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“Niente si brucia invano”. Dialogo con Hugo Mujica
Ti atterrisce. È così, credo, sempre: la poesia ti mette con le spalle al muro. Ti obbliga ad abolire gli abbagli – a riconoscerti misero.  Sarà stato dieci anni fa. Magro come un chiodo, calvo, classe 1942 – è rimasto in silenzio per tutta la cena. Una cena che pareva una cattedrale. Ci siamo incontrati a Morciano, nelle colline romagnole, a casa dell’editore Raffaelli, che ha pubblicato certi suoi libri: E sempre dopo il vento (2013), Quando tutto tace (2016). Da Morciano provengono i genitori di Umberto Boccioni – incidentalmente nato a Reggio Calabria –; un millennio fa da quelle parti ha piantato tenda San Pier Damiani: gli aironi, garruli messaggeri dei morti, furoreggiano lungo il fiume Conca. Hugo Mujica preferì ritirarsi in meditazione. Meditava per ore, contro una parete: in quel muro, vedeva il cielo, l’oceano, l’osanna delle stelle.  Non so quante vite abbia vissuto Mujica. Nato ad Avellaneda, a tredici anni lavora in una fabbrica di vetro; la sera studia belle arti. Il padre, anarchico d’indole, è reso cieco in seguito a un incidente. Diciannovenne, con 37 dollari nello zaino, Mujica molla l’Argentina per tentare il sogno americano: si piazza al Greenwich; discepolo di Timothy Leary, prova LSD, dipinge, si aliena dal mondo. > “È stato Allen Ginsberg ad aprirmi le porte dello ‘spirituale’: mi ha > presentato Swami Satchidananda, che ho frequentato e che, paradossalmente, mi > ha condotto al cristianesimo”.  L’ultimo momento ‘mondano’ di Mujica è il Festival di Woodstock. Il suo maestro, Satchidananda, intona una preghiera: seguono Ravi Shankar e Joan Baez, Santana, Janis Joplin, Jimi Hendrix e via così.  Per sette anni, Mujica s’inabissa in un monastero trappista – persegue il silenzio. All’Athos, apprende la disciplina dell’esicasmo. Al contrario di quella di Thomas Merton, la poesia di Mujica – che in Italia si può leggere nell’ampia antologia edita da InternoPoesia, E tutto nomina – procede per folgorazioni, per trasalimenti e assalti: “Niente si brucia invano:/ tutto ciò che brucia muore/ illuminando”; “spogliati da ciò che siamo/ non c’è nulla che non/ siamo”; “Vedere non è aprire gli occhi,/ è mettere da parte il bastone bianco:// avere l’audacia di camminare/ sul sapersi perduto”. Ordinato sacerdote a Buenos Aires, per un po’ si occupa di una parrocchia – poi opta per lo studio e la scrittura. Nasce alla poesia nel 1983, con Brace bianca; ha scritto saggi su Georg Trakl e Paul Celan, su Giovanni della Croce e Francis Bacon, sulla Mitología del poeta en la obra de Heidegger.  Mujica vuole giungere alla primogenitura del linguaggio: al punto in cui la poesia è Adamo e il serpente, il coltello e l’angelo. Come se potessimo raccogliere il siero delle costellazioni. Chiedo alla sua traduttrice, Zingonia Zingone, di aiutarmi a raggiungerlo. Mujica non è un uomo facile – atterrisce. Mi dice di aver letto per l’ennesima volta La morte di Virgilio di Hermann Broch; ama il finale di Moby Dick. Non cita poeti perché per lui la poesia è vita; non cerca la fama,  > “la fama è volgare, non ce l’ho e non la cerco – mi importa, certo, sentirmi > rispettato e ovviamente apprezzato, che è altro dall’essere applaudito”. È difficile trovare un artista così libero – libero, soprattutto, dalle proprie convinzioni. La libertà atterrisce. I versi di Mujica, all’apparenza tanto nitidi, impegnano a un lento sovvertimento di sé.  