La lucertola di Casarola è il titolo della poesia che battezza l’ultimo libro di
Attilio Bertolucci, uscito nel 1997 per Garzanti. La scena ha la luce olimpica
dell’infanzia, una specie di celestiale crudeltà. “Ricordo che bambino
m’incitavano/ a mozzar loro la coda – non temere,/ rinasce, non temere – e io a
rifiutare, caparbio, silenzioso”. La poesia parla, in forme sotterranee, di ciò
che permane e di ciò che va, della cenere e dell’indomito. Nella caparbietà, nel
vello del silenzio, si intravede – come l’autoritratto di un pittore del
Rinascimento, viso che fissa lo spettatore dall’angolo tra la massa
degli altri – la firma del poeta. Un gatto fissa la scena, la figura rettile che
appare e scompare. L’ultima lassa sfiora l’oracolo, una forma verminosa della
luce:
> “Sciocca felina, ignara
> dei cunicoli cui torna, non fugge,
> l’abitatrice avanti te e me
> di questa verde plaga occidentale”.
Secondo Paolo Lagazzi – in un libro, La casa del poeta, di leggiadra magia, ora
edito da La Nave di Teseo, che assembla “Ventiquattro estati a Casarola con
Attilio Bertolucci” – si tratta di una poesia-rivelazione: “la lucertola
appenninica, ricca di cunicoli in cui nascondersi per tornare, di sortilegi per
riemergere dalle proprie ferite, racchiude in sé la forza di ciò che dura e
durerà sempre, attraverso e oltre i dubbi e i dolori la vita – e la poesia che
in essa si cerca e riflette”. Forse quel rettile – figura di una vita non
rettilinea – simboleggia la poesia stessa di Bertolucci: all’apparenza comune,
sorgiva, come l’erba e le lucertole; in verità, retrattile, sapiente al
mezzogiorno, edotta nei meandri dell’oscurità. Così, nel suo discorrere – come
di chi è uso ad abusare della pazienza dei morti, come chi sa imbonire il
miraggio, disperdere l’inganno in una fiaba: si legga l’insuperabile Per un
ritratto dello scrittore da mago, Diabasis, 1994, poi Moretti & Vitali, 2006 –,
Lagazzi dice della luce frontale di Bertolucci, gioviale Giove, principesco
nell’avita Casarola, conficcata nell’Appennino parmense; non ne cela le aspre
ombre. La crisi-catabasi del 1958, ad esempio – gli anni in cui il poeta
comincia la lunghissima elaborazione del poema familiare La camera da letto –,
in cui Bertolucci sperimenta ‘il terribile’, il mostro interiore; il
gemellaggio, spiazzante, tra allegria e desiderio di isolamento; amicizia e
reticenza.
Con nobile andare, da patriarca, Bertolucci ha attraversato tutti i tempi della
cultura italiana: negli anni Trenta dirige per Guanda la collana “La Fenice”;
vent’anni dopo guida “Il gatto selvatico”, la rivista dell’ENI; sarà alla
direzione di “Nuovi Argomenti”. Amico di Vittorio Sereni e di Pier Paolo
Pasolini, fu consulente per Garzanti; con Viaggio d’inverno (1971), tra l’altro,
ottenne l’“Etna-Taormina”, nell’anno in cui presidente di giuria era Eugène
Ionesco. In calce a La casa del poeta, Bernardo Bertolucci, primogenito di
Attilio, appunta, “Continuo a chiedermi: e io dove ero?”. A significare, credo,
la placida inafferrabilità del padre; il talento di un padre di ‘liberare’ i
figli, che sappiano librarsi da sé. Chissà fino a che punto i grandi film di
Bernardo – Ultimo tango a Parigi, Novecento, L’ultimo imperatore… – sono
debitori dello sguardo di Attilio. Nei ricordi di Pietro Citati – riferiti da
Lagazzi – “Appena parlava c’era odore di prati emiliani, di Tasso, di
letteratura inglese, di famiglia, di mucche, di dolcezza e di infinita
saggezza”.
