Nel dire frammento, in Eraclito, s’intende: frantume di vetro, punta di freccia,
dardo al veleno – cosa che ferisce; che mutila.
Per questo Eraclito è il pensatore più audace del Novecento, il secolo mutilato,
il secolo che ha fatto della mutilazione il proprio carisma. La bomba, il
bombardare, mutezza nel mutilare.
(Mutilata Nike, mutilato Bacon, anime mutilate, incompiutezza, e dare a questa
falce il nome primaverile)
A differenza, ad esempio, della ferita, che è sempre uno spiraglio, è sempre una
finestra: pensare all’icona del Crocefisso, ad esempio. La mutilazione non si
risana, di quel grido non risuona benedizione da risorto. Il ferito accoglie; la
mutilazione irrompe in orrore.
Eppure: dal mutilato tendere all’intero, all’uno che non è più. Mutilato:
simbolo. Spezzare per ricomporre.
Secondo Giorgio Colli, Eraclito è il “più duro” perché “enuncia i suoi enigmi
senza scioglierli”. All’agonismo dell’enigma – vince chi sa risolverlo, cioè:
vanificarlo – segue l’agonia. Enigma è sfinge che uccide. Tutti sotto egida
dell’enigma, sotto minaccia.
In realtà: sciogliere l’enigma, ovvero: spaccare le finestre.
Non è un caso che il lavoro definitivo di Colli sulla Sapienza greca, il cui
culmine è Eraclito, sia incompiuto, mutilato. Eraclito mutila. Scavo dal collage
posto in Appendice all’Eraclito edito da Adelphi nel 1980:
> “L’esperienza contemporanea contrappone il principio di vita al principio
> della morte. Ma per la sapienza antica la morte è soltanto l’ombra lunga e
> vacillante proiettata dalla vita, esprime la finitezza che sta nel cuore
> dell’immediato. Ciò significa l’allusione di Eraclito che Dioniso e Ade sono
> lo stesso dio. Freud contro Eraclito: chi ‘sa’ di più?”
Eraclito – che per mutilata natura si offre al frainteso: un cranio può essere
preso per cornucopia o brocca – impone i temi della contemporaneità:
divenire, polemos padre di tutte le cose, coincidenza degli opposti, esistere da
sonnambuli, cibarsi di illusioni e di superstizioni, confondere il dio con
l’idolo, la forma con l’immagine, la figura con lo sfigurato. Soprattutto, il
potere del logos. Le cose esistono perché acquartierate in un nome; ma di quel
nome, di cui impunemente ci appropriamo, sappiamo la superfice. Siamo noi, i
creati, il cibo del linguaggio, che continuamente ci mastica e rigurgita. Da
qui: ordalia dell’oracolo.
Secondo la storia tramandata da Diogene Laerzio, Eraclito rifiuta di dettare le
leggi agli abitanti di Efeso: preferisce ritrarsi all’ombra del tempio di
Artemide – la dea che presiede l’arco, la caccia, la luna, una bene armata
verginità – giocando a dadi con i bambini, per poi volgersi al bosco, dimentico
del linguaggio, rientrando nel ferino. Volta le spalle all’ordine della polis,
il pensatore, predilige il caos, l’innocenza violenta e inviolata, il lallare
dei bimbi e il detto sacro, a sobillare umana lingua.
Da qui, eterna lotta tra dire e comprendere: cosa può la poesia se non mutilarsi
mentre ascende – o spezzarsi in frammenti dopo il crollo?
Le svariate traduzioni di Eraclito in italiano – una leccornia per i
classicisti, immagino, un rebus – ne dicono l’onnipotenza. Si
dice oscuro intendendo – come Hölderlin – una chiarezza possibile soltanto a chi
ha occhio d’aquila – a chi sa fissare il sole, “grande quanto il piede di un
uomo”. Al di là di Colli, preferisco la versione di Angelo Tonelli
(Eraclito, Dell’origine, Feltrinelli, 2005) e quella di Luciano Parinetto
(Eraclito, I frammenti, Marcos y Marcos, 1982), di particolare bellezza lirica,
spiazzante per sprezzatura.
Il poeta più eracliteo del secolo è stato René Char: la Sorgue la sua Efeso, la
sua Delfi. Le mutilazioni di Char, però, sono greto pieno di latte, costato che,
volto al contrario, disincastrato, diventa culla.
