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“Tutto il suo pudore”. Cedere all’inconfessabile: la poesia di Goliarda Sapienza
Il lutto confonde, agita, scuote. La fine di tutto genera inevitabilmente un nuovo inizio, almeno per chi resta. Paradossalmente, il lutto crea sempre vita nuova. > “Non ho potuto e in piedi  > sono rimasta. Difficile  > è cadere”. Ci sono opere che trovano un posto nel panorama letterario non appena vengono concepite, altre invece devono aspettare decenni. Ogni libro ha il suo tempo. Quello di Ancestrale è stato lungo: composto nel 1953 da Goliarda Sapienza, all’epoca trentenne, vide la luce soltanto dopo più di mezzo secolo, nel 2013, grazie alla cura di Angelo Pellegrino per La vita felice. Nel 2025 Einaudi lo ripropone in un’edizione più aggiornata ed estesa, arricchita con nuovi apparati critici – sempre a cura di Pellegrino, con Postfazione di Maria Grazia Calandrone. Si tratta “dell’atto di nascita dell’esistenza letteraria” della scrittrice siciliana. La sua prima raccolta poetica, primo grido della sua anima, febbrile e forte germoglio della sua voce nel mondo. Un atto fondativo, laboratorio di immagini e ossessioni che annuncia la sua futura scrittura, e che esploderà poi nell’Arte della gioia. Quest’opera, pur meritando attenzione fin dagli anni Cinquanta, ricevette opinioni contrastanti dalla critica. Inizialmente annegata dall’indifferenza e dal rigetto di alcuni, come Mario Alicata e Cesare Garboli, venne in seguito apprezzata da altri come Anna Banti e Roberto Longhi. Goliarda aveva ben compreso che la disapprovazione di Alicata – detentore dell’egemonia culturale del partito – significava l’esclusione da case editrici, riviste e giornali e da tutto un ambiente di sinistra di cui faceva parte, se non altro per origine familiare, anche se, già a quel tempo, con posizioni fortemente critiche. I tentativi editoriali dunque cessarono in fretta, com’era tipico per la scrittrice, la quale, stanca di lanciarsi all’inseguimento degli editori, cominciava un nuovo lavoro. Nell’Introduzione al volume di Einaudi, Angelo Pellegrino racconta di come Goliarda avrebbe potuto, a quel tempo, farsi fare una plaquette per far circolare il testo tra amici e conoscenti, e invece non lo fece: “il suo pudore non poteva superare certi scogli. E questa raccolta era tutto il suo pudore”. L’intera raccolta rimase nascosta, e le poesie diventarono così una forma di comunicazione destinata a rivelarsi soltanto agli amici. A lui, infatti, le offrì come un segreto, da custodire nell’intimità. E lo erano: erano il segreto del suo lutto, quello primario, quello che annienta e distrugge, apparentemente tutto, per portare alla luce qualcosa di nuovo. Gli inizi letterari di Goliarda Sapienza presero le prime forme dall’esigenza di esprimersi dopo la morte della madre. Voleva fare l’attrice; non la scrittrice. Ma, si sa, le emozioni più forti cedono il passo all’inconfessabile, e spesso è il trauma della perdita a spalancare le porte dell’arte, a far fiorire ciò che resta inespresso quando le ossa si spezzano. La madre di Goliarda, Maria Giudice, morì nel freddo e corto mese di febbraio del ’53. Fu accudita dalla figlia, che rinunciò a molte tournée teatrali per starle vicino, e che quando scoprì che alla donna, gravemente diabetica, non rimanevano più di sei mesi di vita, le aprì un conto nella pasticceria più vicina. Questo il loro rapporto. > “Mi muore il giorno > e il gesto s’è perduto > fra il fumo e il lampadario > Un segno nero > già traccia intorno a me > cupo abbandono” Ancestrale si compone di una natura così intima che fa quasi paura. Durò un decennio l’elaborazione di questo grave lutto, al quale si aggiunsero nuove perdite, altre mancanze. L’abbandono di molte idee e speranze trasmesse dai genitori, il distacco dalla Sicilia, l’impossibilità di fare teatro o di recitare nel cinema, e la crisi del suo rapporto affettivo, nata dall’incomprensione, dalla percezione di non essere vista. Si tratta di una delle raccolte poetiche più personali che si possano leggere, un viaggio all’interno delle emozioni, che prendono contatto con ogni parte