Bertolucci amava Thomas Hardy e William Wordsworth; amava Proust – ha tradotto
Baudelaire. Certo, la sua opera può avvicinarsi a quella pittorica di Vermeer:
una luce fiamminga, esatta, non priva di enigma. Nel Ritratto di giovane
gentiluomo di Lorenzo Lotto, una lucertola sfida l’uomo che ci guarda,
drappeggiato da un’insanabile mestizia, mentre sfoglia un libro. Creatura a
sangue freddo che si nutre di luce, ne fa scorta per i suoi viaggi sotterranei –
sapersi nascondere, disgustati dalle mode, è il tono del poeta. Luce-lucertola,
nostra verde torcia.
Nella sua ultima intervista, concessa nel gennaio del 1977 alla Radiotelevisione
Svizzera, Cristina Campo parla della lucertola come emblema della vita, al
contempo solare e terribile:
> “Non mi sono mai posta il problema, perché si vive? Per me è un miracolo…
> Avere visto una lucertola che prendeva la buccia di una pera, stando sopra il
> mio piede, e la portava alla femmina, come un dono, mentre il sole tramontava.
> Ecco, che bello essere creati… o che cosa spaventosa in altri momenti”.
>
> (in: Ottanta poetesse per Cristina Campo, Magog, 2023)
La nuda vita, la mera vita – una fredda incandescenza, come la spada che fa lo
scalpo al sole. Nella prefazione alle Operedi Bertolucci, inscatolate nei
‘Meridiani’ (Mondadori, 1997), Lagazzi dà forma al concetto così:
> “Non molte sono le opere del secolo in grado di procurarci un così intenso e
> nutritivo batticuore perché assai rara è la capacità di restituire la vita
> nella sua struggente evidenza, e non solo come onda del tempo, fino al
> mormorio più segreto (il fruscìo d’una tenda che sbatte, il brivido d’una
> clessidra), o come brusìo di voci prima del silenzio finale, ma anche come
> verità di colori, di corpi e di tracce irriducibili alla corrosione del
> tempo”.
Quando sento Lagazzi, la sua gioia è già presagio di un gioco di prestigio.
“Andremo a Casarola… ti porterò a Casarola… e sarà una giornata memorabile”. E
s’intuisce già, nel fondo, il mormorio dei prati, le lucertole che guizzano,
quei rettili delfini, un dio aprico, con l’ascia e l’aratro, e il mormorio della
parola memorabile fa di questo mondo, immediatamente, una ventura. Che la cosa,
poi, accada, o rimandi all’assalto dell’impossibile, poco importa. Il grigio non
esiste.
Bertolucci, ancora: descrivimelo in tre aggettivi.
Potrei dirti che era seducente, vero e imprendibile.
Col primo aggettivo voglio dire che aveva quel dono molto raro, forse concesso
dagli dèi solo ai maestri, che è il fascino personale nel senso più profondo,
psichico, magico, sciamanico. Avvicinarlo davvero era impossibile senza
lasciarsi sedurre, incantare, plagiare.
Col secondo aggettivo voglio sottolineare che il suo modo d’essere, per quanto
tendente all’affabulazione nel quotidiano e alla rêverie nella scrittura, non
era mai astratto, non fuggiva mai per la tangente, non si perdeva in discorsi
vacui o retorici: c’era in lui, vivissimo, un bisogno di chiarezza, concretezza,
fisicità, un bisogno di muoversi con un passo e un respiro giusto che era anche
una necessità etica, e che nasceva dalle sue radici contadine e cristiane.
Nonostante la sua concretezza era a suo modo imprendibile, e dicendo questo
alludo al fondo mercuriale del suo spirito, alla sua intima mobilità, al
continuo trascolorare delle sue parole e delle sue fantasie tra le apparenze e i
segreti della vita, ai suoi andirivieni fra naturalezza e malizia, agli
spostamenti velocissimi del suo sguardo sul mondo, alla sua refrattarietà a
essere incasellato in categorie, al suo grande bisogno di libertà, al suo
sentimento della vita come avventura feriale, come magia e grazia, come
radicamento delle parole e delle cose anche più umili e comuni nel mistero.
Esiste, per tua esperienza, una consustanzialità tra il corpo del poeta e il suo
corpus lirico, tra la tempra etica e quella estetica? Mi riferisco, va da sé, a
Bertolucci: fino a che punto l’uomo combaciava con il poeta – e viceversa?