> “Chi crede l’enigma rinnovabile, lo diventa. Scalando liberamente l’erosione
> spalancata, ora luminosa, ora buia, sapere senza fondare sarà la sua legge.
> Legge che osserverà ma che avrà ragione di lui; fondazione di cui non vorrà
> sapere ma che lui stesso porrà in opera.
>
> Si deve tornare senza posa all’erosione. Il dolore contro la perfezione.
>
> (da In una casa murata a secco, in: R. Char, Ritorno Supramonte e altre
> poesie, a cura di Vittorio Sereni, Mondadori, 1974; 2002)
Il poeta parla di erosione: mutilazione operata goccia a goccia. Opera d’acqua,
dunque – in contrasto all’opera del fuoco di Eraclito. Il buco in vece della
cenere. Erosione del verbo, che del perfetto è il bandito, l’effetto. Una sete
anima il poeta – ho sete, latra il Nazareno.
Eraclito è l’opposto di ermetico: verbo solare, il suo – come l’angelologia
dello Pseudo-Dionigi. Per questo: dubitare dei poeti complici della complicanza.
Se appare oscuro è per difetto di nostra vista – anzi: di slancio, di elan, di
audacia nell’ascolto. Char scrive l’introduzione alle traduzioni di Eraclito
dell’amico Yves Battistini (Cahiers d’art, 1948, con quindici acqueforti di
Georges Braque; ora in: Trois présocratiques, Gallimard, 1988; qui tradotta in
appendice); nel 1966, a Le Thor, invita Martin Heidegger a parlare di Eraclito.
Il frammento è ciò che resta dell’unico – voi siete le parti di un unico corpo,
dice San Paolo. Di quel corpo di cui non sappiamo più vedere il volto, il
sorriso.
D’altro lato, nel 1953 Gallimard pubblica un insieme di scritti di Simone Weil
come La source grecque, nella “Collection Espoir” diretta da Albert Camus. In
particolare, sono raccolti alcuni tra i testi più noti di Simone Weil: la
riflessione su Antigone e L’Iliade, ou le poème de la force. In appendice, le
sue nude versioni dai “Frammenti di Eraclito”, di cui qui – tra sussurro e
tradimento – si offrono alcuni brani. Simone Weil tentava di compiere una
sintesi immedicabile tra pensiero greco, intuizione cristiana, sapienza indiana.
Più che un enciclopedista di aforismi, l’Eraclito di Simone Weil pare il
traditore del Verbo, il gran bugiardo che per gioco svela il vero – e ci scaglia
il dio/leone addosso.
Cosa trarre da questi incroci? Spoliazione immediata di sé – entrare, da
mutilati, nel canto, e che questa mano, senza medicamento alcuno, sia il nostro
sole.
**
Fragments d’Héraclite
1
Quanto al logos, questo logos eternamente reale, gli uomini non ne hanno alcuna
comprensione finché non ne parlano e non cominciano a parlarlo. Benché tutte le
cose accadano conformi al logos, potremmo pensare che non ne abbiano fatto
esperienza. Eppure, fanno esperienza di parole e fatti analoghi a quelli che
descrivo e distinguono ogni cosa secondo la sua natura, spiegando com’è. Gli
uomini non sanno cosa fanno da svegli come non sanno più cosa hanno fatto [in
sogno] durante il sonno.
*
2
…dunque non resta che avvinghiarsi al comune. Perché il comune unisce. Ma quando
il logos è comune agli esseri viventi, la maggior parte se ne appropria nel
pensare, come fosse cosa sua.
*
3
Il sole: grande quanto il piede di un uomo.
*
4
Se la felicità risiede nei piaceri del corpo, dovremmo credere che i buoi siano
felici quando hanno fieno da masticare.
*
5
Invano, uomini lordi di sangue si purificano; come se qualcuno piombato nel
fango si lavasse con il fango. Se vedessimo un uomo agire così, gli daremmo del
pazzo. E pregano immagini di dèi, come si chiacchiera in una casa. Non sanno
cosa sia un eroe né un dio.
*
6
Il sole è nuovo ogni giorno.
*
7
Se tutti gli esseri diventassero fumo, le narici li distinguerebbero.
*
8
Ciò che si oppone coopera, e da ciò che contrasta procede la più bella armonia,
è la lotta a generare tutte le cose.