dell’autrice, svelandone drammi, sofferenze, contraddizioni, desideri e bugie. Questa silloge diventa una storia, una fiaba dove si racconta che i morti e i vivi danzano in cerchio, dove la luna mente, e si ha paura di ricordare. In questo “fare disfare ancora rifare”, “[…] un lutto stretto/ avvolge i tetti del mare”, scava tra i tendini, come un verme, si nutre del sangue nelle vene e raggela i sentimenti. Il dolore annulla ogni certezza, tutto ciò che resta è la consapevolezza di soffrire, di vedere l’irrefrenabile sgretolarsi della vita attorno a noi: “Non c’è niente che possa rallentare / questo certo dissolversi di medusa/ aggrappata alla sabbia/ lontana dal mare”. “Verrà a me e non può mancare”: scrivere poesia è esigenza, non si arresta. Goliarda Sapienza lo fa con un linguaggio essenziale, puro e a tratti crudo. Sono versi spogli, privi di aggettivi, senza fronzoli, che prediligono i verbi all’infinito:  > “Separare congiungere  > spargere all’aria  > racchiudere nel pugno  > trattenere  > fra le labbra il sapore  > dividere  > i secondi dai minuti  > discernere nel cadere  > della sera  > questa sera da ieri  > da domani”. Una scrittura primordiale, nascente, che arriva nel punto più profondo: è questo che impone il lutto, il dolore – il niente. Non chiede altro, le priorità si ristabiliscono, tutto ciò che prima era necessario pare superfluo, il sole e le stelle si spengono, e ci si sente vuoti. È una scrittura ridotta all’osso, quella di Sapienza, e allo stesso tempo è precisa come un bisturi – emozionale, magmatica, sembra seguire i battiti del cuore. > “È compiuto. È concluso. È terminato. > È consumato l’incendio. S’è fermato. > S’è chiuso il cerchio pietrificato. > Il tempo s’è fermato. È consumato > il delitto. S’è bruciato > il ricordo. L’ansia è cessata. > Una coltre di lava ha sigillato > ogni cranio ogni orbita svuotata. > > S’è chiuso il cerchio. Niente osa varcare > il silenzio di lava. Le formiche > girano intorno al rogo spento impazzite”. Sono versi taglienti, ricchi di sangue, immagini contraddittorie, alimentati dal paradosso. Perché è paradossale vivere un sentimento che non si riesce a esprimere (“[…] Non sapevo il dolore d’esser muta/ il dolore di piangere e gridare/ senza voce/ contro un muro danzante di sorrisi”), per cui non si trovano parole (“Ascolta non c’è parola per questo/ non c’è parola per seppellire una voce/già fredda nel suo sudario/ di raso e gelsomino”). È paradossale continuare a cercare chi non può più rispondere – chi non riesce a sentire, chi è troppo lontano: “Vedi non ho parole eppure resto/ a te accanto. Non ho voce eppure/ muovo le labbra. Non ho fiato eppure/ vivo e ti guardo. E forse è questo/ che volevo da te, muta restare/ al tuo fianco ascoltando la tua voce/ il tuo passo scandire le mie ore”. Restare fedeli a un recinto sacro, eppure vuoto. L’intimità di questa raccolta è disarmante: un continuo dialogo tra un “io” e un “tu” inconciliabili, eppure indistinguibili, per questo indivisibili. La prima persona singolare contraddistingue la maggior parte dei componimenti, e in molti di essi è proprio presente in funzione di quel “tu”. È questo che accade quando il dolore arriva senza bussare: la nostra vita ci pare impossibile da affrontare. Così l’assenza diviene viva presenza, il vuoto è insostenibile: strenuamente, con le unghie e con i denti lottiamo per riempirlo con la nostalgia per qualcosa che non c’è più, abbandonandoci totalmente all’altro – a chi non ci può più guidare, sostenere, accarezzare. > “Vorrei all’ombra del tuo > sguardo > sostare e con la > mano disegnare > la tua voce > che cala verso > me a raccontare. > > Vorrei al ritmo > del verso > abbandonarmi ma > il tempo stringe > e devo correre > ancora”. Quando perdiamo un amore – una madre, un padre, un compagno, un cane – perdiamo una parte di noi, per sempre. Bisogna ricostruire: si sente, in sottofondo, una grande consapevolezza di sé nei versi di Sapienza. Del proprio corpo, delle proprie contraddizioni, dei propri sentimenti. Della nuova direzione che occorre prendere, anche se ancora non la si conosce: “Ho camminato sul ciglio/ dei miei sogni. Sbattuta/ dall’onda nera delle tue occhiaie./ Risucchiata/ dal gorgo del tuo fiato/ Non posso tornare”. Il titolo di questa raccolta è la chiave della sua intera lettura, secondo Pellegrino. Inizialmente doveva essere Informazione biologica, poi I luoghi ancestrali della memoria. Certo, è evidente la volontà, per Goliarda, di un ritorno all’ancestralità attraverso le proprie origini come i genitori e la terra, ma anche la necessità di costruire un nuovo mondo a partire da queste origini. Un mondo solo suo, composto in dieci anni, con sofferenza, memoria, distacco e sentimento. C’è tanto mare, in questo mondo. Ci sono alghe, meduse, ci sono gli scogli, il sole e la luna. C’è la Sicilia, quella terra per lei madre: alla fine del libro è presente una raccolta intitolata Siciliane – pubblicata per la prima volta da Il Girasole edizioni nel 2012 –, in cui troviamo poesie composte soltanto nel dialetto isolano. Sono, a coronare il tutto, l’espressione di un’anima pura, libera dai pregiudizi, sola nel suo vibrante coraggio. Con Ancestrale, Goliarda Sapienza non recita solo un dolore, ma fonda una voce che ancora oggi non smette di bruciare. > “E va beni. Facemu cuntu > ca’ un ni canuscemu. > Comu si’ un avissimu jucatu > nsemmula nna rina. > Eppuru lu sai ca m’aiutasti > a scavari na fossa > finu a quannu tuccammu > l’acqua nnu funnu. > L’acqua du mari”. Anna Taravella  *** A mia madre Quando tornerò sarà notte fonda Quando tornerò saranno mute le cose Nessuno m’aspetterà in quel letto di terra Nessuno m’accoglierà in quel silenzio di terra Nessuno mi consolerà per tutte le parti già morte che porto in me con rassegnata impotenza Nessuno mi consolerà per quegli attimi perduti per quei suoni scordati che da tempo viaggiano al mio fianco e fanno denso il respiro, melmosa la lingua Quando verrò solo una fessura basterà a contenermi e nessuna mano spianerà la terra sotto le guance gelide e nessuna mano si opporrà alla fretta della vanga al suo ritmo indifferente per quella fine estranea, ripugnante Potessi in quella notte vuota posare la mia fronte sul tuo seno grande di sempre Potessi rivestirmi del tuo braccio e tenendo nelle mani il tuo polso affilato da pensieri acuminati da terrori taglienti potessi in quella notte risentire il mio corpo lungo il tuo possente materno spossato da parti tremendi schiantato da lunghi congiungimenti Ma troppo tarda la mia notte e tu non puoi aspettare oltre E nessuno spianerà la terra sotto il mio fianco nessuno si opporrà alla fretta che prende gli uomini davanti a una bara. 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September 4, 2025 / Pangea
“Bandire – Me da Me stessa”. In onore di Emily Dickinson. Dialogo con Maria Borio
Ancora Emily Dickinson? Questo ho pensato – devo ammettere – quando mi sono ritrovata davanti un altro libro della più famosa poetessa statunitense. “Più famosa” oggi, si intende. Negli ultimi anni abbiamo infatti assistito a una proliferazione di testi su o della “reclusa di Amherst” che in vita pubblicò pochissimo, e non fu quasi mai compresa – basti pensare che la prima edizione critica delle sue 1.775 poesie, a cura di Thomas H. Johnson, risale al 1955, sessantanove anni dopo la sua morte. Tutti pazzi per Emily, dunque: nuove traduzioni, nuove biografie, romanzi che la vedono protagonista, diversi film, fino ad arrivare a una (terribile) serie televisiva. Brucia un grande fuoco attorno alla sua figura. In tale contesto, c’è chi potrebbe domandarsi, con malinconia, se tutta questa attenzione avrebbe fatto piacere alla scrittrice solitaria, che si “auto-isolava” dal mondo esterno. Qualcun altro, invece, con ferina curiosità, si chiede perché proprio Dickinson sembra essere stata eretta a diventare il santino della poesia femminile – se non addirittura femminista. Sono domande a cui non so rispondere – non è compito mio –, ma posso dire che questo libro (Emily Dickinson, Cinquantacinque poesie, Crocetti Editore, 2025) mette in risalto alcune caratteristiche della poetessa che sono passate in secondo piano rispetto ad altre più decantate dalla critica. Prima di tutto, è interessante