Il lutto confonde, agita, scuote. La fine di tutto genera inevitabilmente un
nuovo inizio, almeno per chi resta. Paradossalmente, il lutto crea sempre vita
nuova.
> “Non ho potuto e in piedi
> sono rimasta. Difficile
> è cadere”.
Ci sono opere che trovano un posto nel panorama letterario non appena vengono
concepite, altre invece devono aspettare decenni. Ogni libro ha il suo tempo.
Quello di Ancestrale è stato lungo: composto nel 1953 da Goliarda Sapienza,
all’epoca trentenne, vide la luce soltanto dopo più di mezzo secolo, nel 2013,
grazie alla cura di Angelo Pellegrino per La vita felice. Nel 2025 Einaudi lo
ripropone in un’edizione più aggiornata ed estesa, arricchita con nuovi apparati
critici – sempre a cura di Pellegrino, con Postfazione di Maria Grazia
Calandrone.
Si tratta “dell’atto di nascita dell’esistenza letteraria” della scrittrice
siciliana. La sua prima raccolta poetica, primo grido della sua anima, febbrile
e forte germoglio della sua voce nel mondo. Un atto fondativo, laboratorio di
immagini e ossessioni che annuncia la sua futura scrittura, e che esploderà poi
nell’Arte della gioia.
Quest’opera, pur meritando attenzione fin dagli anni Cinquanta, ricevette
opinioni contrastanti dalla critica. Inizialmente annegata dall’indifferenza e
dal rigetto di alcuni, come Mario Alicata e Cesare Garboli, venne in seguito
apprezzata da altri come Anna Banti e Roberto Longhi. Goliarda aveva ben
compreso che la disapprovazione di Alicata – detentore dell’egemonia culturale
del partito – significava l’esclusione da case editrici, riviste e giornali e da
tutto un ambiente di sinistra di cui faceva parte, se non altro per origine
familiare, anche se, già a quel tempo, con posizioni fortemente critiche. I
tentativi editoriali dunque cessarono in fretta, com’era tipico per la
scrittrice, la quale, stanca di lanciarsi all’inseguimento degli editori,
cominciava un nuovo lavoro.
Nell’Introduzione al volume di Einaudi, Angelo Pellegrino racconta di come
Goliarda avrebbe potuto, a quel tempo, farsi fare una plaquette per far
circolare il testo tra amici e conoscenti, e invece non lo fece: “il suo pudore
non poteva superare certi scogli. E questa raccolta era tutto il suo
pudore”. L’intera raccolta rimase nascosta, e le poesie diventarono così una
forma di comunicazione destinata a rivelarsi soltanto agli amici. A lui,
infatti, le offrì come un segreto, da custodire nell’intimità. E lo erano: erano
il segreto del suo lutto, quello primario, quello che annienta e distrugge,
apparentemente tutto, per portare alla luce qualcosa di nuovo. Gli inizi
letterari di Goliarda Sapienza presero le prime forme dall’esigenza di
esprimersi dopo la morte della madre.
Voleva fare l’attrice; non la scrittrice. Ma, si sa, le emozioni più forti
cedono il passo all’inconfessabile, e spesso è il trauma della perdita a
spalancare le porte dell’arte, a far fiorire ciò che resta inespresso quando le
ossa si spezzano. La madre di Goliarda, Maria Giudice, morì nel freddo e corto
mese di febbraio del ’53. Fu accudita dalla figlia, che rinunciò a molte tournée
teatrali per starle vicino, e che quando scoprì che alla donna, gravemente
diabetica, non rimanevano più di sei mesi di vita, le aprì un conto nella
pasticceria più vicina. Questo il loro rapporto.