*
9
Un asino sceglie il cardo più che l’oro.
*
10
Tutte le cose sono e non sono unite, convergono e contrastano, consuonano e sono
dissonanti; da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose.
*
12
Per chi entra negli stessi fiumi, altra e continuamente altra è l’acqua che
scorre; e le anime dal liquido si voltano ai vapori (caldi e secchi)
*
13
Lussuria nella lordura.
*
16
Chiarità che mai passa, come sfuggirle?
*
18
Se non lo si spera non si troverà mai l’insperabile; non lo si può cercare e non
c’è modo di volgersi a lui.
*
21
Tutto ciò che vediamo da svegli è morto, ciò che vediamo dormienti è sonno.
*
23
Se non esistesse il crimine non saprebbero il nome Giustizia.
*
25
Al grande male la più larga parte.
*
26
Di notte un uomo tocca la luce, morto a se stesso eppure vivo. Dormiente, tocca
ciò che è morto, la sua vista è spenta. Desto, tocca il dormiente.
*
27
Ciò che attende i morti è diverso da ciò che sperano, da ciò che pensano.
*
30
Questo mondo (ovvero: kosmos, ordine del mondo) è lo stesso per tutti, nessun
dio e nessun uomo l’ha creato, ma è da sempre e sempre sarà, eterno fuoco
vivente, acceso secondo misura, spento secondo misura.
*
32
L’uno, quest’unico sapiente, che vuole e non vuole essere nominato Zeus.
*
40
La conoscenza non insegna a diventare sapienti.
*
44
Il popolo difenda la legge come una muraglia.
*
45
Non puoi tracciare limiti all’anima, nemmeno percorrendo tutta la via, tanto è
profondo il suo logos.
*
46
Del pensiero disse: è il male sacro.
*
48
Il nome della freccia è vita, ma opera la morte.
*
49
Entriamo e non entriamo, siamo e non siamo negli stessi fiumi.
*
50
Chi non ha prestato ascolto a me ma al logos concorda sulla sapienza: uno è
tutto.
*
51
Non comprendono come l’opposto si accordi in una identità. L’armonia è
cambiamento di fronte, come l’arco nella lira.
*
53
Guerra è madre di tutte le cose, di tutte le cose regina, e fa apparire alcuni
come dèi altri come uomini, e rende alcuni liberi e altri fa schiavi.
*
54
Invisibile armonia è più dell’armonia manifesta.
*
60
Sentiero che sale o che scende è uno, è lo stesso.
*
62
Immortali mortali, mortali immortali: sperimentano morte, muoiono gli uni nella
vita degli altri.
*
63
[Resurrezione della carne]. Si levano davanti all’essere che è là e ne diventano
i guardiani, vegliano sui vivi e sui cadaveri.
*
64
Il fulmine governa il tutto. Il fulmine è fuoco eterno, fuoco sapiente e autore
dell’amministrazione del mondo.
***
Su Eraclito
Pare impossibile conferire a una filosofia il volto netto, vittorioso di un uomo
e, viceversa, adattare i tratti precisi di un essere al carattere, pur sovrano,
di un’idea. Ciò che intravediamo: la cosa che ascende, assalti di passaggio.
L’anima si fa periodicamente affascinare da questo alato montanaro, il filosofo
che si propone di farle raggiungere una guglia più trasparente, per conquistare
la quale l’anima si presume mondana. Ma poiché le leggi proposte sono, almeno in
parte, smentite dall’opposto, dall’esperienza e dalla stanchezza – una funzione
universale –, l’obbiettivo sperato è, infine, una delusione, una remissione, un
rimettersi in gioco della coscienza. La finestra così clamorosamente aperta sul
prossimo era invero aperta solo all’interno, nel più labirintico interiore. Fu
così fino ad Eraclito. È così che il mondo continua per coloro che ignorano
l’Efesino.
Il nostro gusto, la nostra voglia, le nostre molteplici soddisfazioni sono tali
che alcune particelle di sofismo possono stringerci, in un lampo; e toccare la
nostra fame. Ma presto la verità riprende il suo posto come guida dell’assoluto
e noi ricominciamo a seguirla, avviluppati dall’uragano e dal vuoto, dal dubbio
e da una altezzosa supremazia. Tanto è ingegnosa la speranza!