il progetto che si cela dietro al libro: i componimenti sono stati scelti da Jorie Graham, una delle voci poetiche più importanti e significative dei nostri giorni. Nata a New York nel 1951, è cresciuta in Italia, a Roma. Vincitrice del Premio Pulitzer per la poesia nel 1996, dal ’99 insegna scrittura creativa all’Università di Harvard – ricoprendo il ruolo che fu del poeta irlandese (e Premio Nobel) Seamus Heaney. Con i suoi versi traccia una lotta contro la decadenza del mondo, il caos e lo smarrimento. Si è confrontata con le poesie di Dickinson. Quelle qui raccolte rappresentano un campionario esemplare dei motivi più rilevanti e degli aspetti stilistici principali della sua produzione. La cura del volume è affidata a Maria Borio, come la traduzione – affrontata insieme a Jacob Blakesley. L’obiettivo principale: quello di “presentare una versione quanto più autentica della scrittura poetica di Dickinson e del suo carattere di autrice […]. Lo stile e la lingua di questa poesia testimoniano, infatti, che D. si confrontava acutamente con le questioni intellettuali e sociali più rilevanti della sua epoca, anzi che era all‘avanguardia, anticipando fenomeni artistici e di pensiero del Novecento”. Maria Borio è poeta e saggista. Dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea, cura la sezione poesia di «Nuovi Argomenti». La sua ultima silloge, Trasparenza (collana “Lyra giovani” a cura di Franco Buffoni, Interlinea 2019) è stata tradotta negli USA. Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018). Ha gli occhi profondi e la voce gentile. Alla presentazione del libro di Crocetti, a Milano – in dialogo con Benedetta Centovalli e Tommaso Di Dio –, ha affascinato gli uditori parlando della “luce oscura” di Emily, della percezione fisica nelle sue poesie, della rivoluzione che ha creato a partire dal suo limite. Mi sono avvicinata, mi ha permesso di porle qualche domanda.  Cinquantacinque poesie, scritte da Emily Dickinson, selezionate da Jorie Graham, tradotte da Maria Borio e Jacob Blakesley. Credi che la poetessa statunitense contemporanea abbia fatto da “mediatore”, attraverso la sua sensibilità, nella selezione dei testi che più rappresentano Emily? Ritieni che la cooperazione tra diversi attori (e tra più poeti) abbia arricchito queste traduzioni, offrendo nuove prospettive rispetto alle versioni precedenti? Jorie Graham ha offerto un campione di poesie che restituisce una fisionomia autentica della poetica di Emily Dickinson, a lungo miscompresa. Non si tratta di una poetessa vagamente misticheggiante, vergine sacrificale confinata nella Homestead, ma di una scrittrice e intellettuale al passo con il proprio tempo, fine osservatrice delle questioni politiche, filosofiche, teologiche e letterarie del Rinascimento Americano, cioè quel giro di decenni in cui emergono le voci di Emerson con Self-Reliance e Thoreau con Walden, fino a Leaves of grass di Whitman. Lo sguardo di Emily si innerva anche di scienza, dalla botanica alla geologia; non dimentichiamo che condivideva le teorie di Darwin e leggeva l’«Atlantic Monthly». La sua poesia realizza una rivoluzione percettiva, esistenziale ed ontologica. La cooperazione che è alla base della raccolta cerca di restituire il carattere acuto e polivalente di questa rivoluzione. Tu stessa hai sottolineato la grande attenzione che si è posta nella resa del ritmo e nel rispetto della punteggiatura di Emily. Com’è stato adattarsi al suo “andamento meditativo anticonvenzionale”, e all’impossibilità di riportare sempre la rima? La metrica degli originali reinterpreta soprattutto la tradizione dei versetti cantati nella liturgia protestante, estranea alla poesia italiana. Ma perdere le corrispondenze della rima non comporta la rinuncia a quelle delle assonanze e delle consonanze e delle allitterazioni: non impedisce, cioè, di ricomporre una specie di tessuto ritmico sinottico parallelo a quello delle versioni inglesi. La punteggiatura, soprattutto i trattini, è il punto d’unione tra l’inglese di Dickinson e l’italiano, grazie a cui è stato ricucito il ritmo sincopato nelle traduzioni. Questa poesia si snoda