Ha scritto Pietro Citati che sentirsi un poeta era per Bertolucci come essere
“un bollito o una patata al forno”: una realtà naturale, accettata con assoluta
innocenza. A mia volta ho ricordato nella Casa del poeta una lirica in cui Paolo
Bertolani dice che Attilio sapeva trasformare in poesia qualunque gesto, fosse
pure passare un giornale dalle proprie mani a quelle dell’ospite o versare il
vino a tavola. Anch’io ho sempre avvertito una continuità essenziale fra la vita
e la poesia nel carattere e nel destino di Attilio.
Ciò non significa affatto che covasse il seme dell’estetismo. La fonte prima e
necessaria della poesia era per lui la vita: la poesia non era vera se non si
nutriva di vita, ma a sua volta “sentire” la vita nelle sue risonanze profonde
non gli era concesso se non nella luce della poesia. Poiché era impossibile
sbrogliare questo nodo con le forbici del pensiero, ho letto e riletto per mezzo
secolo la sua poesia e ho camminato fianco a fianco con lui, ho respirato i suoi
soffi lirico-epici e ho condiviso molti suoi momenti umani, soprattutto a
Casarola. Mi sono lasciato intridere dal batticuore aritmico dei suoi giorni e
dei suoi versi, ho cercato di accogliere e di lasciare che si muovessero dentro
di me la luce e la pazienza, i lati umbratili e la joie de vivre che
percorrevano il tempo della sua esistenza e le pieghe mobili della sua opera.
Amava il jazz, il cinema, Verdi e Proust, è vero, ma qual è la vera ‘miccia’
culturale di Bertolucci, quella che lo animava?
Forse il “la” alla creazione poetica di Attilio lo ha impresso la pittura,
perché la sua poesia è anzitutto immagine, sguardo, visione. L’immagine è per
lui il modo che ha il mistero vitale di manifestarsi nella luce. Guardare non è
mai un esercizio “teorico”: è invece pura esperienza d’immersione nelle forme
dell’essere, nei colori vivi e cangianti delle cose nel flusso del tempo.
L’amore del poeta per la pittura precede l’incontro con Roberto Longhi (avvenuto
nel ’35); già Sirio (del ’29) e Fuochi in novembre (del ’34) vibrano e brillano
di riferimenti pittorici impliciti o dichiarati, da Monet a Bonnard, dal liberty
a Modigliani, da Picasso a De Chirico. L’insieme delle scoperte della modernità
pittorica è stato per il primissimo Bertolucci un crogiolo d’impareggiabile
vitalità, una trama screziata di possibilità sperimentali, un invito al viaggio
della poesia tra i sortilegi della luce e dell’ombra. Naturalmente la pittura (e
subito dopo il cinema, sorta di pittura in movimento) è stata solo il “la” della
sua avventura poetica: nel tempo l’amore per i maestri moderni e antichi della
visione si è intrecciato sempre più fittamente con la passione per Proust, per
Verdi e per altri poeti, soprattutto inglesi e americani. Ma è significativo
che, ancora nel ’43, alla richiesta di Luciano Anceschi a tutti i poeti
dell’antologia Lirici nuovi di fornirgli uno scritto di poetica, Attilio abbia
risposto con quelle celebri righe sulla propria poesia come ricerca di “un po’
di luce vera” orientata verso fari della pittura quali gli impressionisti e
Vermeer.
Sul senso dell’amicizia e della famiglia in Bertolucci. Dimmi.
Benché nel carattere di Attilio fosse esplicita la componente narcisistica, in
lui era altrettanto viva è vera la capacità di amare, il calore dei sentimenti.
