con cui terminiamo questo dialogo, questo
incontro”.
Zingonia Zingone, che ringraziamo, ha reso possibile questo dialogo. in
copertina: Hugo Mujica ritratto da Francisco Vocos
Il testo è pubblicato integralmente nell’ultimo numero de “La Biennale di
Venezia”, 3/25 (“Materia prima/Raw Material”). La storica rivista è “tornata a
nuova vita dopo cinquantatré anni di silenzio editoriale”.
L'articolo “Niente si brucia invano”. Dialogo con Hugo Mujica proviene da
Pangea.
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Dunque, è dal termine che bisogna partire: dalla gemma partorita con dolore,
dalla goccia che prima di cadere e di mutarsi in folgore, trema, si aggrappa,
icona di spina, sventata vampa, al ramo. Così scrive lei, Karin Boye, in una
delle poesie più note: ciò che sboccia succede al dolore, ciò che nasce ferisce,
il nuovo accade per ventura di inverno in grammatura d’oro. Sembra di auscultare
la Decima elegia di Rilke, quella della “felicità ascendente”, della commozione
che lascia sgomenti (bestürzt) “quando cade una cosa felice”. In Karin è
epidermica la violenza, la screziata grazia della cosa che si spezza – la fiamma
prima della felicità, la forza che discende.
Fu pure lei, Karin, goccia che cade, il frutto che, risolto a maturità – cioè:
in parentela con il sole, un sole che si può dire Bicorne e Bucefalo –, si apre,
nella polpa da leccare, nella pappa leccornia, nel seme da piantare. Purissima
gemma, Karin scelse Alingsås, una cittadina di laghi; scelse i sonniferi –
cadde. Aveva 41 anni; l’anno, il 1941, è lo stesso – stimmate di santa, mesi in
costato, segni di cui fare sudario – in cui muoiono, volontariamente, anche
Virginia Woolf e Marina Cvetaeva. Karin optò per aprile, the cruellest month, il
mese che “genera/ lillà da terra morta, confondendo/ memoria e desiderio”. Aveva
tradotto La terra desolata di Eliot dieci anni prima – anni di esperienze
spaesanti, quelle. Il matrimonio con Leif Björk, nel ’29, l’attività totale nel
movimento socialista “Clarté”, il viaggio – per certi versi agghiacciante – in
Unione Sovietica e quello in Jugoslavia.
Nata a Göteborg nell’ottobre del 1900, in famiglia di alti studi – padre
ingegnere, madre impegnata nel ‘sociale’ e nello spirituale –, fu segnata da
feroce precocità: a nove anni scriveva i primi testi; a diciotto compose per il
compleanno del padre un libro di poesie e di leggiadre leggende, illustrandolo;
nel 1922 pubblica Moln(“Nuvole”), una raccolta di versi che sanno di fiaba e di
petroglifo, un esordio in stile Lascaux – aveva già inciso, a suo modo, la nuova
via della lirica svedese. Non difforme dalla poetica di Nelly Sachs, dalla voce
di Karin Boye (tradotta in Italia da Daniela Marcheschi; le Poesie di Karin sono
in catalogo Le Lettere dal 2018) proviene – ad esempio – la poesia di empia
bellezza, la poesia d’empito di Birgitta Trotzig. Fu amica Harry Martinson, che
la trasfigurò in Isagel, ‘carattere’ indimenticabile del poema
epico-cosmico Aniara.
Leggeva Kipling e Tagore, si interessò al buddismo, studiò il sanscrito, preferì
il cristianesimo – maneggiava l’Edda e i miti norreni. A dire di una poetica che
assembla la profezia, a dire dello scoperchiare gli altri cosmi, del tenere sul
palmo la foglia e la galassia, l’erba e la materia oscura, dell’adesione all’Ade
dei poeti ctoni, che confabulano con gli spettri, capaci di estrarre fibule di
luce, sfreccianti agnizioni. Certo, è da aggiungere: le depressioni ricorrenti,
l’omosessualità celata, il matrimonio fallito, i viaggi in Germania, a Berlino,
per frequenti, infeconde sedute psicoanalitiche. Lentamente, Karin Boye si slegò
da tutto – da tutti si sentiva annodata. Poetessa tra le più ardite, aderente al
linguaggio sabbatico, al linguaggio come sabba, cioè a stanare le forze, Karin
deve il successo, per paradosso, a un romanzo, Kallocaina, uscito nel 1940, in
cui, dietro al delirio statalista e alla fatidica “droga della verità” sono
adombrati i regimi sovietico e nazista. In Italia, il romanzo distopico è
tradotto da Iperborea: “Scritto nel 1940, quando era difficile nutrire grandi
speranze nell’avvenire, Kallocaina ha in comune con Noi di Zamjatin, Il mondo
nuovo di Huxley, 1984 di Orwell l’allucinata visione di una società
spersonalizzata, dominata da uno Stato poliziesco che arriva a invadere anche la
sfera privata dei cittadini sopprimendo ogni libertà”.
