Tag - serie

Un romanzo che sfugge a ogni definizione. “Il Gattopardo” cambia per non cambiare: dal libro alla serie Netflix
Sicilia, 1860. Il principe di Salina, esponente dell’antica nobiltà isolana, traghetta la famiglia attraverso i moti risorgimentali, nel tentativo di strappare alla Storia uno scampolo di prestigio. Per farlo, dovrà scendere a compromessi con i nuovi ceti, gli sciacalli che minacciano i “gattopardi”, ormai ingabbiati nei loro palazzi in declino. Dopo oltre 60 anni dalla pubblicazione del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1958), dalla sua consacrazione allo Strega (1959) e dal sontuoso adattamento di Luchino Visconti (1963), Il Gattopardo è approdato a marzo su Netflix, in una trasposizione seriale prodotta da Indiana Productions e Moonage Pictures per la regia di Tom Shankland. Luisa Cotta Ramosino[1], Direttrice delle serie italiane Netflix, ci racconta gli ingranaggi della serie-evento. Il Gattopardo è il romanzo del “gran rifiuto” di Elio Vittorini per Mondadori ed Einaudi, e fu pubblicato da Feltrinelli solo dopo la morte dell’autore (1957). Da sempre divisivo, pesa sull’opera l’accusa di conservatorismo rivolta all’autore, come del resto al suo protagonista, già dai contemporanei. Eppure, fa ancora parlare di sé con una serie-evento: cosa lo rende intramontabile? È un romanzo che già al momento della sua nascita sta riflettendo su sé stesso, perché parla delle epoche di passaggio, è stato scritto in un’epoca di passaggio e non a caso noi lo abbiamo riproposto in un momento di grandi passaggi. I suoi personaggi vivono questo passaggio in maniera drammatica, sia a livello individuale e famigliare, sia a livello sociale. È un incastro di dimensioni che rende il romanzo particolarmente forte, perché insiste sui sentimenti umani in un mondo in cui, un po’ come oggi, tutto è messo alla prova. Un mondo che è raccontato e, sì, in parte è giudicato, ma non giudicato per guardare al “bel tempo che fu”, immobilizzato in un tempo perduto. C’è chi prova curiosità per il mondo che cambia, come Tancredi, e invece chi quel mondo che cambia lo teme, e chi è affezionato al passato. È una contrapposizione che credo non sia per niente banale: non si dice che il nuovo è a tutti i costi buono, anzi; ma nello stesso tempo non si dice neanche che conservare il passato è a tutti i costi sbagliato. C’è quindi una grande capacità di sfidare il lettore, e poi lo spettatore, a guardare il mondo con più complessità. E la complessità, per quanto sia più faticosa da affrontare rispetto a un racconto lineare, è incredibilmente affascinante.  Che è poi ciò che ha “salvato” il romanzo. È un romanzo che sfugge a ogni definizione: è stato salvato dal fatto che ognuno ci vedeva qualcosa di diverso, ed è questa grande complessità a renderlo unico. “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”: le parole di Tancredi, nipote del Principe, sono forse le più conosciute del romanzo. Il mondo cambia, ma assistiamo, a livello nazionale e mondiale, a un fiorire del period drama, e questo nonostante gli alti costi di produzione: cosa è bene che rimanga com’è, e cosa è necessario che cambi, quando si racconta il passato per parlare al presente? Da una parte i sentimenti umani hanno un’universalità, e spesso e volentieri in questi personaggi del passato sono come amplificati. Dall’altra c’è il lavoro di scrittura, questo strano equilibrio per cui quel passato deve essere rievocato, attraverso i costumi, le scenografie, il racconto di alcuni fatti precisi, e allo stesso tempo bisogna cercare di fare capire allo spettatore cosa significassero quei sentimenti per le persone di quel mondo, e cosa di quei sentimenti conserviamo ancora noi oggi. Raccontare il passato non significa dire che questi personaggi erano uguali a noi, perché non lo erano. Eppure, avevano delle cose in comune con noi. Non credo che oggi tante ragazze di fronte al matrimonio del fidanzato con un’altra si