Tra tutti, Eraclito è colui che, rifiutandosi di molare la prodigiosa domanda,
l’ha condotta ai gesti, all’intelligenza e alle abitudini dell’uomo senza
attenuarne il fuoco, senza interromperne la complessità né comprometterne il
mistero o opprimere la sua giovinezza.
Sapeva che la verità è nobile, che l’immagine che la rivela è la tragedia. Non
si accontentò di definire la libertà, la scoprì inestirpabile, che coinvolge la
tracotanza dei tiranni, che perde il suo sangue accrescendo le forze, al centro
del perpetuo. La sua vista da aquila solare, quella particolare sensibilità lo
hanno persuaso una volta per tutte che la sola certezza che noi possediamo sulla
realtà del domani è il pessimismo, una forma perfetta del segreto in cui ci
rifugiamo per rinfrancarci, in cui stiamo in guardia e dormiamo.
Il divenire progredisce dentro e intorno a noi. Non è subordinato alle evidenze
della natura: vi si aggiunge e agisce su di essa. Salva è l’occasione
dell’evento magico che si produce davanti ai nostri occhi. Che sconvolge e
arricchisce un ordine troppo spesso ingrato.
La percezione del fatale, la continua presenza del rischio, questa oscurità che
è come un grande remo nelle acque, mantengono l’ora in sospeso e noi tesi e
disponibili alla sua altezza.
La questione se dire il giusto o dire meglio, è irrilevante. Dicendo il giusto,
sulla punta o nella scia della freccia, la poesia si lancia immediatamente verso
le vette, perché Eraclito possiede il potere sovrano che ascende, che spezza e
muove il linguaggio, servendolo al proprio pasto, al proprio bene.
Condivide con altri la trascendenza che gli è assente. Al di là della sua
lezione, una bellezza senza tempo rimane, come il sole che matura sui bastioni
ma porta altrove il frutto dei suoi raggi. Eraclito chiude il ciclo della
modernità che, alla luce di Dioniso e della tragedia, avanza verso il canto
finale e il finale confronto. La sua marcia culmina sull’oscuro e folgorante
palco dei nostri giorni. Come un insetto effimero e appagato, fermo su un dito –
sulle nostre labbra, il suo indice dall’unghia strappata.
René Char
L'articolo “Eterno fuoco vivente”. Eraclito il pensatore Sfinge amato da Simone
Weil proviene da Pangea.
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Qualche tempo fa, sfogliando il primo numero di “niebo”, la rivista in rivolta,
ordita da Milo De Angelis. La copertina – nero su bianco – diceva “giugno 77”,
si diceva – è vero – di Omero e di Paul Celan, di Hölderlin e di Gottfried
Benn. Giancarlo Pontiggia compiva venticinque anni e in quel primo numero di
“niebo” è il poeta più rappresentato. È difficile, per chi strologa tra
fenditure di superficie, riconoscere nel poeta di allora, quello che scrive “Ah
divaricata e ora dentro/ nella pietra lupestre sotto il luno/ le labbra/ il tuo
stridere vento e strina la/ bocca”, il Pontiggia di oggi. Non è un caso se
l’esordio di questo poeta antico e dunque perennemente giovane accada nel 1998
(Con parole remote, Guanda), vent’anni dopo quelle audacie, quelle ragazzate in
versi. Eppure. Io trovo una continuità, rintraccio lo stesso discorso tra il
ragazzo del “bestiario frigido e/ inquieto”, fitto di “animaletti e bestioline”,
di “cielo e stelle”, e il poeta che oggi, nel suo libro più compiuto, ultimo, La
materia del contendere (Garzanti, 2025), fa dire a Marco Aurelio, l’imperatore
imperituro nel filosofare:
> “Quando il tempo viene meno,
> e la ragione ci implora: ‘non interpellarmi più’,
> quando
> nemmeno tu che hai governato il mondo,
> puoi più credere in quel mondo,
> onora la maestà del pensiero, sii fedele,
> sii
> come uno che accende il fuoco,
> entra nella notte
> fa ssst,
> con il dito poggiato sulla bocca”.