> “Mi muore il giorno
> e il gesto s’è perduto
> fra il fumo e il lampadario
> Un segno nero
> già traccia intorno a me
> cupo abbandono”
Ancestrale si compone di una natura così intima che fa quasi paura. Durò un
decennio l’elaborazione di questo grave lutto, al quale si aggiunsero nuove
perdite, altre mancanze. L’abbandono di molte idee e speranze trasmesse dai
genitori, il distacco dalla Sicilia, l’impossibilità di fare teatro o di
recitare nel cinema, e la crisi del suo rapporto affettivo, nata
dall’incomprensione, dalla percezione di non essere vista. Si tratta di una
delle raccolte poetiche più personali che si possano leggere, un viaggio
all’interno delle emozioni, che prendono contatto con ogni parte dell’autrice,
svelandone drammi, sofferenze, contraddizioni, desideri e bugie.
Questa silloge diventa una storia, una fiaba dove si racconta che i morti e i
vivi danzano in cerchio, dove la luna mente, e si ha paura di ricordare. In
questo “fare disfare ancora rifare”, “[…] un lutto stretto/ avvolge i tetti del
mare”, scava tra i tendini, come un verme, si nutre del sangue nelle vene e
raggela i sentimenti. Il dolore annulla ogni certezza, tutto ciò che resta è la
consapevolezza di soffrire, di vedere l’irrefrenabile sgretolarsi della vita
attorno a noi: “Non c’è niente che possa rallentare / questo certo dissolversi
di medusa/ aggrappata alla sabbia/ lontana dal mare”.
“Verrà a me e non può mancare”: scrivere poesia è esigenza, non si arresta.
Goliarda Sapienza lo fa con un linguaggio essenziale, puro e a tratti crudo.
Sono versi spogli, privi di aggettivi, senza fronzoli, che prediligono i verbi
all’infinito:
> “Separare congiungere
> spargere all’aria
> racchiudere nel pugno
> trattenere
> fra le labbra il sapore
> dividere
> i secondi dai minuti
> discernere nel cadere
> della sera
> questa sera da ieri
> da domani”.
Una scrittura primordiale, nascente, che arriva nel punto più profondo: è questo
che impone il lutto, il dolore – il niente. Non chiede altro, le priorità si
ristabiliscono, tutto ciò che prima era necessario pare superfluo, il sole e le
stelle si spengono, e ci si sente vuoti. È una scrittura ridotta all’osso,
quella di Sapienza, e allo stesso tempo è precisa come un bisturi – emozionale,
magmatica, sembra seguire i battiti del cuore.
> “È compiuto. È concluso. È terminato.
> È consumato l’incendio. S’è fermato.
> S’è chiuso il cerchio pietrificato.
> Il tempo s’è fermato. È consumato
> il delitto. S’è bruciato
> il ricordo. L’ansia è cessata.
> Una coltre di lava ha sigillato
> ogni cranio ogni orbita svuotata.
>
> S’è chiuso il cerchio. Niente osa varcare
> il silenzio di lava. Le formiche
> girano intorno al rogo spento impazzite”.
Sono versi taglienti, ricchi di sangue, immagini contraddittorie, alimentati dal
paradosso. Perché è paradossale vivere un sentimento che non si riesce a
esprimere (“[…] Non sapevo il dolore d’esser muta/ il dolore di piangere e
gridare/ senza voce/ contro un muro danzante di sorrisi”), per cui non si
trovano parole (“Ascolta non c’è parola per questo/ non c’è parola per
seppellire una voce/già fredda nel suo sudario/ di raso e gelsomino”). È
paradossale continuare a cercare chi non può più rispondere – chi non riesce a
sentire, chi è troppo lontano: “Vedi non ho parole eppure resto/ a te accanto.
Non ho voce eppure/ muovo le labbra. Non ho fiato eppure/ vivo e ti guardo. E
forse è questo/ che volevo da te, muta restare/ al tuo fianco ascoltando la tua
voce/ il tuo passo scandire le mie ore”. Restare fedeli a un recinto sacro,
eppure vuoto.