chiuderebbero in convento, però di quel sentimento di Concetta possono riconoscere l’assolutezza e il dolore nudo da lei provato in quel momento, e in quello si riconoscono, e lo possono abbracciare. Come il sentimento di un genitore che vede un figlio che fa una scelta che non vorrebbe facesse, oppure che si rende conto di aver preferito un figlio a un altro, come capita a don Fabrizio. Sentimenti presenti nell’oggi, che lì vivono con una loro grandezza che li rende ancora più evidenti: il period ha questa capacità di essere come la realtà, ma con un grado più forte. Viviamo un momento in cui alcune tematiche, fondamentali da trattare e purtroppo tragicamente urgenti, sono onnipresenti nelle narrazioni che ci circondano e rischiano, soprattutto nelle ricostruzioni storiche, di essere o di essere percepite come…  Abusate. O anacronistiche, calate dall’alto rispetto alla storia, e alla Storia. Penso al potenziamento delle figure femminili: come avete trovato un equilibrio nella serie? Ci sono storie che già da qualche parte esistevano, ma che nessuno raccontava, perché non erano considerate importanti. C’è poi una differenza tra una serie storica che vuole essere la rievocazione di un’epoca, e una serie che voglia accogliere in quel passato un qualcosa che risuona ancora nel presente. Ci sono serie che spingono sull’attualizzazione, come Lidia Poët, altre che ci portano in un luogo dove siamo stati mille volte e ci fanno vedere che quel personaggio c’era, ma non avevamo colto quanto importante fosse, come per esempio le donne della serie I Medici, che in realtà anche nei libri di storia figurano come artefici della fortuna della famiglia, ma fino a quel momento erano sempre rimaste nell’ombra delle figure maschili. Dare attenzione a queste storie è giusto; forzare alcune linee narrative è meno interessante e richiede un livello di artificiosità che le rende meno appassionanti. Si trova la misura nel momento in cui una storia appassiona: se succede, lì c’è della verità. Quando l’autore deve metterci molto del suo, è perché probabilmente quella storia non ha una verità da raccontare, e forse si sta prendendo la strada sbagliata. La scelta de Il Gattopardo è un po’ diversa: il personaggio di Concetta era quasi invisibile, il fatto di averlo raccontato e reso presente lavorando sui vuoti è un modo per mettere in primo piano questo personaggio che nel romanzo esiste quasi solo in funzione degli altri. A proposito di lavorare sui vuoti: guardando la serie sembra di assistere a uno spin-off, a un ampliamento del materiale di partenza, al contrario di quanto avviene normalmente guardando le cosiddette “riduzioni” cinematografiche delle opere letterarie. Un period drama che diventa family drama, e sembra cercare tra le pieghe del testo un accenno o un silenzio per costruirvi una tridimensionalità che può essere abitata da tutta la famiglia dei personaggi, e non più solo dal protagonista. Il period tendenzialmente è già “famigliare” – Downton Abbey, per esempio, è la storia della famiglia. Raccontare la storia di un’intera famiglia permette di dare più sfumature a un’epoca, soprattutto quando ci si apre a diverse classi sociali. Non si tratta di un genere che prende il posto di un altro, perché di fatto i due generi coincidono: la saga famigliare, attraverso i suoi conflitti, è un modo di esplorare il passato, perché ognuno dei componenti della famiglia ha un’esperienza diversa di quell’epoca. Il Gattopardo ha al suo interno una quantità di personaggi che vengono anche solo accennati e aprono un orizzonte rispetto a quel mondo. Le parole di Tancredi riflettono alla perfezione anche il concetto stesso di adattamento transmediale, che spesso è chiamato a “tradire” la lettera dell’originale per custodirne lo spirito, a cambiare per rimanere come è. Qual è il più grande “tradimento” della serie nei confronti del romanzo, e perché è indispensabile? Il tradimento più grande – e lo dico anche con un certo