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Tra ascetismo e latitanza, contro gli scrittori “impegnati”, verso l’impossibile. Dialogo con Tom Buron
Tom Buron pare un corsaro. Giovane – classe 1992 –, gioviale, ha esordito con Gallimard con un poema, Les Cinquantièmes hurlants, che va in direzione opposta ai toni dominanti del nostro tempo: lo stile sifilitico, il pallore da confessionale, una scrittura senza febbre, senza sbalzi, spesso anemica, utile al post sui social, gradevole alla lettura pubblica. In una intervista pubblicata di recente su “Zone Critique”, Tom Buron ha detto che “questa è un’epoca che necessita di miti”; si è detto portavoce di “una sorta di lirismo in lotta, di un lirismo violento”; disprezza la “poesia del quotidiano e quella che esiste per rivendicare qualcosa”, come “l’anti-poesia, cioè la poesia ‘che non sembra poesia’”. Nei suoi versi, la foga di Melville e di Lord Byron si mescola al rock, l’epica dilagante di Saint-John Perse dialoga con sonorità elettriche contemporanee. Il mito di Tom Buron è Velimir Chlebnikov, uno dei più prodigiosi inventori di linguaggio del secolo: non credo sia sul comodino di molti scrittori di oggi, in verità, spettri viventi. Come Chlebnikov, anche Tom Buron veste ampie pellicce, indossa uno sguardo spiritato, confida nel neologismo.  Tra i romanzi, preferisce Sotto il vulcano, l’epopea alcolica di Malcolm Lowry, ambientata a Cuernavaca, Messico. Proprio il Messico è uno dei luoghi-totem di Tom Buron – lo fu anche per Antonin Artaud, che laggiù tentava di ritrovare l’origine magica, glossolalica della parola poetica.  Nonostante il gargantuesco, granguignolesco entusiasmo – che è già oro in un’era di palestrati e di depressi – Tom Buron non è un poseur. Ha vissuto a lungo in Ucraina, dove ha terminato Les Cinquantièmes hurlants – ha combattuto, ha sofferto, ma ne sussurra, senza i laboriosi sofismi del retore e del neofita. Esige il rischio, proclama l’avventura come sale per la letteratura, eppure non gioca all’esteta armato. Resta, nonostante tutto, un ragazzo sfuggente – più René Char che André Malraux, per intenderci. Non ama i proclami, sa cos’è l’ispirazione e cosa significhi perdere l’ispirazione – conosce la veglia, la ferita in ambone, l’acquasantiera degli insonni.  Les Cinquantièmes hurlants, a una prima lettura, ha due grandi precedenti: Le bateau ivre di Rimbaud e The Bridge, il poema di Hart Crane, il poeta che ha scelto di morire gettandosi nel golfo del Messico. In ogni caso, è l’elemento marino a dominare il libro di Tom Buron, il disorientamento, la rottura di tutti gli ormeggi del linguaggio – un Antartide tutto attorno, che è poi pari a Minotauro, e venti che scuoiano la pelle fino al sillabario.  Non è stato difficile raggiungerlo – la generosità è parte dell’estro di un poeta; gli altri, quelli che non si imbarcano nelle imprese disperate, continuino a fare le vittime.  Perché la poesia in questo tempo impoetico?  Non è forse questa l’unica arte della nostra epoca a non essere diventata industria? Quali sono i tuoi maestri, i poeti che ritieni decisivi alla tua crescita? Citami una poesia-amuleto, un libro-totem, un lotto di versi che tieni sempre con te.  