Res extensa. “Credo, desidero e spero che supereremo sempre più quella visione schizofrenica della vita: la contrapposizione tra res extensa e res cogitans, tra soggetto e oggetto, tra sentimento e ragionamento, tra materia e spirito… Non esiste la soggettività da una parte e il mondo dall’altra: io vivo il mondo, sono vita che non può essere separata dal mondo, dal corpo, dal sentire: sono incarnazione. Nel cul de sac di Cartesio non troviamo una soggettività incontaminata, pura, ma piuttosto una solitudine pura e finale. “Chiudo gli occhi, mi copro le orecchie…”, così insegna, e quella testa senza corpo, quell’IA, diremmo oggi, quel fantasma lo chiama “ego sum”, l’io che è. E l’altro, quello che da lui deriva, res extensa, l’esilio in terra, è l’estensione di un mondo non abbracciato, un mondo senza un’anima, è un semplice costrutto della ragione, un semplice schema esangue della nostra comprensione. Mi viene in mente una frase di Nietzsche, che stabilisco da subito come epigrafe interpretativa di ciò che diremo nel seguito di questo dialogo: ‘Di tutto quanto uno scrive, amo solo ciò che si scrive col sangue. Scrivi col tuo sangue e imparerai che il sangue è puro spirito’”. Realtà. “La realtà non è, la realtà diviene, non è qualcosa di finito che possiamo oggettivare, cioè ridurre e fissare per dominare, ma è tempo, il tempo in cui possiamo, reciprocamente trasformarci, ricrearci… ‘All’interno di ognuno non c’è morte che non uccida, non c’è nascita estranea né amore disabitato’, scriveva Olga Orozco”. Corpo, corpus. “Tempo fa uno studioso mi fece notare che nei risvolti dei miei libri, dove solitamente compaiono la biografia dell’autore, i titoli, gli studi, i premi, ecc., si trovano più spesso le tappe fondamentali della mia vita, le mie modalità di ricerca, gli approdi e i distacchi. Insomma, più la bio che la grafia, più i battiti del cuore che i dati. Non me ne ero accorto, ma è così: la mia scrittura nasce dalla terra su cui ho camminato.  Senza esagerare né romanticizzare, mi leggo mentre scrivo, ascolto il mio corpo che mi precede sempre, precede la conoscenza riflessiva, grammaticale: io lo traduco, gli dò voce e così traduco me stesso, mi racconto la mia stessa vita… la vivo, vivendola. Il poeta è tale nell’ascolto di ciò che la vita gli rivela”. In viaggio verso Dio. “Ciascuno ha il proprio cammino, ma per giungere a Dio non ci sono né scale, né sentieri, né approdi. C’è Dio: ognuno deve tracciare la propria strada, quella che Dio percorre verso di noi”. Trasformare il mondo. “Trasformare il mondo è una formula arrogante: sfiorare, emozionare, accarezzare, accompagnare qualcuno o alcuni… non è tutto il mondo, ma è già qualcosa di enorme, sono già delle vite…”. Sul silenzio. “Ho vissuto molti anni in silenzio imparando che il silenzio è una metafora del nulla. Ciò che è, ciò che dev’essere, è ascolto, accoglienza senza palpebre, senza separazione da ciò che ci raggiunge e penetra: vulnerabilità pura. Mentre si dilata all’aperto, senza nulla su cui rimbalzare, pura espansione e allo stesso tempo immensità riposante: ecco quell’esperienza che chiamiamo silenzio. Dopo, quando qualcosa interrompe l’ascolto, diamo un nome a quell’interruzione, il riflusso dell’inseparabile unità: flusso e riflusso del dire e del tacere, di ascoltare e nominare. Naturalmente, quanto più si dilata l’ascolto, quanto più si estende in profondità o in altezza, tanto più elevata o profonda, distante o intima, sarà l’intensità con cui si nomina ciò che è apparso, ciò che l’ascolto ha trovato, o ad esso è stato offerto o rivelato. Ascolto è come chiamo il silenzio incarnato, e quella è la parola, l’atteggiamento, la chiave della mia scrittura e della mia vita”. Sul deserto. “Benché in decenni di scrittura abbia cambiato significati ed esperienze, il deserto è senza dubbio solitudine. Prima come privazione, poi come fecondità, poi ancora come luogo privilegiato – come accade nella tradizione ascetica –, ‘luogo dell’ascolto’, di nudità assoluta, sabbia in terra e cielo aperto: il miracolo di vivere nella carne viva, il miracolo delle stelle battenti o del sole cocente. Più quotidianamente: solitudine attenta, attenzione aperta e in agguato. Senza il deserto non sapremmo tutto ciò che ci ha insegnato la sete, né le sorgenti verso cui ci ha condotto”. Mi contraddico: da Timothy Leary a Heidegger, tra Ginsberg e Trakl. “Quelli che citi sono figure contraddittorie, è vero: come me, come lo è la vita. Sì, mi contraddico e ‘con grande onore’ come si dice nel mio paese. ‘Mi contraddico?/ Certo che mi contraddico!