L’intimità di questa raccolta è disarmante: un continuo dialogo tra un “io” e un
“tu” inconciliabili, eppure indistinguibili, per questo indivisibili. La prima
persona singolare contraddistingue la maggior parte dei componimenti, e in molti
di essi è proprio presente in funzione di quel “tu”. È questo che accade quando
il dolore arriva senza bussare: la nostra vita ci pare impossibile da
affrontare. Così l’assenza diviene viva presenza, il vuoto è insostenibile:
strenuamente, con le unghie e con i denti lottiamo per riempirlo con la
nostalgia per qualcosa che non c’è più, abbandonandoci totalmente all’altro – a
chi non ci può più guidare, sostenere, accarezzare.
> “Vorrei all’ombra del tuo
> sguardo
> sostare e con la
> mano disegnare
> la tua voce
> che cala verso
> me a raccontare.
>
> Vorrei al ritmo
> del verso
> abbandonarmi ma
> il tempo stringe
> e devo correre
> ancora”.
Quando perdiamo un amore – una madre, un padre, un compagno, un cane – perdiamo
una parte di noi, per sempre. Bisogna ricostruire: si sente, in sottofondo, una
grande consapevolezza di sé nei versi di Sapienza. Del proprio corpo, delle
proprie contraddizioni, dei propri sentimenti. Della nuova direzione che occorre
prendere, anche se ancora non la si conosce: “Ho camminato sul ciglio/ dei miei
sogni. Sbattuta/ dall’onda nera delle tue occhiaie./ Risucchiata/ dal gorgo del
tuo fiato/ Non posso tornare”.
Il titolo di questa raccolta è la chiave della sua intera lettura, secondo
Pellegrino. Inizialmente doveva essere Informazione biologica, poi I luoghi
ancestrali della memoria. Certo, è evidente la volontà, per Goliarda, di un
ritorno all’ancestralità attraverso le proprie origini come i genitori e la
terra, ma anche la necessità di costruire un nuovo mondo a partire da queste
origini. Un mondo solo suo, composto in dieci anni, con sofferenza, memoria,
distacco e sentimento.
C’è tanto mare, in questo mondo. Ci sono alghe, meduse, ci sono gli scogli, il
sole e la luna. C’è la Sicilia, quella terra per lei madre: alla fine del libro
è presente una raccolta intitolata Siciliane – pubblicata per la prima volta da
Il Girasole edizioni nel 2012 –, in cui troviamo poesie composte soltanto nel
dialetto isolano. Sono, a coronare il tutto, l’espressione di un’anima pura,
libera dai pregiudizi, sola nel suo vibrante coraggio. Con Ancestrale, Goliarda
Sapienza non recita solo un dolore, ma fonda una voce che ancora oggi non smette
di bruciare.
> “E va beni. Facemu cuntu
> ca’ un ni canuscemu.
> Comu si’ un avissimu jucatu
> nsemmula nna rina.
> Eppuru lu sai ca m’aiutasti
> a scavari na fossa
> finu a quannu tuccammu
> l’acqua nnu funnu.
> L’acqua du mari”.
Anna Taravella
***
A mia madre
Quando tornerò
sarà notte fonda
Quando tornerò
saranno mute le cose
Nessuno m’aspetterà
in quel letto di terra
Nessuno m’accoglierà
in quel silenzio di terra
Nessuno mi consolerà
per tutte le parti già morte
che porto in me
con rassegnata impotenza
Nessuno mi consolerà
per quegli attimi perduti
per quei suoni scordati
che da tempo
viaggiano al mio fianco e fanno denso
il respiro, melmosa la lingua
Quando verrò
solo una fessura
basterà a contenermi e nessuna mano
spianerà la terra
sotto le guance gelide e nessuna
mano si opporrà alla fretta
della vanga al suo ritmo indifferente
per quella fine estranea, ripugnante
Potessi in quella notte
vuota posare la mia fronte
sul tuo seno grande di sempre
Potessi rivestirmi
del tuo braccio e tenendo
nelle mani il tuo polso affilato
da pensieri acuminati
da terrori taglienti
potessi in quella notte
risentire
il mio corpo lungo il tuo possente
materno
spossato da parti tremendi
schiantato da lunghi congiungimenti
Ma troppo tarda
la mia notte e tu
non puoi aspettare oltre
E nessuno spianerà la terra
sotto il mio fianco
nessuno si opporrà alla fretta
che prende gli uomini
davanti a una bara.