come un discorso della coscienza, in anticipo rispetto allo stream of consciousness del Novecento, con avanzamenti e indietreggiamenti, in presa diretta, nel suo farsi. È il ritmo, prima che ogni altro aspetto stilistico, che rende questi testi come fotografie di una mente in movimento, nel suo tempo storico contingente, eppure percepita vicina, contemporanea, anche da chi legge oggi. Il ritmo dà a questa poesia una tangibile universalità. Quali sono, secondo te, gli aspetti linguistici di Dickinson più difficili da rendere in italiano? Le espressioni ironiche. Due esempi: l’uso di “Gentlemen”, quando Emily si rivolge a un ipotetico consesso di filosofi e scienziati che cercano di stabilire che cosa sia la fede, e che è stato tradotto con “Lor Signori” in “Faith” is a fine invention…; oppure, in I’m Nobody! Who are you?…, l’espressione “the livelong June”, tradotto “tutto il santo Giugno”, che descrive il tempo stagionale dell’assordante gracidare delle rane. Qual è la forza di Emily Dickinson, la sua modernità? Ciò che le permette di essere nel tempo, di resistere, anche quando i suoi versi non vengono compresi – addirittura rovinati, storpiati? Il ritmo, come dicevo prima, di una mente inquieta e totalmente vera – per questo è Brain, reale e pulsante, e non l’astratta Mind –, che non scrive soltanto per esprimere se stessa, ma per cercare di capire il mondo. La poesia come forma di intelligenza. L’ironia che accompagna la lirica di Emily Dickinson potrebbe essere intesa come elemento di innovazione rispetto alla tradizione poetica a lei contemporanea? C’è un componimento in particolare dove questi due elementi sono inseparabili, a tuo parere? L’ironia di Dickinson non è un espediente comico o una semplice tecnica di straniamento. Si tratta di un modo per inclinare e affinare la visione: un’angolatura diversa, che ci raggiunge all’improvviso, un’inversione di marcia rispetto all’abitudine e all’ipocrisia, un’intensificazione dell’intelligenza che cerca il fondo autentico dell’esperienza umana. Tell all the Truth, but tell it slant…, cioè “Dì tutta la Verità, ma dilla obliqua”: non esiste un’unità di senso, logica o scientifica, che fornisce soluzioni o regola le nostre vite in schemi e leggi; la verità è fatta di possibilità e di domande, e spesso sta proprio in quest’ultime, non nelle risposte. L’ironia serve a Dickinson per interrogare. “Sgretolarsi non è l’Atto di un istante/ […] Scivolare – è la legge del Signor Crollo –”. Commenteresti questi versi? Uno dei temi su cui Dickinson ritorna in modo ossessivo è la morte, il decadimento della materia, lo sgretolarsi del qui e ora. Il pungolo dell’esistenza che si scompone è controbilanciato da quello per l’eternità. Se la condizione delle creature mortali è transeunte, qual è quella opposta? L’eternità è plausibile, o è solo un’illusione che consola, come le promesse della fede possono essere un palliativo alle ingiustizie reali? Banalmente, Emily aveva una consuetudine quotidiana con la morte: la sua casa era vicina a un camposanto, come in moltissime cittadine americane dell’epoca, e i lutti si verificavano non di rado! Il tendere inevitabile della vita verso la morte, con l’ipoteca dell’eternità che attende al varco, la attira e la snerva: abituata a interrogare qualsiasi fenomeno, lo sgretolamento fisiologico e processuale (“non è l’Atto di un istante”) del corpo coincide, per lei, con la terribile dissoluzione della capacità di pensare, di avere una coscienza, che spera invece possa perpetuarsi. Il nostro decadimento è irreversibile, perciò è una “legge”, ma Dickinson sa affrontarlo con ironia e, infatti, “Crashe’s law” è stato tradotto con “legge del Signor Crollo”. Anche il tremendo decadimento è posto al vaglio di un’interrogazione. Possiamo dire che la poesia, per Emily Dickinson, è lo strumento che occorre per interrogare i rapporti tra le cose – e se stessa. Da poeta, tu condividi questa visione? Sì. La poesia è una forma di pensiero che, interrogando, esprime una creazione e decreazione continua di rapporti. Ti sei occupata, tra i tuoi studi, di Eugenio Montale. Nell’Introduzione al volume di