/ Sono vasto, contengo moltitudini’, scriveva quel grande vitalista di Walt Whitman. Sono un coro di voci, pulsioni, sensazioni, comandi. Siamo tanti in ognuno: tutti quegli autori sono già il mio sangue e il mio oblio, e ognuno mi ha permesso di essere qualcuno di diverso da quello che ero; tra di loro divengo in me e negli altri. Non contraddizione, dunque, ma ricchezza: è un conflitto che crea vita creando da sé più vita ancora. Io stesso – e quel ciascuno che sono e quel ciascuno che è in me – non sono ciò che sono: sono il mio nascere continuo, sono la mia libertà creatrice, con cui e in cui tutto sta nascendo”. Sulla ricerca spirituale. “La mia ‘ricerca spirituale’ è la mia vita, non un compartimento separato; e non è nemmeno spirituale: è. Non vivo per separazioni o opposizioni; vivo – almeno, ci provo – per integrazioni. A volte è un fiore, molte volte è un dolore altrui che ti ferisce, una poesia o una cantata dell’immenso Bach, un bimbo o… tutto alimenta la mia ricerca e il mio riposo. Sono la ricerca che sono: il corpo che respira aria, l’anima che aspira alla luce, e di nuovo – insisto –, senza alcuna separazione: la musica, non gli strumenti. E, sempre, l’essere uno e plurale, diverso ma reciproco di tutto”.  Sapere di non sapere. “Ricordo quanto ha scritto Pessoa: ‘Il mio misticismo è non voler sapere. È vivere senza pensare che vivo’. Lo immagino come una partenza senza ritorno, uno stare nella vita, non di fronte alla vita. Non è un’idea, è qualcosa che ho visto – non molte volte, è vero, ma l’ho visto – negli sguardi che brillano nelle notti stellate, a pupille dilatati, quasi a immagine dei ciechi che non sanno della propria ombra e non conoscono il proprio riflesso. Parlo di occhi che guardano senza cercare sé stessi, di un sapere senza sapersi; parlo di vivere senza quel “sé” che ci restituisce a noi stessi come cacciatori già saturi di caccia, o selfie che abbiamo già scattato; parlo di un’esistenza senza che tutto mi riporti verso me stesso, alle medesime cose di me. Intendo: guardare il sole senza sapere che lo sto guardando – essere il sole. In definitiva, sto definendo ciò che considero santità: dimenticare sé stessi, abbandonarsi. Mi devo citare: ‘cerco un’alba vergine di me/ cerco la nascita della luce/ non il suo illuminarmi’”. Per una poetica del fulmine. “Tradizionalmente, poetica è la riflessione che lo scrittore fa sulla scrittura. Nella poesia Poetica, scrivo: ‘Un fulmine,/ nella notte che dilata,/ illumina il suo stesso spegnersi’. Cerco di far percepire la scintilla creatrice, quella che accende, o meno, ciò che può essere un’opera; il Kairós, l’istante propizio, l’ispirazione. Cogliere quel fulmine, avere lo sguardo rivolto verso l’alto in quell’istante, è la sensibilità di un creatore, la vulnerabilità con cui si espone allo stupore di essere vivo, con cui si lascia ferire. Molti di noi sentono i tuoni, ma è già tardi, è già l’eco della luce, l’ombra delle parole, non il loro splendore”. Il senso della poesia. “Il senso nasce sempre da un incontro: non è lì, pronto da prendere e sfruttare, non lo creo dal nulla per porlo in bella posizione. È come la scintilla che nasce dallo sfregamento di due pietre: una è la poesia, l’altra è il lettore; la scintilla è il senso, nato dal dono reciproco del dare e del ricevere la creazione. Un senso non separato dalla poesia né da chi leggendola la sente, per giocare con il doppio senso della parola. Il senso della vita è semplicemente sentirla nella sua profondità, nella sorgente da cui scaturisce. Niente di meno ci ha insegnato Dio quando si è rivelato a sé stesso come il creatore di ciò che da sempre e per sempre crea, dal cosmo immenso e infinito fino al più piccolo punto con cui terminiamo questo dialogo, questo incontro”. Zingonia Zingone, che ringraziamo, ha reso possibile questo dialogo. in copertina: Hugo Mujica ritratto da Francisco Vocos Il testo è pubblicato integralmente nell’ultimo numero de “La Biennale di Venezia”, 3/25 (“Materia prima/Raw Material”). La storica rivista è “tornata a nuova vita dopo cinquantatré anni di silenzio editoriale”. L'articolo “Niente si brucia invano”. Dialogo con Hugo Mujica proviene da Pangea.