Tuttavia, per così dire, Karin aveva “uno Stato poliziesco” dentro di sé. Le
fotografie di famiglia sembrano tratte da un film di Ingmar Bergman: sorrisi
senza fiordi, orche sotto le bianche vesti e le belle trecce. Fece un viaggio in
Grecia che la empì di una luce cerbiatto, di una luce Cerbero. Tutto diventò
troppo – troppo tardi, soprattutto. La ragazza non riuscì a spezzarsi, si volse
alla morte nel sonno.
Ma va detto del seme, ora. De sju dödssynderna (“I sette peccati capitali”), la
raccolta postuma, alterna le visioni di Emanuel Swedenborg alle tenerezze di un
cronachista di mondi perduti, desunti da un acquazzone. Letale il poemetto
accusatorio che dà titolo al libro:
> “Di generazione in generazione non siamo stati altro che la nostra segreta
> follia
> il nostro mai-nato.
> Oh Dio, quanto sei prossimo a ciò che non esiste.
> Occupati di noi. Non possiamo più durare.
> Distruggi il male che non ha cura di distruggersi.
> Distruggi il sogno della nostra follia incapace di farsi reale.
> Distruggici”.
Qualcuno disse di fenomenali epifanie, di apatie d’acqua, qualcuno credeva
bastassero i fiori a imbonirla, imbottita di buoni odori. Ma lei, Karin, sapeva
che l’angelo è oscuro, che l’angelo è maculato, che l’angelo può chinarsi nella
foga della iena. Chissà – Rilke si sarebbe innamorato di lei.
**
Gli dèi
I carri degli dèi
non scuotono le nubi
scivolano silenti
come raggi.
I passi degli dèi
sono difficili da udire
come un mormorio
nell’erba.
Con cautela
segui le loro tracce:
profumano di una
vicinanza tremenda.
Voleranno, lasciandoti
pieno di parole
in un mondo vuoto.
*
Non nominare
Molte cose fanno male e non hanno nome.
Taci e accettale.
Il molto è segreto, oscuro il pericolo.
Sopporta e porta rispetto.
Meglio confinarsi nel segreto
e non solleticare i semi che crescono.
“Dove il pensiero non si avventura
Madre di Tutto, guidami, esortami!”
È bene ascoltare la voce della Madre –
non ha parole la cura, non ha nomi il cuore.
*
Il conforto delle stelle
Ho parlato con una stella, la scorsa notte
luce lontana, in inabitati spazi –
“Cosa illumini, strana stella?
Ti muovi così grande e luminosa”.
La mia pietà l’ha ammutolita
poi, con il suo stellato sguardo:
“L’eterna notte illumino
illumino lo spazio senza vita.
La mia luce è fiore che appassisce
nello spinato autunno del cielo.
Questa luce è tutto ciò
che ho, è il mio solo conforto”.
*
Alcuni cuori sono
inesauribili tesori.
I loro proprietari gettano
con generosità, ovunque, i rivoli di quel sole.
Con mani tenaci accogliamo
il dono, grati. Felicità
e salute a te, benedetto,
che maneggi l’oro come fosse sabbia!
Alcuni cuori sono
inabissati fuochi.
Nella più fredda notte
un riflesso sulla neve.
In quell’incanto, nessuno
sopporta il desiderio
tranne chi scorge una luce
nella notte e ne vuole la fiamma.
*
Certo, è ovvio, fa male quando il germoglio sboccia.
Altrimenti, che senso avrebbe la primavera?
Altrimenti, perché sedare nella gelida brina
quell’ardente desiderio?
Il germoglio è stato crisalide lo scorso
inverno: una novità che ora si spezza, scoppia.
È ovvio, è certo, ferisce il germoglio che sboccia
perché fa male ciò che cresce
e ciò che serba.
Certo, è ovvio, fa male la goccia che cade.
Trema di paura, pende grave
al ramo si avvinghia e si gonfia, scivola –
il peso la assilla, più forte si aggrappa.
Fa male essere smarriti, fa male la paura
e la separazione; fa male sentire che il profondo
ti attira e chiama – eppure
siedi e trema
è duro resistere
e resistere al desiderio di cadere.
Poi, all’acme dell’agonia, quando ogni aiuto è inutile
le gemme dell’albero sbocciano in gloria
poi, quando la paura svanisce
le gocce cadono e diventano luce
si dimenticano che il nuovo le atterriva
si dimenticano che la caduta è un rischio
per un attimo abitano la certezza
riposano nella fede
che ha creato il mondo.