Velimir Chlebnikov, Conrad Aiken, Roger Gilbert-Lecomte, Hart Crane, T.S. Eliot e Pound, Dylan Thomas, Matthieu Messagier, Saint-John Perse, Cendrars, Majakovskij sono molto importanti per me: il mio amore per loro dura dall’adolescenza. Potrei citare altri poeti dell’Era d’argento russa come Marina Cvetaeva e Anna Achmatova. A questi dovrei aggiungere il sommo Derek Walcott, o ancora Basil Bunting e John Ashbery. Dei francofoni, devo citare Arthur Cravan, un autentico selvaggio, un autentico modello di vita e di energia vivente, ma anche Stanislav Rodanski e Marcel Moureau. Non amo distinguere tra poeti e romanzieri, dunque voglio dirti anche Nikos Kazantzakis, Ernesto Sábato, William Faulkner, Dostoevskij, Melville, Bolaño, Thomas Wolfe (non ho detto Tom…), Joyce… Cormac McCarthy e la sua cavalcata nell’orrore, quel tremebondo poema in prosa faulkneriana che è Meridiano di sangue… A noi più prossimo, devo citare Laszlo Krasznahorkai, uno dei più grandi romanzieri viventi. Amo la lingua francese di Pierre Michon, quella di Albert Cohen, di Drieu e di Morand, di Blondin – amo le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. L’opera che apprezzo di più è quella di Malcolm Lowry. Potremmo dire del desiderio contro il senso di colpa, dell’ossessione per il paradiso perduto, della cerca e della devastazione nell’alcol, di una sublime vulnerabilità e di uno stile che combatte tutti gli stili, ma ciò che ricordo meglio di Lowry è la sua presenza, ovunque, nell’opera, è il rapporto conflittuale con la scrittura, frammentario e doloroso, questo rapporto con l’opera in corso, in corsa, che commenta costantemente e da cui dipende la salvezza dell’uomo, senza condizioni.  Detto questo, è difficile scegliere l’unico libro, il libro-totemico, come dici tu, ma sono disposto al gioco: se dovessi andare in qualche luogo per sei mesi e potessi portare con me un solo libro, beh, allora opterei per le opere degli ultimi anni di vita di Velimir Chlebnikov. Amo la dismisura e le imprese eccessive, la chiave di una soluzione che deve essere ancora trovata, e lui ha tentato di trovarla più di chiunque altro: credo, come Chlebnikov, che il poeta debba essere anche un pensatore – Chlebnikov è il grande poeta dell’impossibile. D’altronde, un grande amore, quando tentiamo di spiegarlo, ci sfugge sempre, non è forse vero? Mi viene in mente quell’aneddoto in cui Caitlin racconta che il marito, Dylan Thomas, di fronte agli amici, cercando di spiegare alcuni suoi versi, si gettò a terra, d’improvviso, rotolandosi sul tappeto, grattandosi come una bestia… Che rapporto esiste tra ‘vita’ e ‘poesia’? O meglio: qual è la tua ‘poetica’ dell’esistere? Mi dirai banale: l’incontro con Rimbaud, a dodici anni, mi ha fatto credere, allora e per sempre, che l’avventura sia legata alla scrittura poetica. Il mio desiderio di scrivere si è sempre manifestato con il gusto per l’avventura e per il rischio: credo, come Hemingway, che bisogna far scontrare il corpo e la mente con la realtà, credo nella viva carne, nel sangue che ribolle. Non riesco a distinguere una dimensione dall’altra, è una sorta di rivelazione ontologica. Già a quel tempo vedevo il poeta come una creatura che scrive e agisce al medesimo tempo, una canaglia capace nel metodo, un essere che oscilla tra ascetismo e latitanza. Byroniani, rimbaudiani, insomma. Credo che occorra andare e ‘vedere’, sperimentare con i nervi e con le ossa. Ci sono cose che non si possono trasmettere né ripetere se non dopo averle vissute, se non dopo l’avventura, quella autentica. L’avventura, come la poesia, è una forma di eccedenza, si tratta di dimensioni che comunicano. Insomma, è una visione un po’ nietzschiana del poeta. La vita non basta – la letteratura neppure. Il mio caro Zorba direbbe: “Vivere, sai cosa significa? Slacciare le cinture e attaccar briga”.  