Non sarebbe stato difficile scorgere a Parigi, nella livida luce del tramonto
sul lungo Senna, il profilo imponente di Danilo Kiš. Dinoccolato, con una
sigaretta tra le labbra appena dischiuse e una capigliatura da creatura
mitologica, questo misterioso principe delle lettere amava girovagare per la
città, sfiorando discretamente i banchetti dei bouquinistes, attratto dalle
copertine e dai poster che occhieggiavano dagli scaffali.
Con gli occhi azzurri e luminosi, il volto dalle linee irregolari e la voce di
balcanica asprezza, Danilo Kiš si muoveva con l’incedere di un lare, quassi
fosse una tenera e rassicurante divinità
*
La biografia pretende di racchiudere in pochi cenni l’arco di un’esistenza, più
o meno lunga a seconda dei capricci delle Parche, disteso tra due banali date di
calendario. Danilo Kiš nasce nel 1935 in una famiglia per metà ungherese e per
metà montenegrina, ereditando dal padre la religione ebraica. Trascorre
l’infanzia in Ungheria, dove si confronta presto con l’odio antisemita e inizia
a maturare la sua precoce vocazione di scrittore. Poco prima della catastrofe,
si rifugia con la madre e la sorella in Montenegro, riuscendo a sottrarsi ai
rastrellamenti e a completare gli studi. Dopo la guerra, si laurea in
letterature comparate all’Università di Belgrado. Il resto della vita lo
trascorre tra Parigi e la capitale serba, insegnando come lettore di
serbo-croato nelle università francesi. Traduce con grazia da tre lingue e
scrive libri di ustionante bellezza. Assieme a Cortázar, appartiene a quella
schiera di scrittori esuli a Parigi, sospinti dalle onde del destino, dai marosi
della storia e dal richiamo delle Muse. Milan Kundera lo definì il più
misterioso e il più grande della sua generazione.
*
Su pochi altri scrittori la storia ha calato i suoi artigli con altrettanta
ferocia. Il giovane Kiš, in un triste e tragico battesimo, assiste come
testimone impotente al massacro di Novi Sad, avvenuto nel 1942. Di suo padre e
della maggior parte dei familiari si perderà ogni traccia: troveranno la morte
ad Auschwitz e in altri campi nazisti.
La letteratura di Kiš nasce sotto il segno della sofferenza e della crudeltà
arbitraria: la scomparsa dei propri cari e un destino segnato dalla sventura si
trasformano in un vero e proprio buco nero che travolge la biografia e orienta
la scrittura. Il colloquio tra i vivi e i morti diventa la cifra peculiare di un
equilibrio teso come una corda sull’abisso, sospeso tra memoria e oblio.
Come dire: la letteratura veste le sembianze di Caronte, mettendoci in religioso
ascolto di coloro che sono svaniti tra le nebbie della storia e ci attendono
dall’altra parte del fiume.
Mi tornano in mente i favolosi ritratti del Fayyum, ritrovati quasi intatti tra
le sabbie millenarie dell’Egitto: la scrittura di Kiš si posa come un amorevole
sudario sui volti di chi è già salpato. Anche lui, come Mandel’štam, ha appreso
la “scienza degli addii”. Il momento del congedo, però, non è mai netto, non
avviene con il veloce e argenteo taglio di una lama: è piuttosto un lento
dissolversi tra le fessure del tempo, il riconoscere infine che i partenti
custodiscono con sé il mistero del passaggio, sigillandone il segreto come una
rosa ben serrata tra le labbra.
Tutta l’opera di Kiš, dagli acerbi tentativi poetici fino alla grande trilogia
composta da Dolori precoci, Giardino, cenere e Clessidra, è attraversata
dall’urgenza creativa di dar voce ai dimenticati della storia, a coloro che sono
stati risucchiati dal gorgo delle atrocità novecentesche: come dar vita a una
Genesi all’inverso, partendo dal termine ultimo, dall’isola di Patmos.
In Enciclopedia dei morti, altra opera fulminante di Kiš, così come in Salmo 44,
la scrittura nasce da un’esigenza quasi etica: ‘incarnare’ l’invisibile, quel
muto e incolmabile spazio del distacco, e dargli un cuore, dei muscoli, una
colonna vertebrale che abbia le sembianze della speranza.
Solo attraverso la scrittura Kiš può congiungersi all’assenza siderale del
padre, riascoltarne i frammenti di voce, riportarlo entro le cornici di
un’esistenza che era pura vita in essere: come se, per miracolo, potesse farlo
riemergere dalla periferia del tempo e del sogno.
Colpisce, nella prosa di Kiš, un senso di devoto rispetto per l’atto creativo,
oserei dire per ogni singola parola scelta. Nulla appare superfluo, tutto è
assolutamente necessario, impossibile da esprimere altrimenti da come è: quasi
l’osservanza amorosa di un rito millenario, da custodire e tramandare con la
cura di un amanuense.
*
La scienza dell’etimologia rimescola le carte come un’astuta chiromante. Nelle
lingue di derivazione germanica o slava, per formare la parola compassione,
accanto al prefisso con- si sceglie invece un termine che significa sentimento.
Così, in tedesco, ceco o polacco, provare compassione per qualcuno significa in
realtà aderire intimamente a ogni emozione, sia essa gioia, angoscia, dolore o
felicità.
