Tag - Tom Buron

“Un cuore apofatico”. Il poema-oceano di Tom Buron, asceta & corsaro
In inglese si chiamano Furious Fifties – venti che azzannano, raffiche capodoglio. Stanno al 50° parallelo dell’emisfero meridionale; apolidi all’estremo confine della Patagonia, alle calcagna della Nuova Zelanda, sparpagliati a poche braccia da Antartide. Dicono di possenti depressioni, dicono dello scontro – letale, vulcanico – tra le vampe degli oceani e il gelo della divinità antartica.  Dovremmo raccontare i perplessi progressi della civiltà stando segugi dei venti, dissezionandone il ventre. Una storia occidentale per raffiche. Gli inglesi lo sanno. Durante la leggendaria “Age of Sail”, tra il XVI e il XIX secolo – era di conquiste e di razzie, di esplorazioni e di guerre per mare, di vascelli fantasma e di ammutinati – i “Roaring Forties” (i venti al 40° parallelo sud) e i “Furious Fifties” erano i Castore & Polluce dei velieri e dei velisti, i gemelli terribili. Incoccare il giusto vento permetteva di penetrare nel Pacifico o di fendere l’Indiano a velocità doppia – altrimenti: rotta, disarmo, crollo, vagabondaggio da agnelli sacrificali presso lande inumane.  Les cinquantièmes hurlants è la traduzione in francese di “Furious Fifties”, i “Cinquanta urlanti”. L’esergo avvampa: “Al di sotto del 40° parallelo sud non c’è legge. Sotto il 50° non c’è Dio”. La quarta di copertina parla di “periglioso vagabondaggio per mari”, di “elogio dell’avventura e del rischio”, di “spedizione geografica e metafisica”, di “irragionevolezza”. Tutte cose che nell’epoca dei sentimenti tenui, delle sentenze algoritmiche, della letteratura illetterata, ombelicale, sociologica, sociopatica, patetica, affascinano per inattesa inattualità.  Les cinquantièmes hurlants – stampa Gallimard – è un poema come non se ne vedeva da tempo: audace fino all’ingenuità, ingordo, di scaltrita innocenza. Al primo impatto, l’autore pare mescolare il Rimbaud del Battello ebbro alle cronache di viaggio di James Cook, nella convinzione – australe, belluina e assurda; assordante – che l’uomo, in fondo, sia sempre lo stesso, brutale impasto d’argilla e d’angelo, proteso a belare verso le stelle, indifferenti al suo ardire. In esergo, Hermann Melville – Moby Dick, la mappa alchemica di noi industriosi perduti – e Velimir Chlebnikov, il folle poeta russo idolatrato da Ripellino. L’autore ama le parole desuete, vara improbabili neologismi, gioca a sconfinare dal linguaggio. “Perché dovrei essere ‘compreso’?”, ha detto l’autore-pioniere in un’intervista, un paio di anni fa,  > “E poi, chi dovrebbe ‘comprendermi’? Per quel che mi riguarda, la poesia si > colloca in una dimensione completamente diversa rispetto al linguaggio usato > per ‘comunicare’ – ne è la suprema forma, il supremo abuso. Matthieu Messagier > diceva che ‘la vera poesia è autentica delinquenza’”.  Tom Buron – l’autore – si atteggia a ribelle; spesso indossa pellicce troppo grandi, improbabili; ha gli occhi assatanati, la fronte onniveggente; legge le poesie appeso al microfono, pare Nick Cave. Si è costruito una sua pericolosità, forse per consegnare ai versi un sovrappiù di rischio. Cita Ernst Jünger e René Daumal, ha lavorato con musicisti jazz, legge Hart Crane e Dylan Thomas, le stelle polari del suo ondivago verseggiare. Si atteggia, teneramente, a duro: > “Sono legato a poeti la cui esistenza è all’altezza dell’opera – preferisco i > poeti ‘compiuti’. Quelli che si lanciano con tutto il cuore, che dissipano le > forze; gli avventurieri, questi antieroi della scrittura e del bel gesto; una > specie di incrocio tra l’autore metodico e il torero, l’asceta e il corsaro. > Insomma, si tratta di lottare e di essere, insieme a Conrad, ‘fedeli > all’incubo che ci ha scelti’”. Pratica la boxe – “uno sport pieno di eleganza, di sacralità… prima della scrittura, è la boxe ad avermi dato una disciplina, una solida struttura dopo un’adolescenza eccessiva, diciamo così” –, gli piace dire di aver vissuto a Praga, a Napoli, a Dakar e a Città del Messico; dallo scoppio della guerra in Ucraina lo si è visto, di tanto in tanto, a Kiev, a Zaporižžja, a Cherson. È giovane: nato nel 1992, Tom Buron ha già pubblicato – Marquis Minuit è del 2021, Le chambre et le barillet è del 2023; ha esordito ragazzo, nel 2016 con una serie di “Blues del XXI secolo” –, si è già conquistato le proprietà del pioniere e del ribelle. Il libro edito da Gallimard – in contrasto con la poesia francofona vigente, spesso di risulta, spesso un sussulto minimal, grave di grigi aforismi, di tediosi borborigmi – dovrebbe essere quello della consacrazione. Vista l’indole e il gergo, speriamo sia il libro della dissolutezza e della dissacrazione: una zaffata oceanica, un galeone conficcato nei muffiti salotti della poesia odierna. E poi… al largo, a bordeggiare l’ignoto, a predare lo sconosciuto – ogni libro sia dunque un addio.  ** Da “Les cinquantièmes hurlants” I Già immagino la traversata, la trenodia, giusto è il momento della nostra rotta sopra i fari del mondo; invento una virata di muso per deviare la nave che scroscia su eleganti cariaggi e sbava arguzie d’olio e di rame mentre il litorale è nulla, ormai, e il mare rende tellurico il suo decotto, le acque,  le flotte, una processione di palchi tra nappe di nebbia.  Ho fatto il ritratto al regno: non tornerò, neppure per tutto l’oro del mondo nei lombi del carcere, nel dire dei compagni, nel vasto circo di quegli anni cruciali.  Stasera il cielo è incerato lampi nelle giunture del cratere natio, questa sera, ritornano elettrici i morti contro di noi.  Così, alla conquista della risacca, inebrio il ritmo nel liquore liquame da questo spiraglio, la scoperta di una sferragliante consonanza – luce: luce che agonizza come il mozzicone di una cicca il komboloi tra il pollice e l’indice mi rammenta alcune fate obliate dalla terra che hanno abitato con noi con i loro furtivi passi omettendo le mappe, le loro sinuose costole – poi ricordo i cembali la febbre dei codardi in evasione ancora il ricordo dei cembali – entriamo nella caccia: senza audacia entrando nell’offerta della prossima isola.  Questa sera, setacciamo il cielo per trovare un poco di immobilità finché ci sovviene la litania quella litania che dice: devi dimenticare ben poche cose e poi tieniti a distanza dalla febbre e dalla brace.  “Trasbordi, tragici tragitti – infine il blu rinomina la lontananza delle strade a tre golfi dalla commemorazione: Mai più questo blu, mai, mai più…” per lasciare infine un quinto del cielo alla macabra danza dello zefiro.  Intanto, ho messo a morte le mie prime intenzioni, conteggio le crisi, marcio sulle liti tra segreti estuari. Tempo  fa ero un cercatore, è vero.  Ho negoziato con un negromante per farmi strada tra questi sentimenti medioevali: la buona sorte in una  tasca, quella cattiva nell’altra.  Ma oggi la notte fugge e io vado mendicando tra fratelli plurali, senza sosta.  La nave mi ha reso cieco alle effemeridi della vendetta: lo giuro, ho lasciato nei sobborghi gli appetiti del mio abbaiare. L’ho fatto per apprendere ogni giorno l’arte della resurrezione: ecco cosa genera un cuore apofatico, un corpo che s’inginocchia davanti a ogni mistero del mondo libero. Ma so ruggire – pirata impenitente e intempestivo – ruggisce la pira  dei miei primevi pensieri. Sull’altra rotta nelle altre notti, cacofonia di desideri che rinnova la bella benedizione del dolore, canceroso, arcigno, provato nell’abitudine di quelle albe quando ci si imbarca per terra  senza fuga, quando imbocchiamo la via verso tratturi di fango che i nostri avi non hanno avuto cura di nominare. Quindi: vagabondaggio di onde il coraggio del faro. Le porte si spalancano e ricomincia la commedia la disgrazia, i nuovi consolidati errori.  So i goffi ritornelli a ramponi sul viso dei fumatori, quel po’ di eternità che fende gli indiani segni prima del santuario del panico quell’ambasciata sull’ascia della sera irredimibile, in cui dicevo, andremo a distillare il nostro sangue da quello altrui ma non ho data di nascita nessun genitore terreno: soltanto qualche moneta in tasca – lucido la fodera del tuono a ogni ora. Aratura di scafi, armi –  incomparabile accordo tra estasi e crollo, questa è la mia parte.  Così, ogni giorno sondiamo l’oracolo dei mari, ogni giorno partiamo da gorghi carnevaleschi per incrociare le spade ed è tutto un basculare tra maniaci e manieri in questi nuovi giardini di Eden. Che vomitino il vino iniquo il vento maligno dei civilizzati nei porti dell’Est, posti dalle vaste palpebre; pallidi isolotti, palme, spuma di spezie, involuti incanti di catene – chiara è la lettera: ciò che è costruito dev’essere distrutto e ogni giorno rinnovato, alla partenza –  Tom Buron L'articolo “Un cuore apofatico”. Il poema-oceano di Tom Buron, asceta & corsaro proviene da Pangea.
April 22, 2025 / Pangea