Come nasce “Les cinquantièmes hurlants”, da quale ispirazione? Mi pare che il linguaggio che usi sia diametralmente opposto al minimalismo, alla poesia ‘orizzontale’ in voga in Francia come in Italia. Da dove arriva la tua lingua? Non so dirti da dove arrivi questa lingua: passo il tempo a cercarla, a tentarla. Certamente, deriva in gran parte, oltre che dal mio inesauribile interesse verso la lingua francese, da una preoccupazione per il ritmo, la melodia, l’armonia.  Les cinquantièmes hurlants è un poema che ho portato dentro di me per sei anni. Detto questo, l’ho lavorato a lungo tra il 2020 e il 2022. Volevo terminarlo entro il mio trentesimo compleanno, come mi è riuscito, per poi smettere tutto, certo che sia la migliore delle cose che abbia tentato di fare finora. Due anni dopo, ecco che appare. È un poema che nasce dal desiderio di spiazzare i temi che mi sono cari, di spostarli dalla città all’oceano, lo spazio di ogni rischio. Nasce anche dalla prospettiva di una traversata, una traversata mutila. Tuttavia, ho dato inizio a un movimento, lungo i porti d’Europa, raccogliendo appunti, cercando di dar loro un corpo; sono andato in giro per un anno e mezzo circa, prima di mettere tutto da parte perché non riuscivo a giungere a ciò che volevo da quella distanza. Quando a Est è scoppiata la guerra, sono partito. Prima presso la frontiera polacca, poi in Ucraina, verso il fronte meridionale e orientale, a Charkiv, Zaporižžja, Cherson, Mykolaiv, Pokrovsk… Prima nei ranghi umanitari, la logistica, poi, di recente, dal 2024, nell’esercito. Di questi tre anni, un anno e mezzo è stato consacrato alla guerra. Se ciò non è direttamente ravvisabile nel libro, ciò che ho vissuto lo ha inevitabilmente intriso: di ritorno da una missione, a Ochota, un quartiere di Varsavia dove ho vissuto per alcuni mesi, sono riuscito a sedermi al tavolo, a riprendere il lavoro e a completarlo, nell’autunno del 2022. Finalmente, avevo trovato un’architettura per i miei versi, una lingua per la storia del mio navigatore, un ritmo oceanico e cavalleresco da imprimere a quella traversata, un ordine e una disciplina per tale furia. Poi ho nascosto il manoscritto, ho fatto la valigia, sono ripartito per l’Ucraina.  Riguardo al termine che usi, la poesia ‘orizzontale’: Les cinquantièmes hurlants è l’esatto opposto, è un poema della verticalità. Questa sorta di ‘orizzontalità’ permanente di cui dici, non riguarda soltanto la Francia, ma il mondo occidentale in sé – non riguarda soltanto l’arte letteraria, ma molto di più. Non me ne occupo, ma se vuoi sapere cosa ne penso, dirò soltanto che trovo la ‘produzione’ attuale per lo più deplorevole, perché va di pari passo con il disprezzo per la verticalità, la ricerca incessante, l’opera. Ma non ho tempo per reagire, mi preoccupo di lavorare, mi occupa l’azione. Tutto cambierà in fretta, sono fiducioso.  La poesia è sempre eversiva, sempre ha in sé un linguaggio anarcoide, contro la necrosi linguistica odierna: è davvero così? Quali sono i confini tra la poesia autentica e la falsa poesia, il ‘poetume’ (pattume) di cui è intriso il nostro tempo? Insomma: dove ci porta la poesia?   Mi avventuro di rado nei meandri della teoria letteraria, ma penso che la poesia non abbia nulla a che fare con una forma di ‘comunicazione’. Meglio: poesia è comunicazione suprema. Mi pare che la poesia sia in un certo modo estranea a queste considerazioni. È terra d’invenzione, superamento del linguaggio, significato e pensiero rinnovati. Credo che un poeta autentico debba necessariamente condurre il lettore in una lingua estranea. Nel passato – ma accade ancora oggi – venivo accusato di essere un poeta per poeti. È un modo per squalificarti, per evitare l’ingaggio col pensiero… Allo stesso tempo, credo che in