Goliarda Sapienza
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Goliarda Sapienza proviene da Pangea.
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Ancora Emily Dickinson? Questo ho pensato – devo ammettere – quando mi sono
ritrovata davanti un altro libro della più famosa poetessa statunitense. “Più
famosa” oggi, si intende. Negli ultimi anni abbiamo infatti assistito a una
proliferazione di testi su o della “reclusa di Amherst” che in vita pubblicò
pochissimo, e non fu quasi mai compresa – basti pensare che la prima edizione
critica delle sue 1.775 poesie, a cura di Thomas H. Johnson, risale al 1955,
sessantanove anni dopo la sua morte.
Tutti pazzi per Emily, dunque: nuove traduzioni, nuove biografie, romanzi che la
vedono protagonista, diversi film, fino ad arrivare a una (terribile) serie
televisiva. Brucia un grande fuoco attorno alla sua figura. In tale contesto,
c’è chi potrebbe domandarsi, con malinconia, se tutta questa attenzione avrebbe
fatto piacere alla scrittrice solitaria, che si “auto-isolava” dal mondo
esterno. Qualcun altro, invece, con ferina curiosità, si chiede perché proprio
Dickinson sembra essere stata eretta a diventare il santino della poesia
femminile – se non addirittura femminista.
Sono domande a cui non so rispondere – non è compito mio –, ma posso dire che
questo libro (Emily Dickinson, Cinquantacinque poesie, Crocetti Editore,
2025) mette in risalto alcune caratteristiche della poetessa che sono passate in
secondo piano rispetto ad altre più decantate dalla critica. Prima di tutto, è
interessante il progetto che si cela dietro al libro: i componimenti sono stati
scelti da Jorie Graham, una delle voci poetiche più importanti e significative
dei nostri giorni. Nata a New York nel 1951, è cresciuta in Italia, a Roma.
Vincitrice del Premio Pulitzer per la poesia nel 1996, dal ’99 insegna scrittura
creativa all’Università di Harvard – ricoprendo il ruolo che fu del poeta
irlandese (e Premio Nobel) Seamus Heaney. Con i suoi versi traccia una lotta
contro la decadenza del mondo, il caos e lo smarrimento. Si è confrontata con le
poesie di Dickinson. Quelle qui raccolte rappresentano un campionario esemplare
dei motivi più rilevanti e degli aspetti stilistici principali della sua
produzione.
La cura del volume è affidata a Maria Borio, come la traduzione – affrontata
insieme a Jacob Blakesley. L’obiettivo principale: quello di “presentare una
versione quanto più autentica della scrittura poetica di Dickinson e del suo
carattere di autrice […]. Lo stile e la lingua di questa poesia testimoniano,
infatti, che D. si confrontava acutamente con le questioni intellettuali e
sociali più rilevanti della sua epoca, anzi che era all‘avanguardia, anticipando
fenomeni artistici e di pensiero del Novecento”.
Maria Borio è poeta e saggista. Dottore di ricerca in letteratura italiana
contemporanea, cura la sezione poesia di «Nuovi Argomenti». La sua ultima
silloge, Trasparenza (collana “Lyra giovani” a cura di Franco Buffoni,
Interlinea 2019) è stata tradotta negli USA. Ha scritto le monografie Satura. Da
Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La
poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).
Ha gli occhi profondi e la voce gentile. Alla presentazione del libro di
Crocetti, a Milano – in dialogo con Benedetta Centovalli e Tommaso Di Dio –, ha
affascinato gli uditori parlando della “luce oscura” di Emily, della percezione
fisica nelle sue poesie, della rivoluzione che ha creato a partire dal suo
limite. Mi sono avvicinata, mi ha permesso di porle qualche domanda.