Tutta l’opera di Kiš è illuminata da questa particolare sfumatura di luce. Un
misto di cristiana pietas, compassione e ritegno verso il mistero degli uomini
guida la sua penna. Così anche in Salmo 44, dove le vicende di Maria – deportata
ad Auschwitz e in procinto di evadere dal campo con il figlio appena nato e una
compagna – prendono forma in una sorta di delirio onirico, attraverso continui
slittamenti temporali tra passato e presente. Il ritratto del padre di Maria,
seppur solo accennato, con la sua accorata e tragica consapevolezza della fine
imminente, richiama inevitabilmente la biografia di Kiš e la figura di suo
padre.
Il presentimento della catastrofe, le continue vessazioni subite dagli ebrei, le
esecuzioni sommarie e lo spettacolo tragico di una crudeltà efferata e gratuita
non soffocano, ad ogni modo, la voglia di vivere della protagonista: anche nelle
tenebre più fitte possono aprirsi spiragli di luce.
Nel breve libro ricorre spesso un’immagine che mi sembra racchiudere in senso
metaforico quanto appena detto: un fascio di luce, esile e tremolante, che si
insinua nell’oscurità delle baracche attraverso piccole aperture. Quel bagliore
le permette di vedere il figlio appena nato, di ripensare a Jakub, che forse li
raggiungerà quando tutto questo sarà finito. Di esercitare, infine, il diritto
sacrosanto alla speranza: il sentimento del futuro.
Salmo 44 è attraversato da una tensione costante, che cresce via via
avvicinandosi al culmine della vicenda: l’evasione dal campo, il cui esito
incerto può significare tanto la morte quanto la vita:
> “la sensazione di un momento che ha la densità dell’eternità e del sangue; il
> momento decisivo in cui si intersecano il passato, il futuro e il presente”.
Elemento simbolico, in questi attimi concitati, è il sangue: quello che Maria
sente scorrere dopo il primo rapporto con Jakub, quello che macchia i cadaveri
orrendamente uccisi e quello che segna l’inizio delle mestruazioni, proprio
nell’istante che precede l’evasione dal campo: il sanguinamento delle ferite
della storia si mescola a quello delle vicende individuali:
> “perché sembra che nel flusso quotidiano degli eventi debbano intervenire le
> morti e le nascite, affinché l’uomo rifletta su quel fiume di sangue da cui
> emergiamo e in cui torniamo ad affondare, come un fiume sotterraneo che scorre
> invisibile dentro di noi, e che riconosciamo solo quando sopraggiunge una
> torbida piena o quando il fiume si secca e si prosciuga”.
Adorno proclamò che, dopo Auschwitz, scrivere poesie sarebbe stato un atto di
barbarie. In quello che viene definito il “crinale quasi fisico di un’epoca”,
Maria si domanda se vi sia ancora spazio per una qualsiasi forma di
trascendenza. Ecco allora riaffiorare il pensiero del padre: Dio come perfetta
incarnazione della giustizia, dell’umanità, della bontà e della speranza. Alla
vigilia dell’evasione, Maria vorrebbe a sua volta credere in un Dio,
> “fatto in parti uguali di speranza, di bontà, di compassione, di amore…Sì. E
> di odio. E paura.”
Il Dio di Maria si chiama Jan, il figlio nato nel campo, il legame con il
futuro, con un orizzonte di vita aperto al vento di ogni possibilità. O forse il
Dio di Maria si chiama Max, come il deus ex machina di cui si parla più volte ma
che non incontriamo mai nel libro, e che Maria si appresta a conoscere solo anni
dopo la guerra, mentre visita con Jakub e Jan il campo di Auschwitz.
> “Sulla fronte di Jan voleva imprimere il marchio del martirio e dell’amore,
> quello che lei e Jakub si erano guadagnati con le loro sofferenze. E la
> ricompensa doveva andare a Jan. Ed era orgogliosa della sua missione:
> trasmettere a Jan la gioia di coloro che erano riusciti a creare la vita dalla
> morte e dall’amore. Donargli la gioia amara della sofferenza che lui non aveva
> provato mai sulla propria pelle, una sofferenza che tuttavia doveva essere
> presente in lui come un monito, come una gioia; come un obelisco.”
*
In un suo breve scritto, Danilo Kiš scrive che fra i suoi antenati del ramo
materno c’è un leggendario eroe montenegrino che imparò a scrivere a
cinquant’anni, sommando alla gloria della spada la gloria della penna, e anche
“un’amazzone” che per vendetta tagliò la testa a un usurpatore turco. La rarità
etnografica che Danilo rappresenta morì insieme a lui, alla fine degli anni
Ottanta.
In un’intervista per “Il Tempo” realizzata in Italia nel 1988, Maurizio Ciampa è
colpito dallo sguardo di Danilo Kiš. Gli appare incredibile che quegli occhi,
dalla luce tanto intensa, abbiano potuto fissarsi, probabilmente increduli, su
così tanto dolore.
Mi piace immaginare che, in quel preciso istante, la sua indomabile speranza
fosse segretamente affidata agli uccelli che volteggiavano sopra il giardino
dell’Hotel Quirinale di Roma.
Lorenzo Giacinto
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