letteratura non si possa che fallire. Questo è ciò che mi spinge a continuare, che mi fa desiderare di andare oltre. Sbagliamo e sbagliamo ancora e torniamo alla battaglia: “Ancora una volta sulla breccia, amici cari, ancora una volta”. Non so se sarò mai in grado di cogliere il segno. Siamo sempre opere incompiute, incomplete. E quando ti concentri sul poema, come nel mio caso, una gara di fondo composta da quindici round, devi stare lì, devi essere sempre vigile riguardo ai tuoi errori, devi arrivare fino alla fine. Penso che il poema sia la forma più completa e sofisticata: non ha nulla a che vedere, mi si perdoni, con una bellissima lirica di quattro strofe. Esiste a tuo avviso un rapporto – di complicità o di avversità – tra ‘poesia’ e ‘politica’? In Les cinquantièmes hurlants, pur in forma remota, c’è la presenza della guerra e delle armi nucleari, riecheggia in forma escatologica ciò che stiamo vivendo oggi. Comprendo dunque la ragione di questa domanda. Detto questo, nonostante il mio interesse per la geopolitica e la storia, non mi addentro in modo frontale in questo tema, ho orrore per quelli che si definiscono “scrittori impegnati”. Trovo che tale atteggiamento manchi di classe e corrompa il lavoro lirico. I poeti non servono alcuna causa. Bob Dylan, che ha dovuto difendersi da molte tentazioni in questo senso, diceva, fin da giovanissimo, “Non esiste il bianco e il nero… Esistono solo l’alto e il basso… E io cerco di andare in alto senza pensare a cose triviali come la politica”. Tornare alla verticalità di cui dicevamo prima: ecco la mia risposta.  Hai viaggiato tanto. Quale viaggio e quale incontro ti hanno formato? È vero. Ho viaggiato in Africa, nelle Americhe, in Asia, poi ho deciso di concentrarmi sul nostro continente e ho girato l’Europa in autostop, con l’autobus, sui treni, come quando ero ragazzo. Mi sento uno scrittore europeo che si esprime in lingua francese e proviene da Omero, Dante, Blake, Nietzsche e Rimbaud. Da giovane alternavo lavori part-time, scrittura e lunghi viaggi con pochi mezzi per il continente.  Tre anni fa avrei risposto a questa domanda in modo diverso. Avrei detto che il Messico mi ha cambiato profondamente. È stato un viaggio che ho scelto nel momento giusto e in cui – cosa rara – tutto è andato per il verso giusto. Potrei parlare dell’Africa, in particolare del Senegal. Tuttavia, è l’Ucraina che occupa ormai un posto enorme nella mia vita. Ciò che ho condiviso lì con alcuni esseri umani, non lo vivrò con nessun altro. Ciò che ho vissuto con certi amici, nel lavoro umanitario come nell’esercito, non sarò mai in grado di raccontarlo come si deve – sono racconti che infine mettono a disagio chi li ascolta, al ritorno, quindi, semplicemente, smetto di parlarne, anche alle persone a me prossime. Almeno, questo vale per me: ne parlo poco, racconto poco, non condivido quasi nulla, ne scrivo, per me solo, però. Penso che tutto questo troverà, col tempo, un suo equilibrio, ma è certo che gli ultimi tre anni mi hanno invaso, hanno mutato in profondità l’uomo che ero.  E adesso… cosa fai? Ho ancora qualche lettura prima dell’estate. Intanto, a Parigi, attorno a una antologia su jazz e poesia che ho curato insieme allo scrittore di jazz Franck Médioni, s’intitola Le nom du son. È la prima antologia in francese su questo tema. Riunisce un centinaio di autori, dunque un centinaio di testi scritti tra il 1917 e il 2024. Leggerò una selezione di testi che comprende poesie di Mina Loy, Michel Bulteau e Bob Kaufman, accompagnato da un musicista, Antoine Berjeaut. Porterò Les cinquantièmes hurlants nel sud della Francia, a Sète, poi a un festival parigino, con un adattamento musicale creato insieme a Fred Aubin dei “La Maison Tellier”, un mio amico trombettista. Abbiamo alcune date da qui a settembre. Da poco, ho ricominciato a scrivere. Come dicevo, dopo aver finito Les cinquantièmes hurlants, alla fine del 2022, ho pensato di smettere con la scrittura. Il silenzio è durato due anni.  ** Da Les cinquantièmes hurlants Alimentiamo questa caduta mercuriale, la magnolia in un concerto di vertigini, una volta soltanto – sole di rame –  tra i flutti di un mandolino catartico ci ha reso vulnerabili. L’odore della meccanica i ronfi dell’Olandese Volante ci lordavano i sandali: “Strano, il babbuino, puah… sublime assillo” Sento lo stesso, di lontano, lo stesso sciaguattare di chiatta, un’ambiguità ontologica e le corde che vibrano lacerando straniere plaghe, strani pelasgi.  Perché occorre dirlo abbiamo dormito poco in quest’ultimo secolo: le radici dissennate divennero torce e ancora recludono lo spasmo delle montagne russe tossicologiche. Non ho detto troppi addio perché sono marchiato dai sigilli, ma, fiacchi di guerra, hanno assolto gli idoli cavi, la vite, un amuleto occulto, l’esca e l’acciarino nell’avventura dello squallore, dello squarcio: tutto spira, l’alba si perde in caricature carminio. La parata d’oro impone trasalimenti i colori si rinnovano come folgorazioni dall’acquarello che popoliamo tra il bronzo e il piombo, convergendo instancabili verso queste tessere del domino che cadono una dopo l’altra nel culto del ricordo.  Così, così, mai l’oblio fu incontrato ma questo vivere se non da mutilati, seguaci di frammenti eremitici, di un deliberato disordine, lo specchio semovente, l’arena regina il combattimento intangibile: Mare, dunque e lì, Mare, e là, la plenitudine del Sud – il pieno Sud.  Tom Buron L'articolo Tra ascetismo e latitanza, contro gli scrittori “impegnati”, verso l’impossibile. Dialogo con Tom Buron proviene da Pangea.
May 16, 2025 / Pangea
“Un cuore apofatico”. Il poema-oceano di Tom Buron, asceta & corsaro
In inglese si chiamano Furious Fifties – venti che azzannano, raffiche capodoglio. Stanno al 50° parallelo dell’emisfero meridionale; apolidi all’estremo confine della Patagonia, alle calcagna della Nuova Zelanda, sparpagliati a poche braccia da Antartide. Dicono di possenti depressioni, dicono dello scontro – letale, vulcanico – tra le vampe degli oceani e il gelo della divinità antartica.  Dovremmo raccontare i perplessi progressi della civiltà stando segugi dei venti, dissezionandone il ventre. Una storia occidentale per raffiche. Gli inglesi lo sanno. Durante la leggendaria “Age of Sail”, tra il XVI e il XIX secolo – era di conquiste e di razzie, di esplorazioni e di guerre per mare, di vascelli fantasma e di ammutinati – i “Roaring Forties” (i venti al 40° parallelo sud) e i “Furious Fifties” erano i Castore & Polluce dei velieri e dei velisti, i gemelli terribili. Incoccare il giusto vento permetteva di penetrare nel Pacifico o di fendere l’Indiano a velocità doppia – altrimenti: rotta, disarmo, crollo, vagabondaggio da agnelli sacrificali presso lande inumane.  Les cinquantièmes hurlants è la traduzione in francese di “Furious Fifties”, i “Cinquanta urlanti”. L’esergo avvampa: “Al di sotto del 40° parallelo sud non c’è legge. Sotto il 50° non c’è Dio”. La quarta di copertina parla di “periglioso vagabondaggio per mari”, di “elogio dell’avventura e del rischio”, di “spedizione geografica e metafisica”, di “irragionevolezza”. Tutte cose che nell’epoca dei sentimenti tenui, delle sentenze algoritmiche, della letteratura illetterata, ombelicale, sociologica, sociopatica, patetica, affascinano per inattesa inattualità.  