orgoglio perché ho spinto molto per questo tradimento – è nel finale. Il finale del romanzo è molto triste: è la fine di un’epoca, c’è la morte del principe, ci sono le principesse ormai anziane, il cane imbalsamato… Si percepisce un senso di grande nostalgia per qualcosa che non c’è più. Inoltre, accade a distanza di alcuni anni rispetto al celebre ballo. I nostri sceneggiatori tenevano molto a mostrare la morte del principe, ma dedicarvi un intero episodio inevitabilmente avrebbe dato il senso di una grande sconfitta. Neppure Visconti lo ha mostrato. Invece il nostro finale, che è un piccolo finale, e che pure non è un happy ending, dà speranza: concludere la storia con i due fratelli che riportano dentro la famiglia alcune proprietà proprio grazie ai soldi del ceto emergente riguadagnati attraverso il matrimonio di Tancredi, che era stato vissuto come una sconfitta, personale e di classe, è una rivincita, e apre alla speranza. Come anche l’ultima passeggiata di Concetta, il nuovo Gattopardo. La tradizione rimane, ma preservare quel passato non significa immobilizzarlo, imbalsamarlo, perché questo passato, questa Sicilia che vediamo nella sua bellezza, ha un valore. Il finale non mette in scena un tramonto, ma un’alba: l’alba di un’epoca nuova, che non si sa cosa porterà, ma proprio per questo nasconde in sé anche una speranza per il futuro. Da un certo punto di vista c’è un tradimento del romanzo, però io credo che sia un tradimento che nell’economia del racconto, in cui Concetta è diventata la co-protagonista, era giusto dare e ci ha fatto piacere dare. Ormai la maggior parte delle opere audiovisive è composta da adattamenti: in un mondo in continua evoluzione, quali sono le storie a cui restare ancorati, per andare avanti e cambiare in meglio? Perché tutto cambi, cosa deve rimanere come è? Non è un caso che ci siano così tanti adattamenti letterari, perché il romanzo conferisce una naturale profondità ai personaggi che, è vero, si può costruire anche con storie originali, ma lì si può trovare con una tessitura consolidata dal tempo che l’autore ha impiegato nel raccontare. E poi spesso, quando si tratta di classici, esiste anche tutto il discorso che è nato intorno al romanzo, che è come se avesse dato un ulteriore spazio di apertura. Sembra una banalità, ma a rendere unica una storia è il fatto di avere dei personaggi indimenticabili: questo è ciò che attira come il miele l’audiovisivo. La cosa importante è trovare almeno un personaggio di cui ti innamori e dici: ecco, se riuscissi a trasferirlo sullo schermo sono sicura che la gente vorrebbe passare delle ore con questa persona per sentire la sua storia.  L’Italia è un Paese che legge poco. E in generale nel mondo la lettura, così legata allo sviluppo del pensiero critico e dell’empatia, è minacciata dai tanti stimoli offerti dalle nuove tecnologie e dalla competitività degli altri media. L’audiovisivo è un rivale o un alleato? E l’adattamento che ruolo ha in questa prospettiva?  La tragedia è che, se anche non ci fossero gli audiovisivi, la gente non leggerebbe comunque. Anzi, forse l’adattamento è un’occasione per invogliare a leggere il romanzo da cui è tratto. È ovvio che il tipo di fruizione è completamente diverso, perché il tempo della lettura – che sia su supporto fisico o digitale, pur nella differenza penso che qualunque forma di lettura sia da considerare positiva – è un tempo personale, in cui si riflette, ed è un tempo di solito più lungo rispetto al tempo di fruizione dell’audiovisivo. Spero però che una cosa non escluda l’altra. E poi il raccontare storie ha un valore di per sé: ci apre agli altri, perché una storia contiene un’esperienza umana che non è la nostra, e noi ne abbiamo terribilmente bisogno per non rimanere ancorati solo a noi stessi. Fruire le storie apre all’empatia, qualunque sia la forma. E la forma di quest’epoca è spesso quella della serialità televisiva.  