Crocetti scrivi che “se Montale avesse dato meno peso alla religione nell’opera di Dickinson, forse si sarebbe accorto che alcuni aspetti della propria poetica lo accomunavano a quest’autrice”. Dove hai individuato maggiormente questi aspetti? Montale aveva una visione del mondo atea ed esistenzialista. Ma la sua poesia è anche una poesia di pensiero, come quella di Valéry. Spesso ha un tono filosofico. Non chiederci la parola…, negli Ossi di seppia, termina in questo modo: “questo solo possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, cioè condensa in una chiusa quasi epigrammatica una dichiarazione sull’esistenza umana, una dichiarazione che è metafisica, asserisce una verità. La prospettiva metafisica non è, però, astratta, incorporea, ma radicata nelle dinamiche complesse della coscienza. Per il legame viscerale e sensuoso tra coscienza e metafisica, Montale è vicino a Dickinson. Credo che tradurre un poeta comporti il fatto di passarci insieme molto tempo. “Abitare” il suo linguaggio – verbo a Emily tanto caro. Posso chiederti quali sensazioni o emozioni sono sorte in te durante, o dopo, questa esperienza? Emily Dickinson ha in qualche misura influenzato anche il tuo modo di guardare alla realtà? Ho imparato qualcosa di paradossale: l’arte di non prendersi sul serio. Non si tratta di irresponsabilità o superficialità, anzi, proprio l’opposto. Fino a quando ci ostiniamo a prendere estremamente sul serio quello che facciamo, con caparbietà, per quanto genuina, restiamo confinati in noi stessi, chiusi nell’ego. Allentando la tensione, con una curvatura ironica e un’accettazione del perdono, anche scegliendo di affrontare le cose con un impeto tragico, forse potremo riuscire a vederci come ci può vedere un altro, ad abitare lo spazio dell’altro, ad essere più autentici. Il tuo peggior nemico è te stesso. Anna Taravella ** 657 Io abito nella Possibilità – Una Casa più bella della Prosa – Più abbondante di Finestre – Più ricca di Porte – Di Camere come Cedri – Inespugnabili dall’Occhio – E come Tetto Eterno Le volte del Cielo – Di Visitatori – i più belli – Per il Lavorìo – Questo – Dispiegare ampio delle mie strette Mani A raccogliere il Paradiso – * 1129 Di’ tutta la Verità ma dilla obliqua – Il successo sta in un Circuito Troppo brillante per la nostra debole Delizia La sorpresa stupenda della Verità Come il Fulmine che per i Bambini si attenua Con spiegazioni soavi La Verità deve abbagliare gradualmente O tutti sarebbero ciechi – * 599 C’è un dolore – così totale – Che ingoia l’Essere – Poi copre l’Abisso con lo Stordimento – Così la Memoria può passarci Intorno – Attraverso – Sopra – Come chi in un Delirio – Vada sicuro – un occhio aperto – Lo farebbe cadere – Osso dopo Osso – * 997 Sgretolarsi non è l’Atto di un istante Una pausa fondamentale, I processi di Disgregazione Sono Decadimenti organizzati – Prima c’è una Ragnatela sull’Anima Una Pellicina di Polvere Un Tarlo nell’Asse Una Ruggine Primaria – La Rovina è accurata – il lavorio del Diavolo Consequenziale e lento – Perdersi in un istante, nessun uomo l’ha fatto Scivolare – è la legge del Signor Crollo – * 258 C’è un certo Taglio di luce, Pomeriggi d’Inverno – Che opprime, come la Gravità Delle Melodie da Cattedrali – Una Ferita celeste, ci procura – Noi non troviamo la cicatrice, Ma un’intima differenza, Dove è ciò che conta – Nessuno può insegnarla – Nessuno – È il Sigillo della Disperazione – Un’afflizione imperiale Mandata a noi dall’Aria – Quando arriva, il Paesaggio ascolta – Le Ombre – trattengono il respiro – Quando se ne va, è come la Distanza Negli occhi della Morte – * 642 Bandire – Me da Me stessa – Ne avessi l’Arte – La mia Fortezza invincibile Da Ogni Cuore – Ma poiché Io stessa – Mi assalto – Come potrei aver pace Se non soggiogando La Coscienza? E poiché Noi due siamo Re l’una per l’altra Come potrebbe essere Se non Abdicando – Me – da Me? Da Emily Dickinson, Cinquantacinque poesie, tr. it. di Maria Borio e Jacob Blakesley, Crocetti, 2025 L'articolo “Bandire – Me da Me stessa”. In onore di Emily Dickinson. Dialogo con Maria Borio proviene da Pangea.
April 11, 2025 / Pangea