Cinquantacinque poesie, scritte da Emily Dickinson, selezionate da Jorie Graham,
tradotte da Maria Borio e Jacob Blakesley. Credi che la poetessa statunitense
contemporanea abbia fatto da “mediatore”, attraverso la sua sensibilità, nella
selezione dei testi che più rappresentano Emily? Ritieni che la cooperazione tra
diversi attori (e tra più poeti) abbia arricchito queste traduzioni, offrendo
nuove prospettive rispetto alle versioni precedenti?
Jorie Graham ha offerto un campione di poesie che restituisce una fisionomia
autentica della poetica di Emily Dickinson, a lungo miscompresa. Non si tratta
di una poetessa vagamente misticheggiante, vergine sacrificale confinata
nella Homestead, ma di una scrittrice e intellettuale al passo con il proprio
tempo, fine osservatrice delle questioni politiche, filosofiche, teologiche e
letterarie del Rinascimento Americano, cioè quel giro di decenni in cui emergono
le voci di Emerson con Self-Reliance e Thoreau con Walden, fino a Leaves of
grass di Whitman. Lo sguardo di Emily si innerva anche di scienza, dalla
botanica alla geologia; non dimentichiamo che condivideva le teorie di Darwin e
leggeva l’«Atlantic Monthly». La sua poesia realizza una rivoluzione percettiva,
esistenziale ed ontologica. La cooperazione che è alla base della raccolta cerca
di restituire il carattere acuto e polivalente di questa rivoluzione.
Tu stessa hai sottolineato la grande attenzione che si è posta nella resa del
ritmo e nel rispetto della punteggiatura di Emily. Com’è stato adattarsi al suo
“andamento meditativo anticonvenzionale”, e all’impossibilità di riportare
sempre la rima?
La metrica degli originali reinterpreta soprattutto la tradizione dei versetti
cantati nella liturgia protestante, estranea alla poesia italiana. Ma perdere le
corrispondenze della rima non comporta la rinuncia a quelle delle assonanze e
delle consonanze e delle allitterazioni: non impedisce, cioè, di ricomporre una
specie di tessuto ritmico sinottico parallelo a quello delle versioni inglesi.
La punteggiatura, soprattutto i trattini, è il punto d’unione tra l’inglese di
Dickinson e l’italiano, grazie a cui è stato ricucito il ritmo sincopato nelle
traduzioni. Questa poesia si snoda come un discorso della coscienza, in anticipo
rispetto allo stream of consciousness del Novecento, con avanzamenti e
indietreggiamenti, in presa diretta, nel suo farsi. È il ritmo, prima che ogni
altro aspetto stilistico, che rende questi testi come fotografie di una mente in
movimento, nel suo tempo storico contingente, eppure percepita vicina,
contemporanea, anche da chi legge oggi. Il ritmo dà a questa poesia una
tangibile universalità.
Quali sono, secondo te, gli aspetti linguistici di Dickinson più difficili da
rendere in italiano?
Le espressioni ironiche. Due esempi: l’uso di “Gentlemen”, quando Emily si
rivolge a un ipotetico consesso di filosofi e scienziati che cercano di
stabilire che cosa sia la fede, e che è stato tradotto con “Lor Signori”
in “Faith” is a fine invention…; oppure, in I’m Nobody! Who are you?…,
l’espressione “the livelong June”, tradotto “tutto il santo Giugno”, che
descrive il tempo stagionale dell’assordante gracidare delle rane.
Qual è la forza di Emily Dickinson, la sua modernità? Ciò che le permette di
essere nel tempo, di resistere, anche quando i suoi versi non vengono compresi –
addirittura rovinati, storpiati?
Il ritmo, come dicevo prima, di una mente inquieta e totalmente vera – per
questo è Brain, reale e pulsante, e non l’astratta Mind –, che non scrive
soltanto per esprimere se stessa, ma per cercare di capire il mondo. La poesia
come forma di intelligenza.