Quello che fa ssst, nel tempo senza tempo della poesia, è il Pontiggia ragazzo –
il Pontiggia ragazzo che lancia un assist al Pontiggia di oggi – uno apre il
fuoco, l’altro lo protegge: che ne imbiondiscano i sassi. Il Pontiggia ragazzo
parlava di un “luogo delle fate”, scriveva – in un saggetto sgargiante per
screziature grammaticali –: “Le bestioline lo azzannano, lo rodono, con la
scienza del ghigno. È una corda senza nodi. Si straripa”. Io credo che La
materia del contendere – titolo tratto da un passo di una poesia dall’attacco
fulminante: “Tutto è pieno di dèi, di vita che pullula./ Oppure: non c’è un bel
niente,/ ma un niente che pullula di sogni” – sia il punto in cui straripa la
poesia di Pontiggia. Una corda senza nodi, cioè: un serpente; una corda che si
fa parete di ghiaccio.
Pieno di fuoco, di fuchi del fuoco, questo libro, che ha per guardiani Eraclito
e Virgilio, e diversi altri numi, numerosissimi, fatti melma, però, in un
linguaggio che ha l’austerità di chi scruta gli astri, di chi fa affiorare
presagi e precordi tra i dadi. A chi piace il gioco delle risonanze (un giogo,
infine): veda, in controluce, il Pavese di “Leucò” (in Cos’è bene e cos’è male,
ad esempio), qualche latino di fronte a un’Arcadia di rovine, frantumi di
Borges, forse, i bagliori di un epigrammista, Ovidio meditato da Mandel’štam.
Tuttavia, Pontiggia non è poeta di stucchi né di ‘mestiere’: è poeta avventato
(cioè, che ha il vento dentro, non gli stagni odierni, artificiali), che si
sporge nell’avvenire, è un poeta inattuale, del tutto, che traduce i ‘segni’ in
versi.
Alcuni brani hanno il cataclisma della rivelazione; Il mondo nuovo, ad esempio:
> “Chi se li ricorda, i tempi
> di un tempo che fu, remoto, inaccessibile,
> che compare, ogni tanto, in sogno, per chi sogna,
> ancora.
> Ma nessuno più sogna, credimi,
> e questo è per voi, che venite di lontano,
> l’ostacolo più grande: resistere
> al sonno che vi invade, e annienta
> la mente che ragiona. Dai sonni, lunghi e ramosi,
> discendono i popoli dei sogni, che vi si appiccicano addosso,
> come ragne liquorose nella cella
> della mente.
> Ma nessuno più sogna, qui, dal tempo
> dei tempi che furono, e chi ci arriva, come voi, di lontano,
> si abitua a non farne,
> e così diviene simile a noi, ombra
> come tutti”
L’impeccabile equilibrio di Pontiggia è tale perché sempre sul punto del crollo,
della brocca che non regge, del futuro in pezzi. In questo libro – così pieno di
ombre, le frasche del fuoco, i suoi vessilli – il poeta s’intride nei primordi
dell’uomo, dice l’uomo prima dell’uomo (“Qualcuno scende dal Pleistocene,/
appena dopo la grande glaciazione,/ dice/ che sta per giungere uno,/ un uomo, un
mortale/ che aspira all’ordine dei cieli,/ cammina come se volasse…”), per
scongiurarne l’incendio, forse, per un soprassalto d’assoluto.
Libro da studiare come si sondano i petroglifi, certi che oltre la pietra è
carne ciò che ci artiglia, che il primate non ha il primato del linguaggio – e
tutto, atrocemente, docilmente, ci parla.
La ricorrente brocca di Pontiggia fa pensare in effetti all’annaffiatoio del
Lord Chandos di Hofmannsthal; anche il poeta, come quell’altro, può dire, “sento
un gioco di corrispondenze entusiasmante, davvero infinito dentro e attorno a
me… non v’è alcuna cosa in cui io non sia in grado di trasfondermi. Allora è
come se il mio corpo fosse composto di vere cifre che dischiudono ogni cosa”.
Questa continuità tra il poeta e il creato impone un continuo esilio dal dono:
si è a sentinella, a protezione. È “la vita che ci assale”, scrive Pontiggia –
porre un telaio nel caos, farne fuggire il filo come si rifugge da un fuoco
troppo netto, dalla lama troppo tesa.
Insomma, a far tonsura di questo vagabondaggio per enigmi pretendo Pontiggia al
dialogo.