Les cinquantièmes hurlants – stampa Gallimard – è un poema come non se ne vedeva da tempo: audace fino all’ingenuità, ingordo, di scaltrita innocenza. Al primo impatto, l’autore pare mescolare il Rimbaud del Battello ebbro alle cronache di viaggio di James Cook, nella convinzione – australe, belluina e assurda; assordante – che l’uomo, in fondo, sia sempre lo stesso, brutale impasto d’argilla e d’angelo, proteso a belare verso le stelle, indifferenti al suo ardire. In esergo, Hermann Melville – Moby Dick, la mappa alchemica di noi industriosi perduti – e Velimir Chlebnikov, il folle poeta russo idolatrato da Ripellino. L’autore ama le parole desuete, vara improbabili neologismi, gioca a sconfinare dal linguaggio. “Perché dovrei essere ‘compreso’?”, ha detto l’autore-pioniere in un’intervista, un paio di anni fa,  > “E poi, chi dovrebbe ‘comprendermi’? Per quel che mi riguarda, la poesia si > colloca in una dimensione completamente diversa rispetto al linguaggio usato > per ‘comunicare’ – ne è la suprema forma, il supremo abuso. Matthieu Messagier > diceva che ‘la vera poesia è autentica delinquenza’”.  Tom Buron – l’autore – si atteggia a ribelle; spesso indossa pellicce troppo grandi, improbabili; ha gli occhi assatanati, la fronte onniveggente; legge le poesie appeso al microfono, pare Nick Cave. Si è costruito una sua pericolosità, forse per consegnare ai versi un sovrappiù di rischio. Cita Ernst Jünger e René Daumal, ha lavorato con musicisti jazz, legge Hart Crane e Dylan Thomas, le stelle polari del suo ondivago verseggiare. Si atteggia, teneramente, a duro: > “Sono legato a poeti la cui esistenza è all’altezza dell’opera – preferisco i > poeti ‘compiuti’. Quelli che si lanciano con tutto il cuore, che dissipano le > forze; gli avventurieri, questi antieroi della scrittura e del bel gesto; una > specie di incrocio tra l’autore metodico e il torero, l’asceta e il corsaro. > Insomma, si tratta di lottare e di essere, insieme a Conrad, ‘fedeli > all’incubo che ci ha scelti’”. Pratica la boxe – “uno sport pieno di eleganza, di sacralità… prima della scrittura, è la boxe ad avermi dato una disciplina, una solida struttura dopo un’adolescenza eccessiva, diciamo così” –, gli piace dire di aver vissuto a Praga, a Napoli, a Dakar e a Città del Messico; dallo scoppio della guerra in Ucraina lo si è visto, di tanto in tanto, a Kiev, a Zaporižžja, a Cherson. È giovane: nato nel 1992, Tom Buron ha già pubblicato – Marquis Minuit è del 2021, Le chambre et le barillet è del 2023; ha esordito ragazzo, nel 2016 con una serie di “Blues del XXI secolo” –, si è già conquistato le proprietà del pioniere e del ribelle. Il libro edito da Gallimard – in contrasto con la poesia francofona vigente, spesso di risulta, spesso un sussulto minimal, grave di grigi aforismi, di tediosi borborigmi – dovrebbe essere quello della consacrazione. Vista l’indole e il gergo, speriamo sia il libro della dissolutezza e della dissacrazione: una zaffata oceanica, un galeone conficcato nei muffiti salotti della poesia odierna. E poi… al largo, a bordeggiare l’ignoto, a predare lo sconosciuto – ogni libro sia dunque un addio.  ** Da “Les cinquantièmes hurlants” I Già immagino la traversata, la trenodia, giusto è il momento della nostra rotta sopra i fari del mondo; invento una virata di muso per deviare la nave che scroscia su eleganti cariaggi e sbava arguzie d’olio e di rame mentre il litorale è nulla, ormai, e il mare rende tellurico il suo decotto, le acque,  le flotte, una processione di palchi tra nappe di nebbia.  