In inglese si chiamano Furious Fifties – venti che azzannano, raffiche
capodoglio. Stanno al 50° parallelo dell’emisfero meridionale; apolidi
all’estremo confine della Patagonia, alle calcagna della Nuova Zelanda,
sparpagliati a poche braccia da Antartide. Dicono di possenti depressioni,
dicono dello scontro – letale, vulcanico – tra le vampe degli oceani e il gelo
della divinità antartica.
Dovremmo raccontare i perplessi progressi della civiltà stando segugi dei venti,
dissezionandone il ventre. Una storia occidentale per raffiche. Gli inglesi lo
sanno. Durante la leggendaria “Age of Sail”, tra il XVI e il XIX secolo – era di
conquiste e di razzie, di esplorazioni e di guerre per mare, di vascelli
fantasma e di ammutinati – i “Roaring Forties” (i venti al 40° parallelo sud) e
i “Furious Fifties” erano i Castore & Polluce dei velieri e dei velisti, i
gemelli terribili. Incoccare il giusto vento permetteva di penetrare nel
Pacifico o di fendere l’Indiano a velocità doppia – altrimenti: rotta, disarmo,
crollo, vagabondaggio da agnelli sacrificali presso lande inumane.
Les cinquantièmes hurlants è la traduzione in francese di “Furious Fifties”, i
“Cinquanta urlanti”. L’esergo avvampa: “Al di sotto del 40° parallelo sud non
c’è legge. Sotto il 50° non c’è Dio”. La quarta di copertina parla di
“periglioso vagabondaggio per mari”, di “elogio dell’avventura e del rischio”,
di “spedizione geografica e metafisica”, di “irragionevolezza”. Tutte cose che
nell’epoca dei sentimenti tenui, delle sentenze algoritmiche, della letteratura
illetterata, ombelicale, sociologica, sociopatica, patetica, affascinano per
inattesa inattualità.
Les cinquantièmes hurlants – stampa Gallimard – è un poema come non se ne vedeva
da tempo: audace fino all’ingenuità, ingordo, di scaltrita innocenza. Al primo
impatto, l’autore pare mescolare il Rimbaud del Battello ebbro alle cronache di
viaggio di James Cook, nella convinzione – australe, belluina e assurda;
assordante – che l’uomo, in fondo, sia sempre lo stesso, brutale impasto
d’argilla e d’angelo, proteso a belare verso le stelle, indifferenti al suo
ardire. In esergo, Hermann Melville – Moby Dick, la mappa alchemica di noi
industriosi perduti – e Velimir Chlebnikov, il folle poeta russo idolatrato da
Ripellino. L’autore ama le parole desuete, vara improbabili neologismi, gioca a
sconfinare dal linguaggio. “Perché dovrei essere ‘compreso’?”, ha detto
l’autore-pioniere in un’intervista, un paio di anni fa,
> “E poi, chi dovrebbe ‘comprendermi’? Per quel che mi riguarda, la poesia si
> colloca in una dimensione completamente diversa rispetto al linguaggio usato
> per ‘comunicare’ – ne è la suprema forma, il supremo abuso. Matthieu Messagier
> diceva che ‘la vera poesia è autentica delinquenza’”.
Tom Buron – l’autore – si atteggia a ribelle; spesso indossa pellicce troppo
grandi, improbabili; ha gli occhi assatanati, la fronte onniveggente; legge le
poesie appeso al microfono, pare Nick Cave. Si è costruito una sua pericolosità,
forse per consegnare ai versi un sovrappiù di rischio. Cita Ernst Jünger e René
Daumal, ha lavorato con musicisti jazz, legge Hart Crane e Dylan Thomas, le
stelle polari del suo ondivago verseggiare. Si atteggia, teneramente, a duro:
> “Sono legato a poeti la cui esistenza è all’altezza dell’opera – preferisco i
> poeti ‘compiuti’. Quelli che si lanciano con tutto il cuore, che dissipano le
> forze; gli avventurieri, questi antieroi della scrittura e del bel gesto; una
> specie di incrocio tra l’autore metodico e il torero, l’asceta e il corsaro.
> Insomma, si tratta di lottare e di essere, insieme a Conrad, ‘fedeli
> all’incubo che ci ha scelti’”.
Pratica la boxe – “uno sport pieno di eleganza, di sacralità… prima della
scrittura, è la boxe ad avermi dato una disciplina, una solida struttura dopo
un’adolescenza eccessiva, diciamo così” –, gli piace dire di aver vissuto a
Praga, a Napoli, a Dakar e a Città del Messico; dallo scoppio della guerra in
Ucraina lo si è visto, di tanto in tanto, a Kiev, a Zaporižžja, a Cherson. È
giovane: nato nel 1992, Tom Buron ha già pubblicato – Marquis Minuit è del
2021, Le chambre et le barillet è del 2023; ha esordito ragazzo, nel 2016 con
una serie di “Blues del XXI secolo” –, si è già conquistato le proprietà del
pioniere e del ribelle. Il libro edito da Gallimard – in contrasto con la poesia
francofona vigente, spesso di risulta, spesso un sussulto minimal, grave di
grigi aforismi, di tediosi borborigmi – dovrebbe essere quello della
consacrazione. Vista l’indole e il gergo, speriamo sia il libro della
dissolutezza e della dissacrazione: una zaffata oceanica, un galeone conficcato
nei muffiti salotti della poesia odierna. E poi… al largo, a bordeggiare
l’ignoto, a predare lo sconosciuto – ogni libro sia dunque un addio.