Da dove arriva questo libro, di ombre e di fuochi, del fiume e dell’ibisco,
dell’allarme e del sussurro? Ne ricavo una via, bifronte, dalle epigrafi: si
parte con Eraclito, l’oscuro, si chiude nel candore di Virgilio, ecloga decima.
Insomma, dimmi.
Hai colto meravigliosamente, caro Davide, il senso delle due epigrafi, che
devono essere considerate parte integrante del testo: due immagini-pensiero, due
sentenze, entro le quali il libro si trova come raccolto. Il frammento eracliteo
ci parla del moto incessante delle cose, e della contesa che lo governa: quello
virgiliano della dimensione statica e utopica di un mondo pastorale, quasi una
memoria dell’età aurea di cui aveva scritto Esiodo. Moto e quiete: due stazioni
dell’animo umano, due modi della nostra percezione del mondo e del vivere. E il
canestro che il pastore sta intessendo con il suo «ibisco sottile», è in fondo
il libro che ho scritto: i poeti tessono da sempre i loro libri, li tessono e
ritessono, e a volte anche li disfano, come una tela perenne, che è come una
metafora della grande tela del mondo.
Parlano le ombre, in questo libro, “anime, stridono”, diresti. Mi viene da
chiederti, allora, dove sono i morti, chi sono queste ombre che ci fanno visita
e dimorano in noi, che cos’è, dunque, la morte…
Sì, quante ombre, e quante visite, in questo libro. Molte affondano nella
materia della mia infanzia, quasi uscissero da quel secchio che accoglie la
pioggia della vita, e sta alle origini di ogni nostro sentire. A volte solo
nomi, come quelli che compaiono alla fine della poesia intitolata In viaggio
(Altre ombre, sogni, vento): compagni di giochi dell’infanzia, per i quali la
vita fu così breve, ma colti in un momento di tregua, forse di splendore. E
l’ombra di mio padre, che popola diverse delle poesie del libro, a cominciare
da Una piuma d’oro, tutta intessuta intorno ad alcuni emblemi del mito –
classico e poi cristiano – della Fenice. Ma ci sono anche ombre fantastiche,
come quelle che vengono dalla grotta di Lascaux, o come la misteriosa voce che
parla dietro la porta dell’Istmo, e racconta in pochi versi l’intera sua vita. E
ombre di grandi, come Marco e Giuliano, che governarono il mondo, e si trovano
all’improvviso a contemplare qualcosa che non avevano previsto. Ma questo è un
libro di voci, ognuna delle quali porta con sé il proprio destino: voci che
parlano, gemono, stridono, sognano, a seconda della loro natura, e del vivere
che fu loro dato. Ciascuna con la sua sporta di gioie e di dolori, che
s’insaccano nel gran bulicame delle cose del mondo. Ma cos’è morte, nessuno di
noi lo può dire, anche se in una delle ultime poesie del libro si osa parlarne
con l’unica logica possibile, che è quella del paradosso:
> «un salto
> che nessuno ha mai fatto,
> e tutti fanno».
Vado a tentoni. Mi sembra che il tuo libro vada sfogliato come si sfibrano le
braci del fuoco, in attesa, cioè, quasi, di una ‘rivelazione’: che sia cenere o
abbaglio o bisbiglio. Già… ma quale rivelazione? Cosa insegui in questo
peregrinare di fuochi, di catabasi, di sogni?
Su questo libro hanno aleggiato, a lungo, le potenti immagini di un film
come Ordet di Dreyer. Lo dico piano, quasi temendo di essere equivocato, ma
questo è un libro traversato dai soffi dell’impensato, dove una brocca che
s’infrange può tornare a ricomporsi, così come una foglia strappata dal vento
tornare al suo ramo. Epifanie della speranza, mi piacerebbe chiamare queste
immagini, che sembrano fare da argine al potere buio delle cose che devono
seguire il loro corso. Miracolo contro Necessità. E così la morte, come
nel Settimo sigillo di Bergman – un altro nume, da sempre, della mia
immaginazione poetica – può anche essere distratta dal canto di nenia di una
madre. Parlo della poesia intitolata A un passo da ieri, dove la Morte si posa
> «su una forcina di bimba,
> si assopisce per un po’ al dondolio di una cuna,
> di una nenia
> che sembra soffiata dentro un vetro
> una bolla
> di voce che ha il suono del vento, la luce
> della neve che scende».