Ho fatto il ritratto al regno: non tornerò, neppure per tutto l’oro del mondo nei lombi del carcere, nel dire dei compagni, nel vasto circo di quegli anni cruciali.  Stasera il cielo è incerato lampi nelle giunture del cratere natio, questa sera, ritornano elettrici i morti contro di noi.  Così, alla conquista della risacca, inebrio il ritmo nel liquore liquame da questo spiraglio, la scoperta di una sferragliante consonanza – luce: luce che agonizza come il mozzicone di una cicca il komboloi tra il pollice e l’indice mi rammenta alcune fate obliate dalla terra che hanno abitato con noi con i loro furtivi passi omettendo le mappe, le loro sinuose costole – poi ricordo i cembali la febbre dei codardi in evasione ancora il ricordo dei cembali – entriamo nella caccia: senza audacia entrando nell’offerta della prossima isola.  Questa sera, setacciamo il cielo per trovare un poco di immobilità finché ci sovviene la litania quella litania che dice: devi dimenticare ben poche cose e poi tieniti a distanza dalla febbre e dalla brace.  “Trasbordi, tragici tragitti – infine il blu rinomina la lontananza delle strade a tre golfi dalla commemorazione: Mai più questo blu, mai, mai più…” per lasciare infine un quinto del cielo alla macabra danza dello zefiro.  Intanto, ho messo a morte le mie prime intenzioni, conteggio le crisi, marcio sulle liti tra segreti estuari. Tempo  fa ero un cercatore, è vero.  Ho negoziato con un negromante per farmi strada tra questi sentimenti medioevali: la buona sorte in una  tasca, quella cattiva nell’altra.  Ma oggi la notte fugge e io vado mendicando tra fratelli plurali, senza sosta.  La nave mi ha reso cieco alle effemeridi della vendetta: lo giuro, ho lasciato nei sobborghi gli appetiti del mio abbaiare. L’ho fatto per apprendere ogni giorno l’arte della resurrezione: ecco cosa genera un cuore apofatico, un corpo che s’inginocchia davanti a ogni mistero del mondo libero. Ma so ruggire – pirata impenitente e intempestivo – ruggisce la pira  dei miei primevi pensieri. Sull’altra rotta nelle altre notti, cacofonia di desideri che rinnova la bella benedizione del dolore, canceroso, arcigno, provato nell’abitudine di quelle albe quando ci si imbarca per terra  senza fuga, quando imbocchiamo la via verso tratturi di fango che i nostri avi non hanno avuto cura di nominare. Quindi: vagabondaggio di onde il coraggio del faro. Le porte si spalancano e ricomincia la commedia la disgrazia, i nuovi consolidati errori.  So i goffi ritornelli a ramponi sul viso dei fumatori, quel po’ di eternità che fende gli indiani segni prima del santuario del panico quell’ambasciata sull’ascia della sera irredimibile, in cui dicevo, andremo a distillare il nostro sangue da quello altrui ma non ho data di nascita nessun genitore terreno: soltanto qualche moneta in tasca – lucido la fodera del tuono a ogni ora. Aratura di scafi, armi –  incomparabile accordo tra estasi e crollo, questa è la mia parte.  Così, ogni giorno sondiamo l’oracolo dei mari, ogni giorno partiamo da gorghi carnevaleschi per incrociare le spade ed è tutto un basculare tra maniaci e manieri in questi nuovi giardini di Eden. Che vomitino il vino iniquo il vento maligno dei civilizzati nei porti dell’Est, posti dalle vaste palpebre; pallidi isolotti, palme, spuma di spezie, involuti incanti di catene – chiara è la lettera: ciò che è costruito dev’essere distrutto e ogni giorno rinnovato, alla partenza –  Tom Buron L'articolo “Un cuore apofatico”. Il poema-oceano di Tom Buron, asceta & corsaro proviene da Pangea.
April 22, 2025 / Pangea