A parte quello per i genitori e il fratello, l’amore fondamentale della sua vita
era quello per Ninetta. Lei era tutto per lui: donna “dolce e pericolosa” e
tenerissima compagna, musa e anima tutelare, regista degli spazi domestici e
fonte, fino agli ultimi anni, di turbative scintille d’eros… L’amore per lei e
con lei era un’esperienza privatissima, qualcosa come un sogno da sognare in
due, eppure da quel sogno, da quel nocciolo irriducibile di bellezza erano nati
i figli. L’amore si era rivelato una forza espansiva: la solitudine di coppia si
era trasformata in una famiglia… In questo movimento di apertura continuava a
irradiarsi un calore intimo, simile alle tante rêveries di fiamme e di fuochi
che attraversano la poesia di Attilio; eppure né l’amore per Ninetta né quello
per i figli ha mai assunto nello spirito e nell’opera del poeta i tratti
dell’idillio. Il bisogno di essere amato e di amare è sempre percorso in
quest’opera poetica da tremori, brividi, lievi sussulti, ombre, timori, ansie,
fantasmi… Quando lei si allontana, anche di poco, in lui sale una fitta
d’angoscia; a loro volta i figli saranno presto risucchiati dal “fuori”,
dall’altrove, dal lontano, e vani saranno gli esorcismi messi in atto dal padre
(come nella struggente lirica I pescatori) per trattenerli, per rendere eterno e
inattaccabile dal tempo il cerchio incantato della famiglia. Tutto questo non va
inteso alla lettera. Attilio non era quel “ragno” vischioso di cui si è
favoleggiato, dedito solo a intrappolare moglie e figli in una ragnatela nutrita
d’ansia, senso del possesso, gelosia, ossessione, egoismo. Ninetta è sempre
stata una donna intimamente libera, e lui l’amava proprio per questo. A loro
volta i figli non sono mai stati tanto condizionati dal padre da non poter
lanciarsi in tutte le avventure, verso tutti gli orizzonti. Attilio stesso
desiderava che questo avvenisse: non è forse stato lui a propiziare l’incontro
fra Bernardo e il Pasolini regista, incontro decisivo per la vita e la
straordinaria carriera del primo?
Attilio era uno spirito “di soglia”: se cercava di preservare dalle ombre i suoi
spazi intimi – le sue dimore, la sua famiglia – era altrettanto portato a
uscirne, a respirare i soffi del mondo. Questo secondo lato del suo essere non
riguardava solo il rapporto con la natura ma anche quello con la società. Era
curioso come Proust, gli piacevano i nuovi incontri, amava esplorare ambienti
diversi. Fin da giovanissimo aveva amici che nutrivano le sue giornate di parole
scambiate passeggiando o nelle lunghe soste in qualche caffè. Anche la scoperta
precoce del cinema non sarebbe stata un’occasione di tale vitalità se non fosse
stata da lui condivisa con amici quali Pietrino Bianchi e Cesare Zavattini.
Certo questa sete di amicizie non era priva di un retroterra amaro e nevrotico.
L’allegra disposizione al confronto, alla chiacchiera e anche al gioco si
alternava con momenti in cui prevaleva il lato schivo e ombroso, il desiderio di
solitudine, la voglia di fuggire “via dalla pazza folla”. Eppure prima o poi
riemergeva sempre in lui il bisogno di aprirsi agli altri, di condividere i
momenti, di gustare il piacere dell’incontro, perfino di “perdere il tempo” per
poterlo magari, un giorno, ritrovare.
Il nostro incontro durato ventisette anni è stato – non ho timore di dirlo – una
grande amicizia. Nello scritto che accompagna il mio libro La casa del
poeta (nella prima edizione era la prefazione), Bernardo dice che l’espressione
“grande amicizia” riferita al rapporto tra suo padre e me “suona riduttiva e
semplificatoria”. Senza dubbio lui era per me non solo un amico ma anzitutto un
maestro e in un certo senso anche un secondo padre (questo l’ha capito e detto
molto bene Emanuele Trevi nella prefazione alla nuova edizione del libro).
Eppure se torno a sottolineare la grande amicizia fra noi è in primo luogo
perché mi sembra che riuscire a essere veramente amici sia sempre più difficile
nei nostri anni. Da alcune persone che ho ritenuto a lungo grandi amici sono
stato, infine, tradito. Questo non è mai successo con Attilio. Non potrò mai
dimenticare il suo sguardo l’ultima volta che lo vidi. Eravamo a Roma nel suo
appartamento. Era tanto malato che sarebbe vissuto solo altri due mesi, eppure
ne suoi occhi resisteva qualcosa – una luce, il segno di una specie di letizia –
che non so esprimere ma in cui mi parve di riconoscere il senso del nostro
incontro come dono reciproco, come destino.