L’ironia che accompagna la lirica di Emily Dickinson potrebbe essere intesa come
elemento di innovazione rispetto alla tradizione poetica a lei contemporanea?
C’è un componimento in particolare dove questi due elementi sono inseparabili, a
tuo parere?
L’ironia di Dickinson non è un espediente comico o una semplice tecnica di
straniamento. Si tratta di un modo per inclinare e affinare la visione:
un’angolatura diversa, che ci raggiunge all’improvviso, un’inversione di marcia
rispetto all’abitudine e all’ipocrisia, un’intensificazione dell’intelligenza
che cerca il fondo autentico dell’esperienza umana. Tell all the Truth, but tell
it slant…, cioè “Dì tutta la Verità, ma dilla obliqua”: non esiste un’unità di
senso, logica o scientifica, che fornisce soluzioni o regola le nostre vite in
schemi e leggi; la verità è fatta di possibilità e di domande, e spesso sta
proprio in quest’ultime, non nelle risposte. L’ironia serve a Dickinson per
interrogare.
“Sgretolarsi non è l’Atto di un istante/ […] Scivolare – è la legge del Signor
Crollo –”. Commenteresti questi versi?
Uno dei temi su cui Dickinson ritorna in modo ossessivo è la morte, il
decadimento della materia, lo sgretolarsi del qui e ora. Il pungolo
dell’esistenza che si scompone è controbilanciato da quello per l’eternità. Se
la condizione delle creature mortali è transeunte, qual è quella opposta?
L’eternità è plausibile, o è solo un’illusione che consola, come le promesse
della fede possono essere un palliativo alle ingiustizie reali? Banalmente,
Emily aveva una consuetudine quotidiana con la morte: la sua casa era vicina a
un camposanto, come in moltissime cittadine americane dell’epoca, e i lutti si
verificavano non di rado! Il tendere inevitabile della vita verso la morte, con
l’ipoteca dell’eternità che attende al varco, la attira e la snerva: abituata a
interrogare qualsiasi fenomeno, lo sgretolamento fisiologico e processuale (“non
è l’Atto di un istante”) del corpo coincide, per lei, con la terribile
dissoluzione della capacità di pensare, di avere una coscienza, che spera invece
possa perpetuarsi. Il nostro decadimento è irreversibile, perciò è una “legge”,
ma Dickinson sa affrontarlo con ironia e, infatti, “Crashe’s law” è stato
tradotto con “legge del Signor Crollo”. Anche il tremendo decadimento è posto al
vaglio di un’interrogazione.
Possiamo dire che la poesia, per Emily Dickinson, è lo strumento che occorre per
interrogare i rapporti tra le cose – e se stessa. Da poeta, tu condividi questa
visione?
Sì. La poesia è una forma di pensiero che, interrogando, esprime una creazione e
decreazione continua di rapporti.
Ti sei occupata, tra i tuoi studi, di Eugenio Montale. Nell’Introduzione al
volume di Crocetti scrivi che “se Montale avesse dato meno peso alla religione
nell’opera di Dickinson, forse si sarebbe accorto che alcuni aspetti della
propria poetica lo accomunavano a quest’autrice”. Dove hai individuato
maggiormente questi aspetti?
Montale aveva una visione del mondo atea ed esistenzialista. Ma la sua poesia è
anche una poesia di pensiero, come quella di Valéry. Spesso ha un tono
filosofico. Non chiederci la parola…, negli Ossi di seppia, termina in questo
modo: “questo solo possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”,
cioè condensa in una chiusa quasi epigrammatica una dichiarazione sull’esistenza
umana, una dichiarazione che è metafisica, asserisce una verità. La prospettiva
metafisica non è, però, astratta, incorporea, ma radicata nelle dinamiche
complesse della coscienza. Per il legame viscerale e sensuoso tra coscienza e
metafisica, Montale è vicino a Dickinson.