E Netflix? Che tipo di storie sta cercando? È alle porte qualche progetto che vuole (e può) raccontarci? Ancora non c’è niente di annunciato. Però a me piacciono questo tipo di storie; è facile perciò che me ne arrivino altre di questo tipo. Per concludere, c’è qualche aspetto che desidera sottolineare, o aggiungere?  Avevamo il desiderio di raccontare l’identità italiana. Secondo me è stato esaudito, perché è stato fatto non in maniera teorica, ma attraverso i personaggi, grandi storie, grandi famiglie, grandi individualità, che ci portano dentro l’Italia di allora, che poi è anche quella di oggi. Credo che ci siano dei momenti che definiscono l’identità di un popolo, ed è sempre interessante raccontarli. L’Italia è un Paese che è arrivato tardi all’Unità: raccontare quel momento con tutte le sue contraddizioni, e quindi non con una celebrazione tout court, è sensato in un momento storico in cui i temi dell’identità nazionale danno vita a guerre. Queste storie hanno una capacità di parlare all’oggi e di essere urgenti a modo loro. Chiara Bianchi *Si pubblica per gentile concessioni delle Edizioni Ares; il servizio è in uscita su “Studi Cattolici” -------------------------------------------------------------------------------- [1] Luisa Cotta Ramosino è Director Local Language Series Netflix per l’Italia e coordina il team che, di concerto con i partner produttori, si occupa di sviluppare le serie italiane di Netflix, riportando a Tinny Andreatta. Si occupa poi direttamente dello sviluppo di alcune serie tra cui “Il Gattopardo”. Prima di arrivare a Netflix ha lavorato come sceneggiatrice e produttore creativo per diversi produttori italiani ed è stata responsabile delle coproduzioni internazionali per Lux Vide. L'articolo Un romanzo che sfugge a ogni definizione. “Il Gattopardo” cambia per non cambiare: dal libro alla serie Netflix proviene da Pangea.
May 5, 2025 / Pangea
“Adolescence” o sull’impossibilità di educare l’eccezione
Per ogni serie, ma anche film o libro, di particolare successo, il dibattito web e social ripropone sempre più o meno lo stesso percorso. Le prime recensioni saranno positive, dopo un crescendo di entusiasmo si griderà al capolavoro, poi arriverà qualche accusa di sopravvalutazione e qualche timida critica. Man mano se ne aggiungeranno altre, sempre più negative, al che gli entusiasti replicheranno con elogi più circostanziati. Solo al termine di questa spirale dialettica si potrà finalmente guardare all’opera per quello che realmente è, per capire davvero cosa ha detto di nuovo e cosa ne resterà.  Nel caso di Adolescence il dibattito social è intenso, non tanto per quanto riguarda le qualità tecniche – la serie è oggettivamente ben fatta e ben recitata – ma per il coinvolgimento emotivo che ha creato. La discussione però, a mio parere, è giunta spesso a conclusioni anche più inquietanti della serie stessa.  Premetto subito che non ho figli e quindi, come si dice, non posso capire, ma se i nullipari sono spesso catalogati come eterni adolescenti, allora forse in questo caso il nostro punto di vista può offrire uno sguardo utile. Il target della serie non sono i ragazzi, ma i loro genitori, cioè per lo più la generazione X. Si capisce già dal titolo, nessun adolescente si autodefinirebbe così, e la citazione degli A-ha nell’ultima puntata toglie ogni dubbio.  Tale puntata si concentra sulla famiglia di Jamie, il tredicenne assassino, e mentre lo spettatore si aspetta che venga svelato un abuso domestico all’origine di tutto, i genitori del ragazzo si rivelano invece persone oneste, di sentimenti veri, e pur commettendo errori umani risultano essere, per usare i termini di Winnicott, una famiglia “sufficientemente buona”, non responsabile del crimine del figlio, e la serie si conclude senza giudicare, lasciando molte domande aperte. Eppure il pubblico adulto vuole risposte e le reazioni si polarizzano in due tendenze. La prima: è tutta colpa dei social, dobbiamo togliere i social ai ragazzi, almeno fino a 16 anni, ma meglio ancora fino a 18. I social sono il male, sono il demonio, sono persino peggio della droga. La seconda: no, togliere i social non basta, e poi troverebbero il modo di usarli comunque. Dobbiamo parlare con i ragazzi, ci vuole il dialogo, dobbiamo comunicare, fare l’educazione affettiva, l’educazione sentimentale,  bisogna parlare, parlare, parlare. A questo punto mi è tornato in mente che, secondo studi recenti, la violenza, nelle nuove generazioni, non è aumentata. Pare essere aumentata invece in modo esponenziale l’ansia.  