*
È così grande questa quiete, la quiete
di un’assolata foresta in inverno.
Come ha fatto la mia volontà a diventare
così perfetta, così obbediente la mia vita?
Portavo in mano una ciotola di vetro – risuonava.
Il mio piede è diventato cauto – non inciampa più.
La mia mano è precisa – non trema più.
Sono stata travolta dalla violenza delle cose fragili.
*
Preghiera al sole
Non hai pietà perché i tuoi occhi non
conoscono il buio.
Salvami.
Come linee, gli steli dei fiori sono
risucchiati dalle altezze:
tremano, prossimi a te, i loro calici.
Gli alberi si scagliano come pilastri verso la gloria:
stendono le braccia piumate di foglie
assetate di luce, devote.
Hai tratto l’uomo
da una pietra, con ciechi sguardi
l’hai trafitto alla pianta sagomata dai venti.
Tuo è il gambo, tuo lo stelo. Tua la spina dorsale.
Salvami.
Non la vita. Non la pelle.
Un dio non ha potere sulle cose estreme.
Con occhi estinti e arti spezzati
è tuo colui che visse eretto
con colui che eretto muore
tu sei, oscurità che inghiotte oscurità.
Il ruggito si impenna. La notte è nel parto.
La vita brilla, preziosa.
Salva, salva, dio che vede,
ciò che hai donato.
*
Il vagabondo dei deserti
Voi pesate su bilance sbilenche
con pesi penosi misurate
non davanti al qadi che smista
le colpe dei criminali
ma davanti ad Allah, benedetto
il suo nome, il creatore della vita.
Per una piccola perla date mille datteri
ma io che ho sofferto la fame nel deserto
so quanto è inutile una cintura di perle
che non dà nutrimento,
ma io, corroso dalla sabbia,
so quanto è inutile l’elsa di un pugnale
istoriata di gemme
che non sa dissetarmi.
In questa città di minareti, distante dal deserto,
non mi inchinerò davanti ai severi mausolei
e alle porte dorate
ma presso gli umili pozzi, nascosti
dal viavai, dove il pastore porta la mandria
a sera, e semina il latte agli allettati.
*
E io voglio ringraziare, ora, per l’ora della grande umiliazione
per l’ora in cui ci si rivela nudi
senza trama d’orgoglio
e ci si abbandona
come un grano di polvere nel magnanimo bagliore dei mondi –
e scopri che tutto è meraviglia, che la vita è meraviglia
una meraviglia questo mero rifugio e il pane e l’acqua
e più di ogni altra cosa è meravigliosa l’immeritata grazia
la fiducia eternamente riposta in un essere umano.
*
La forma che io sono
La forma che io sono
ma la materia è primordiale fiamma.
Fuoco negli occhi
fiamme le mani.
Nell’ebbrezza creatrice
si annodano lingue di fuoco
fameliche attorno al profilo
del tuo essere.
Diventa mera forma
forma ben temprata
eterea
che galleggia su infuocati mari
miracolo e miraggio
increata e in crescita
– perché questo è un dio –
che ribolle sopra il caos.
Di tutte le cose
il dio è il più transitorio
di tutte le cose
l’adorazione permane.
Ribolli, ribolli
illusione, elisione
tra le fiamme
trovi l’eterno.
*
Bevo il sacrificio
Sul vino grezzo si gettano musi pesanti.
Non è il vino a deformarli tanto.
Il vino libera i pensieri
ma incardina la lingua al palato.
Come segreto bagliore, la pira sacrificale
è grezzo vino rosso.
Soltanto io so per quali
poteri si snoda il fumo.
Soltanto io so quali
mondi mondano la mia ebbrezza.
Ciascuno è fisso altrove
altrove qualcuno respira.
Ciascuno alza i calici verso
cose invisibili agli altri, verso
oscure terre dove gioia e dolore
non hanno alcun senso.
Così, in segreto, alzo il vino
mia fiamma sacrificale
presso un dolore che è soltanto mio
e che paragono all’eterna burrasca in mare.
*
Quegli oscuri angeli maculati di blu
con fiori di fuoco tra i neri capelli
conoscono le risposte a strane domande blasfeme –
forse sanno dove porta il ponte
dalle cave della notte alla luce del giorno –
forse sanno dove si rifugia l’uno
forse nella casa del Padre esiste
un luminoso rifugio che porta il loro nome.
Karin Boye
L'articolo “Non siamo altro che la nostra segreta follia”. Karin Boye, la
poetessa angelica proviene da Pangea.