**
Da “Les cinquantièmes hurlants”
I
Già immagino la traversata, la trenodia,
giusto è il momento della nostra
rotta sopra i fari del mondo;
invento una virata di muso per deviare
la nave che scroscia su eleganti cariaggi
e sbava arguzie d’olio e di rame
mentre il litorale è nulla, ormai, e il mare
rende tellurico il suo decotto, le acque,
le flotte, una processione di palchi
tra nappe di nebbia.
Ho fatto il ritratto al regno:
non tornerò, neppure
per tutto l’oro del mondo nei lombi
del carcere, nel dire dei compagni, nel
vasto circo di quegli anni cruciali.
Stasera il cielo è incerato
lampi nelle giunture del cratere natio, questa sera,
ritornano elettrici i morti contro di noi.
Così, alla conquista della risacca,
inebrio il ritmo nel liquore liquame
da questo spiraglio, la scoperta di una
sferragliante consonanza – luce:
luce che agonizza come il mozzicone di una cicca
il komboloi tra il pollice e l’indice
mi rammenta alcune fate obliate dalla terra
che hanno abitato con noi con i loro furtivi passi
omettendo le mappe, le loro sinuose costole –
poi ricordo i cembali
la febbre dei codardi in evasione
ancora il ricordo dei cembali –
entriamo nella caccia: senza audacia
entrando nell’offerta della prossima isola.
Questa sera, setacciamo il cielo
per trovare un poco di immobilità
finché ci sovviene la litania
quella litania che dice: devi
dimenticare ben poche cose e poi
tieniti a distanza dalla febbre e dalla brace.
“Trasbordi, tragici tragitti – infine
il blu rinomina la lontananza delle strade
a tre golfi dalla commemorazione:
Mai più questo blu, mai, mai più…”
per lasciare infine un quinto del cielo
alla macabra danza dello zefiro.
Intanto, ho messo a morte
le mie prime intenzioni, conteggio
le crisi, marcio sulle liti
tra segreti estuari. Tempo
fa ero un cercatore, è vero.
Ho negoziato con un negromante
per farmi strada tra questi
sentimenti medioevali:
la buona sorte in una
tasca, quella cattiva nell’altra.
Ma oggi la notte fugge
e io vado mendicando
tra fratelli plurali, senza sosta.
La nave mi ha reso cieco
alle effemeridi della vendetta:
lo giuro, ho lasciato nei sobborghi
gli appetiti del mio abbaiare. L’ho fatto
per apprendere ogni giorno l’arte
della resurrezione: ecco cosa genera
un cuore apofatico, un corpo che s’inginocchia
davanti a ogni mistero del mondo libero.
Ma so ruggire – pirata impenitente
e intempestivo – ruggisce la pira
dei miei primevi pensieri. Sull’altra rotta
nelle altre notti, cacofonia di desideri
che rinnova la bella benedizione
del dolore, canceroso, arcigno, provato
nell’abitudine di quelle albe
quando ci si imbarca per terra
senza fuga, quando imbocchiamo
la via verso tratturi di fango che i nostri
avi non hanno avuto cura di nominare.
Quindi: vagabondaggio di onde
il coraggio del faro. Le porte si spalancano
e ricomincia la commedia
la disgrazia, i nuovi consolidati errori.
So i goffi ritornelli a ramponi
sul viso dei fumatori, quel po’
di eternità che fende gli indiani segni
prima del santuario del panico
quell’ambasciata sull’ascia della sera
irredimibile, in cui dicevo, andremo
a distillare il nostro sangue da quello altrui
ma non ho data di nascita
nessun genitore terreno: soltanto
qualche moneta in tasca – lucido
la fodera del tuono a ogni ora.
Aratura di scafi, armi –
incomparabile accordo tra estasi
e crollo, questa è la mia parte.
Così, ogni giorno sondiamo
l’oracolo dei mari, ogni giorno
partiamo da gorghi
carnevaleschi per incrociare
le spade ed è tutto un basculare
tra maniaci e manieri in questi
nuovi giardini di Eden.
Che vomitino il vino iniquo
il vento maligno dei civilizzati
nei porti dell’Est, posti dalle vaste palpebre;
pallidi isolotti, palme, spuma di spezie,
involuti incanti di catene – chiara è la lettera:
ciò che è costruito dev’essere distrutto
e ogni giorno rinnovato, alla partenza –
Tom Buron
L'articolo “Un cuore apofatico”. Il poema-oceano di Tom Buron, asceta & corsaro
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