Oggi di bullismo si parla apertamente e c’è molta più attenzione di un tempo, c’è lo psicologo a scuola, roba che la generazione X se la sognava, allora se ti picchiavano e lo dicevi a casa di solito ti sentivi dire che era colpa tua perché non ti sapevi difendere, e lo psicologo era ritenuto il dottore dei matti, da cui stare alla larga.  Eppure non è stata risparmiata, a questa nuova generazione di adolescenti, l’ansia. Una pandemia la cui l’emergenza si è protratta molto oltre la fine del pericolo reale, un riscaldamento globale esposto con toni apocalittici, ed ora una guerra europea altamente improbabile, ma già narrata come fosse attuale.  Ma forse, nonostante tutte le attenzioni alla fragilità e alla diversità, le radici dell’ansia stanno più a fondo, e possiamo intuirle proprio osservando come gli adulti hanno reagito alla serie, più ancora che la serie stessa. Gli adolescenti assassini sono di fatto una percentuale trascurabile, un’assoluta eccezione. Uno zero virgola seguito da molti altri zeri. In Italia sono ancor più rari che in Inghilterra, dove la serie è ambientata. È molto più frequente morire in un incidente stradale o in un incidente sul lavoro, piuttosto che essere vittima o carnefice di un fatto di sangue. Eppure nulla muove i genitori quanto giustificare la necessità di controllare le emozioni dei figli, cosa tra l’altro impossibile, poiché non chiare nemmeno a loro stessi. Paradigmatica in questo senso è una frase tratta dal film dal titolo …e ora parliamo di Kevin, del 2011, di Lynne Ramsay, sullo stesso tema di Adolescence. Quando la madre domanda al figlio perché abbia commesso quel tremendo delitto, lui risponde “Credevo di saperlo, ora non ne sono più così sicuro”. Ora, non voglio dire che i genitori non possano o non debbano fare nulla. Si insegna l’educazione, il rispetto, a non praticare la violenza, ad accettare un no, a rifiutare con gentilezza, a chiedere scusa. Tutto questo nella normalità già avviene, sia in famiglia che a scuola, e ha un ruolo importante nel rendere migliore la normalità stessa, ma non sfiorerà mai il campo dell’eccezione imponderabile.  Il salto emotivo, il distacco dalla razionalità che porta una persona apparentemente tranquilla a commettere un omicidio o qualche altra grave forma di violenza viene da tali profondità dell’animo umano, segue dinamiche talmente complesse e inaccessibili anche alla scienza, che più il crimine è grave, più paradossalmente genitori, insegnanti e contesto sociale, a meno di abusi gravi, ne sono innocenti.  Vale per il ragazzino che accoltella la compagna di scuola, per i femminicidi, per la pedofilia, per i delitti familiari. L’idea di eliminare l’imponderabile tramite l’educazione rischia di portare a imposizione e a ipercontrollo. Gli adolescenti di oggi sono solo apparentemente più liberi. In realtà, complice la tanto vituperata tecnologia, sono sempre geolocalizzati, il registro elettronico non permette loro nemmeno di bigiare a scuola o di mentire su un brutto voto in attesa di rimediarlo, eppure ai genitori non basta mai, e con la motivazione dei “pericoli”, reali ma di entità spesso inferiore alla loro percezione emotiva, finiscono per diventare sempre più intrusivi nel privato, nei sentimenti e nella sessualità. Ma chi mette al mondo un figlio deve accettare che crescendo rimanga un mistero, chiuda la porta della propria stanza, metta al centro