…gli hai fatto qualche gioco di prestigio?
Sì, ho offerto diverse volte dei giochi di prestigio a lui, a Ninetta e anche ai
loro ospiti di passaggio. Una volta a Casarola io e mio fratello gemello Corrado
(da giovanissimi ci eravamo esibiti in varie occasioni, anche in alcuni teatri,
come prestigiatori dilettanti in coppia) abbiamo portato da Parma una gran
quantità di attrezzi magici e nella locanda Tramaloni abbiamo allestito un vero
e proprio show invitando tutti gli abitanti del paese, specialmente i
bambini. Ricordo la felicità di Attilio in quell’occasione. Era lo spettatore
perfetto: sapeva benissimo che il solo atteggiamento giusto di fronte a un
prestigiatore è stare al gioco, abbandonarsi al piacere dell’illusione senza
cercare di capire il trucco. Secondo me è lo stesso atteggiamento che
occorrerebbe a ogni critico di fronte a un testo letterario in grado di
suscitare incanto. Il buon critico non cerca di smascherare il testo, di
rivelarne i congegni o i doppifondi, di smontarlo come un meccanismo o di
dissezionarlo come un cadavere utilizzando i bisturi della scienza (dalla
psicanalisi alla linguistica alla semiotica): accetta, invece, di lasciarsi
sedurre, di lasciarsi invadere dalle sue vibrazioni magiche, dalla trama mobile
delle sue illusioni per restituirne almeno una parte ai lettori con le proprie
parole.
Ultima. Una poesia-emblema di Bertolucci, quella a cui sei più legato – e
perché.
Forse Il tempo si consuma, collocata al centro esatto di Viaggio d’inverno.
Scritta nel 1957, in un momento di grave crisi psichica dell’autore, questa
poesia sa illimpidire lo strazio trasfigurandolo “in stupore e in
contemplazione”, per riprendere parole dedicate da Montale a Saba. Un padre (il
poeta) entra in una chiesa romana all’ora della messa festiva, in cerca del
giovane figlio; non vedendolo è assalito dall’ansia; ma un quadro che
rappresenta Gesù mentre, bambino, aiuta Giuseppe nel suo lavoro di falegname, lo
rincuora – e proprio dal ritorno del coraggio scocca l’abbandono giusto, quello
che lo porta finalmente a individuare il figlio nell’“agitazione terrena/ delle
ragazze e dei ragazzi tenuti/ lontani dal bel sole di domenica”.
> Così, d’improvviso, in un angolo vicino
> alla porta, t’ ho ritrovato, quieto
> e solo, m’hai visto, ti sei
> accostato timidamente, ho baciato
> i tuoi capelli, figlio ritrovato
> nel tempo doloroso che per me e te
> e tutti noi con pena si consuma.
Sul piano della visione il testo si sviluppa come una scena filmica scandita in
tre momenti: l’ingresso del poeta nella chiesa e la panoramica inutile del suo
sguardo sui banchi; la zoomata verso il quadro sul fondo; l’incontro col figlio.
Attraverso i passaggi ottici, è una complessa vicenda spirituale a dipanarsi
nell’anima del protagonista fra il suo improvviso inabissarsi in un vuoto
generante terrore, il conforto che nasce dalla bellezza colta nella sua natura
più semplice e sacra (il “garzone/ di falegname, Gesù”) e il ritrovamento del
figlio insieme al riaffiorare della fiducia. Con una pregnanza e limpidezza
davvero evangeliche (penso alle parabole del figliol prodigo e della pecorella
smarrita), la poesia si squaderna come dramma di un tempo sospeso e ondeggiante
fra la perdita e il ritorno del calore vitale, tra la piccola morte della
distanza e la “resurrezione” dell’incontro, tra il brivido dell’assenza e la
luce dell’amore ancora possibile.
Per quanto mi riguarda, non credo d’aver incontrato molte volte, nel Novecento,
una voce tanto vibrante nella sua forza umile e salvifica, nel suo soffio capace
di lenire le ferite profonde dei nostri cuori.
L'articolo La vita come magia: Attilio Bertolucci, il poeta del batticuore.
Dialogo con Paolo Lagazzi proviene da Pangea.