September 27, 2025 / Pangea
“Non siamo altro che la nostra segreta follia”. Karin Boye, la poetessa angelica
Dunque, è dal termine che bisogna partire: dalla gemma partorita con dolore, dalla goccia che prima di cadere e di mutarsi in folgore, trema, si aggrappa, icona di spina, sventata vampa, al ramo. Così scrive lei, Karin Boye, in una delle poesie più note: ciò che sboccia succede al dolore, ciò che nasce ferisce, il nuovo accade per ventura di inverno in grammatura d’oro. Sembra di auscultare la Decima elegia di Rilke, quella della “felicità ascendente”, della commozione che lascia sgomenti (bestürzt) “quando cade una cosa felice”. In Karin è epidermica la violenza, la screziata grazia della cosa che si spezza – la fiamma prima della felicità, la forza che discende.  Fu pure lei, Karin, goccia che cade, il frutto che, risolto a maturità – cioè: in parentela con il sole, un sole che si può dire Bicorne e Bucefalo –, si apre, nella polpa da leccare, nella pappa leccornia, nel seme da piantare. Purissima gemma, Karin scelse Alingsås, una cittadina di laghi; scelse i sonniferi – cadde. Aveva 41 anni; l’anno, il 1941, è lo stesso – stimmate di santa, mesi in costato, segni di cui fare sudario – in cui muoiono, volontariamente, anche Virginia Woolf e Marina Cvetaeva. Karin optò per aprile, the cruellest month, il mese che “genera/ lillà da terra morta, confondendo/ memoria e desiderio”. Aveva tradotto La terra desolata di Eliot dieci anni prima – anni di esperienze spaesanti, quelle. Il matrimonio con Leif Björk, nel ’29, l’attività totale nel movimento socialista “Clarté”, il viaggio – per certi versi agghiacciante – in Unione Sovietica e quello in Jugoslavia. Nata a Göteborg nell’ottobre del 1900, in famiglia di alti studi – padre ingegnere, madre impegnata nel ‘sociale’ e nello spirituale –, fu segnata da feroce precocità: a nove anni scriveva i primi testi; a diciotto compose per il compleanno del padre un libro di poesie e di leggiadre leggende, illustrandolo; nel 1922 pubblica Moln(“Nuvole”), una raccolta di versi che sanno di fiaba e di petroglifo, un esordio in stile Lascaux – aveva già inciso, a suo modo, la nuova via della lirica svedese. Non difforme dalla poetica di Nelly Sachs, dalla voce di Karin Boye (tradotta in Italia da Daniela Marcheschi; le Poesie di Karin sono in catalogo Le Lettere dal 2018) proviene – ad esempio – la poesia di empia bellezza, la poesia d’empito di Birgitta Trotzig. Fu amica Harry Martinson, che la trasfigurò in Isagel, ‘carattere’ indimenticabile del poema epico-cosmico Aniara.  Leggeva Kipling e Tagore, si interessò al buddismo, studiò il sanscrito, preferì il cristianesimo – maneggiava l’Edda e i miti norreni. A dire di una poetica che assembla la profezia, a dire dello scoperchiare gli altri cosmi, del tenere sul palmo la foglia e la galassia, l’erba e la materia oscura, dell’adesione all’Ade dei poeti ctoni, che confabulano con gli spettri, capaci di estrarre fibule di luce, sfreccianti agnizioni. Certo, è da aggiungere: le depressioni ricorrenti, l’omosessualità celata, il matrimonio fallito, i viaggi in Germania, a Berlino, per frequenti, infeconde sedute psicoanalitiche. Lentamente, Karin Boye si slegò da tutto – da tutti si sentiva annodata. Poetessa tra le più ardite, aderente al linguaggio sabbatico, al linguaggio come sabba, cioè a stanare le forze, Karin deve il successo, per paradosso, a un romanzo, Kallocaina, uscito nel 1940, in cui, dietro al delirio statalista e alla fatidica “droga della verità” sono adombrati i regimi sovietico e nazista. In Italia, il romanzo distopico è tradotto da Iperborea: “Scritto nel 1940, quando era difficile nutrire grandi speranze nell’avvenire, Kallocaina ha in comune con Noi di Zamjatin, Il mondo nuovo di Huxley, 1984 di Orwell l’allucinata visione di una società spersonalizzata, dominata da uno Stato poliziesco che arriva a invadere anche la sfera privata dei cittadini sopprimendo ogni libertà”. Tuttavia, per così dire, Karin aveva “uno Stato poliziesco” dentro di sé. Le fotografie di famiglia sembrano tratte da un film di Ingmar Bergman: sorrisi senza fiordi, orche sotto le bianche vesti e le belle trecce. Fece un viaggio in Grecia che la empì di una luce cerbiatto, di una luce Cerbero. Tutto diventò troppo – troppo tardi, soprattutto. La ragazza non riuscì a spezzarsi, si volse alla morte nel sonno.  