del proprio mondo affettivo persone diverse dal genitore, o l’unico effetto sarà moltiplicare l’ansia. Riguardo ai social: contengono il mondo intero, con tutto il suo bene e il suo male, ma è impensabile sottrarli agli adolescenti di oggi. La generazione X, e quelle precedenti forse ancor di più, avevano un campo d’azione molto limitato nella socialità. Se non ti trovavi bene con i compagni di scuola o con gli amici del campetto, finiva lì, non c’erano alternative. Questo per alcuni andava bene, per altri poteva essere fonte di sofferenza. Con i social puoi conoscere amici con i tuoi stessi interessi, magari strambi e nerd, e se vivono nella tua stessa città puoi incontrarli. Piaccia o no, ci sono ragazzi, specie i più particolari e introversi, per cui esprimersi senza l’ingombro del corpo è più facile. Certo, ci sono anche le insidie, ma in questo senso si possono condurre battaglie concrete. Ad esempio, credo che di fronte a un reato di cyberbullismo la polizia dovrebbe intervenire con la stessa tempestività con cui va a sedare una rissa in strada, perché i social non sono un universo altro, fanno parte del mondo fisico, a tutti gli effetti.  Alla fine, forse, il più grande pregio di Adolescence, quello per cui verrà ricordato, sarà aver portato a conoscenza del grande pubblico il concetto di Incel, facendo da tramite tra le bolle intellettuali e la gente comune. Sul tema non mi addentro perché c’è già una voce di Wikipedia molto dettagliata, ma a ben guardare gli “involontariamente celibi” ci sono sempre stati: sono i cosiddetti sfigati. Solo che, complice la rete e qualche guru un po’ folle e un po’ opportunista, invece di rimanere chiusi in sé stessi si sono ideologizzati, hanno elaborato teorie deliranti, hanno trovato capri espiatori, specie nelle donne, secondo loro troppo libere e troppo selettive.  Tuttavia, qualcosa di vero lo dicono. Il concetto di 80/20, ad esempio, secondo cui all’80% delle donne piace il 20% degli uomini, e la selezione avviene soprattutto in base all’aspetto estetico e allo status sociale. Basta prendere una qualunque classe di liceo per rendersi conto che queste percentuali sono persino ottimistiche: di solito ci sono tre o quattro individui che emergono e piacciono a tutti gli altri. Poi gli incel sbagliano in tutto il resto, innanzitutto nel non rendersi conto che questa regola vale anche a generi invertiti, forse in modo ancora più crudele, perché per le femmine l’aspetto fisico è ancor più culturalmente rilevante.  Nel film Il papà di Giovanna, di Pupi Avati, del 2008, una ragazzina uccide una compagna di scuola per gelosia. È una Incel, anche se il nome non esisteva, e al femminile non esiste tutt’ora. Forse le ragazze non fanno branco, non ideologizzano, ma covano il dolore da sole, confidandosi con poche amiche. Oppure un domani lo trasformeranno in altro, sfogheranno anche loro la rabbia contro gli uomini, magari in modo diverso. Poi, comunque, si cresce e alcune distanze si accorciano, ma mai del tutto. Qualcuno migliora, qualcun altro si adatta, l’intelligenza acquista un po’ di importanza. A volte, se si è fortunati, si trova l’amore vero, il lavoro giusto, altre volte si accettano i propri limiti, ma quella proporzione crudele nelle possibilità offerte dalla vita rimane per tutti, uomini e donne, e non solo in campo sentimentale ma in molti aspetti dell’esistenza. Non siamo tutti uguali, non abbiamo tutti le stesse opportunità. E non è colpa di questa società cattiva basata sull’apparenza e sui soldi, né dei cellulari, né dei genitori, né degli insegnanti, né di nessun altro. È la realtà, forse persino l’istinto evolutivo. Di fronte a questo, crediamo davvero che togliere i social agli adolescenti, oppure mettersi in cattedra a insegnare il modo giusto di amare, possa risparmiare loro la crudeltà della vita?  Viviana Viviani L'articolo “Adolescence” o sull’impossibilità di educare l’eccezione proviene da Pangea.
April 5, 2025 / Pangea