Credo che tradurre un poeta comporti il fatto di passarci insieme molto tempo.
“Abitare” il suo linguaggio – verbo a Emily tanto caro. Posso chiederti quali
sensazioni o emozioni sono sorte in te durante, o dopo, questa esperienza? Emily
Dickinson ha in qualche misura influenzato anche il tuo modo di guardare alla
realtà?
Ho imparato qualcosa di paradossale: l’arte di non prendersi sul serio. Non si
tratta di irresponsabilità o superficialità, anzi, proprio l’opposto. Fino a
quando ci ostiniamo a prendere estremamente sul serio quello che facciamo, con
caparbietà, per quanto genuina, restiamo confinati in noi stessi, chiusi
nell’ego. Allentando la tensione, con una curvatura ironica e un’accettazione
del perdono, anche scegliendo di affrontare le cose con un impeto tragico, forse
potremo riuscire a vederci come ci può vedere un altro, ad abitare lo spazio
dell’altro, ad essere più autentici. Il tuo peggior nemico è te stesso.
Anna Taravella
**
657
Io abito nella Possibilità –
Una Casa più bella della Prosa –
Più abbondante di Finestre –
Più ricca di Porte –
Di Camere come Cedri –
Inespugnabili dall’Occhio –
E come Tetto Eterno
Le volte del Cielo –
Di Visitatori – i più belli –
Per il Lavorìo – Questo –
Dispiegare ampio delle mie strette Mani
A raccogliere il Paradiso –
*
1129
Di’ tutta la Verità ma dilla obliqua –
Il successo sta in un Circuito
Troppo brillante per la nostra debole Delizia
La sorpresa stupenda della Verità
Come il Fulmine che per i Bambini si attenua
Con spiegazioni soavi
La Verità deve abbagliare gradualmente
O tutti sarebbero ciechi –
*
599
C’è un dolore – così totale –
Che ingoia l’Essere –
Poi copre l’Abisso con lo Stordimento –
Così la Memoria può passarci
Intorno – Attraverso – Sopra –
Come chi in un Delirio –
Vada sicuro – un occhio aperto –
Lo farebbe cadere – Osso dopo Osso –
*
997
Sgretolarsi non è l’Atto di un istante
Una pausa fondamentale,
I processi di Disgregazione
Sono Decadimenti organizzati –
Prima c’è una Ragnatela sull’Anima
Una Pellicina di Polvere
Un Tarlo nell’Asse
Una Ruggine Primaria –
La Rovina è accurata – il lavorio del Diavolo
Consequenziale e lento –
Perdersi in un istante, nessun uomo l’ha fatto
Scivolare – è la legge del Signor Crollo –
*
258
C’è un certo Taglio di luce,
Pomeriggi d’Inverno –
Che opprime, come la Gravità
Delle Melodie da Cattedrali –
Una Ferita celeste, ci procura –
Noi non troviamo la cicatrice,
Ma un’intima differenza,
Dove è ciò che conta –
Nessuno può insegnarla – Nessuno –
È il Sigillo della Disperazione –
Un’afflizione imperiale
Mandata a noi dall’Aria –
Quando arriva, il Paesaggio ascolta –
Le Ombre – trattengono il respiro –
Quando se ne va, è come la Distanza
Negli occhi della Morte –
*
642
Bandire – Me da Me stessa –
Ne avessi l’Arte –
La mia Fortezza invincibile
Da Ogni Cuore –
Ma poiché Io stessa – Mi assalto –
Come potrei aver pace
Se non soggiogando
La Coscienza?
E poiché Noi due siamo Re l’una per l’altra
Come potrebbe essere
Se non Abdicando –
Me – da Me?
Da Emily Dickinson, Cinquantacinque poesie, tr. it. di Maria Borio e Jacob
Blakesley, Crocetti, 2025
L'articolo “Bandire – Me da Me stessa”. In onore di Emily Dickinson. Dialogo con
Maria Borio proviene da Pangea.