Ma va detto del seme, ora. De sju dödssynderna (“I sette peccati capitali”), la raccolta postuma, alterna le visioni di Emanuel Swedenborg alle tenerezze di un cronachista di mondi perduti, desunti da un acquazzone. Letale il poemetto accusatorio che dà titolo al libro:  > “Di generazione in generazione non siamo stati altro che la nostra segreta > follia > il nostro mai-nato. > Oh Dio, quanto sei prossimo a ciò che non esiste. > Occupati di noi. Non possiamo più durare. > Distruggi il male che non ha cura di distruggersi.  > Distruggi il sogno della nostra follia incapace di farsi reale. > Distruggici”.  Qualcuno disse di fenomenali epifanie, di apatie d’acqua, qualcuno credeva bastassero i fiori a imbonirla, imbottita di buoni odori. Ma lei, Karin, sapeva che l’angelo è oscuro, che l’angelo è maculato, che l’angelo può chinarsi nella foga della iena. Chissà – Rilke si sarebbe innamorato di lei. ** Gli dèi I carri degli dèi non scuotono le nubi scivolano silenti come raggi. I passi degli dèi sono difficili da udire come un mormorio nell’erba.  Con cautela segui le loro tracce: profumano di una vicinanza tremenda.  Voleranno, lasciandoti pieno di parole in un mondo vuoto.  * Non nominare Molte cose fanno male e non hanno nome. Taci e accettale. Il molto è segreto, oscuro il pericolo. Sopporta e porta rispetto. Meglio confinarsi nel segreto e non solleticare i semi che crescono. “Dove il pensiero non si avventura Madre di Tutto, guidami, esortami!” È bene ascoltare la voce della Madre –  non ha parole la cura, non ha nomi il cuore.  * Il conforto delle stelle Ho parlato con una stella, la scorsa notte  luce lontana, in inabitati spazi –  “Cosa illumini, strana stella? Ti muovi così grande e luminosa”. La mia pietà l’ha ammutolita poi, con il suo stellato sguardo: “L’eterna notte illumino illumino lo spazio senza vita. La mia luce è fiore che appassisce nello spinato autunno del cielo. Questa luce è tutto ciò  che ho, è il mio solo conforto”.  * Alcuni cuori sono inesauribili tesori. I loro proprietari gettano con generosità, ovunque, i rivoli di quel sole. Con mani tenaci accogliamo il dono, grati. Felicità e salute a te, benedetto, che maneggi l’oro come fosse sabbia! Alcuni cuori sono inabissati fuochi.  Nella più fredda notte un riflesso sulla neve. In quell’incanto, nessuno sopporta il desiderio tranne chi scorge una luce  nella notte e ne vuole la fiamma.  * Certo, è ovvio, fa male quando il germoglio sboccia. Altrimenti, che senso avrebbe la primavera? Altrimenti, perché sedare nella gelida brina quell’ardente desiderio? Il germoglio è stato crisalide lo scorso inverno: una novità che ora si spezza, scoppia.  È ovvio, è certo, ferisce il germoglio che sboccia perché fa male ciò che cresce                   e ciò che serba.  Certo, è ovvio, fa male la goccia che cade. Trema di paura, pende grave al ramo si avvinghia e si gonfia, scivola –  il peso la assilla, più forte si aggrappa. Fa male essere smarriti, fa male la paura e la separazione; fa male sentire che il profondo ti attira e chiama – eppure  siedi e trema è duro resistere          e resistere al desiderio di cadere.  Poi, all’acme dell’agonia, quando ogni aiuto è inutile le gemme dell’albero sbocciano in gloria poi, quando la paura svanisce le gocce cadono e diventano luce si dimenticano che il nuovo le atterriva si dimenticano che la caduta è un rischio per un attimo abitano la certezza riposano nella fede                  che ha creato il mondo.  * È così grande questa quiete, la quiete di un’assolata foresta in inverno. Come ha fatto la mia volontà a diventare così perfetta, così obbediente la mia vita? Portavo in mano una ciotola di vetro – risuonava.  Il mio piede è diventato cauto – non inciampa più.  La mia mano è precisa – non trema più.  Sono stata travolta dalla violenza delle cose fragili. * Preghiera al sole Non hai pietà perché i tuoi occhi non  conoscono il buio.                                   Salvami. Come linee, gli steli dei fiori sono  risucchiati dalle altezze: tremano, prossimi a te, i loro calici. Gli alberi si scagliano come pilastri verso la gloria: stendono le braccia piumate di foglie assetate di luce, devote.  Hai tratto l’uomo da una pietra, con ciechi sguardi l’hai trafitto alla pianta sagomata dai venti. Tuo è il gambo, tuo lo stelo. Tua la spina dorsale.  Salvami.  Non la vita. Non la pelle. Un dio non ha potere sulle cose estreme.  Con occhi estinti e arti spezzati è tuo colui che visse eretto con colui che eretto muore tu sei, oscurità che inghiotte oscurità. Il ruggito si impenna. La notte è nel parto. La vita brilla, preziosa. Salva, salva, dio che vede, ciò che hai donato.  * Il vagabondo dei deserti Voi pesate su bilance sbilenche con pesi penosi misurate non davanti al qadi che smista le colpe dei criminali  ma davanti ad Allah, benedetto il suo nome, il creatore della vita.  Per una piccola perla date mille datteri ma io che ho sofferto la fame nel deserto so quanto è inutile una cintura di perle che non dà nutrimento, ma io, corroso dalla sabbia,  so quanto è inutile l’elsa di un pugnale istoriata di gemme che non sa dissetarmi.  In questa città di minareti, distante dal deserto, non mi inchinerò davanti ai severi mausolei e alle porte dorate ma presso gli umili pozzi, nascosti dal viavai, dove il pastore porta la mandria a sera, e semina il latte agli allettati.  * E io voglio ringraziare, ora, per l’ora della grande umiliazione per l’ora in cui ci si rivela nudi senza trama d’orgoglio e ci si abbandona come un grano di polvere nel magnanimo bagliore dei mondi –  e scopri che tutto è meraviglia, che la vita è meraviglia una meraviglia questo mero rifugio e il pane e l’acqua e più di ogni altra cosa è meravigliosa l’immeritata grazia la fiducia eternamente riposta in un essere umano.  * La forma che io sono La forma che io sono ma la materia è primordiale fiamma. Fuoco negli occhi fiamme le mani. Nell’ebbrezza creatrice si annodano lingue di fuoco fameliche attorno al profilo del tuo essere.  Diventa mera forma forma ben temprata eterea che galleggia su infuocati mari miracolo e miraggio  increata e in crescita – perché questo è un dio –  che ribolle sopra il caos. Di tutte le cose il dio è il più transitorio di tutte le cose l’adorazione permane. Ribolli, ribolli illusione, elisione tra le fiamme  trovi l’eterno. * Bevo il sacrificio Sul vino grezzo si gettano musi pesanti. Non è il vino a deformarli tanto. Il vino libera i pensieri ma incardina la lingua al palato.  Come segreto bagliore, la pira sacrificale è grezzo vino rosso. Soltanto io so per quali poteri si snoda il fumo. Soltanto io so quali   mondi mondano la mia ebbrezza. Ciascuno è fisso altrove altrove qualcuno respira. Ciascuno alza i calici verso cose invisibili agli altri, verso oscure terre dove gioia e dolore non hanno alcun senso.  Così, in segreto, alzo il vino mia fiamma sacrificale presso un dolore che è soltanto mio e che paragono all’eterna burrasca in mare.  * Quegli oscuri angeli maculati di blu con fiori di fuoco tra i neri capelli conoscono le risposte a strane domande blasfeme –  forse sanno dove porta il ponte  dalle cave della notte alla luce del giorno –  forse sanno dove si rifugia l’uno forse nella casa del Padre esiste un luminoso rifugio che porta il loro nome.  Karin Boye L'articolo “Non siamo altro che la nostra segreta follia”. Karin Boye, la poetessa angelica proviene da Pangea.
June 17, 2025 / Pangea