Questa poesia è come la risposta alla crudele ninna nanna tratta (ma con molta
libertà) da un frammento di Simonide: una ninna nanna per un bimbo che non è
più, e che riposa «sotto un cielo di chiodi di bronzo». Ma questo è tutto un
libro che procede per disgiunzioni e opposizioni: ed è questo il senso del
contendere che il titolo esprime. Una contesa di forze che abitano il mondo come
il nostro cuore. Penso alle anime che stridono, sì, ma sanno a volte parlarci
con immagini di vita e di rinascita, sovvertendo ogni principio:
> «è
> come essere in un nero
> che abbaglia, come
> scendere una scala, aprire una porta, trovarsi
> all’improvviso in alto»…
E anche qui, nella seconda parte della poesia, la Morte incespica, e cade
(Anime, stridono).
Sembri il più antico – e il più giovane, dunque – dei poeti italiani viventi,
per quel dire che sa di Antologia Palatina, di stare al desco coi lirici
antichi. Quali sono, in questa tua ricerca, in questa poetica, i tuoi lari, le
letture, i maestri?
Tantissimi, come puoi immaginare: la poesia, per me, non è mai stata un atto
individuale, semmai un processo collettivo, che si stratifica nel corso dei
secoli, insieme alla lingua che evolve, cambia, eppure è sempre la stessa, con
le sue procedure, che sono logiche e analogiche insieme. Mi verrebbe da dire che
in ogni verso di questo libro la contesa è tra immaginazione e pensiero, densità
fisica e molecolare del mondo e impennate del cuore che non ci sta, e un po’
stride, un po’ canta. E i suoi lari, i lari che in una poesia compaiono per
ripristinare – nella forma simbolica di una brocca – un ordine del vivere e del
sentire che sta per andare in pezzi, sono soprattutto i filosofi morali che
rileggo ciclicamente dagli anni della mia adolescenza: Seneca, Epitteto, Marco
Aurelio, Montaigne, perfino il Nietzsche della Gaia scienza, con tutti i suoi
dolorosi paradossi, i suoi patti mancati con la vita. E naturalmente i grandi
tragici, che irrompono nell’età classica di Pericle mantenendo ancora intatte le
energie immaginative di quella arcaica: parlo di Eschilo e di Sofocle,
naturalmente, con le loro parole intinte di destino e di pietà, sorrette da una
logica così inconfutabile, da poter affondare nelle acque del mistero.
Mi sorprende leggere poesie che registrano le voci di Lascaux, voci
pleistoceniche: quasi a cercare il punto in cui l’uomo diventò umano, il punto
in cui iniziò la caduta, l’ascesa. Da dove provengono quei versi?
Tocchi forse il punto decisivo del libro, che è tutto, dall’inizio alla fine,
una meditazione sull’uomo e sulla sua storia. Il cuore del discorso sta, per
quel che posso dire, alle pp. 63-68, dove si danno, nell’ordine, le seguenti
quattro poesie: Lascaux, voce; Telai, gnomoni, yo-yo; Il mondo nuovo; Dal
Pleistocene. Il mondo nuovo è quello che sta arrivando, e di cui ben poco, in
realtà, sappiamo; e certo porta in sé i segni dell’infero. È un mondo laborioso
e insonne, che si erge però su un vuoto inquietante, privo di desideri: un
grande apiario umano disertato anche dal sogno e dalla parola. La poesia che
parla di telai, gnomoni e yo-yo (un gioco dei miei anni Cinquanta, che molto fa
pensare alle leggi della quantistica) è una meditazione sul tempo. Le altre due
retrocedono nella misteriosa, profondissima fessura del preistorico, quasi una
sorta di Rift Valley del tempo e della vita da cui salgono gemiti, voci,
visioni. Poi succede che qualcuno, dal Pleistocene, scorga il futuro dell’uomo
senza sapere «se è il caso di essere contento». O che un basolo della via Appia,
dalla sua prospettiva, senta la fragile vanità dei processi storici, che si
dissolve nella rete profonda della Natura. Ma un po’ tutto, in questo libro,
parla di origini, di sacre acque, di disordini cosmici:
> «Ed è un bivacco di ere,
> che tumultuano, conglomerano. Padri
> che rotolano in altri padri. Materia
> che s’impenna, delira
> in vortici di fuoco».
>
> (Dillo tu)
La materia che delira è l’uomo: e in quel delirare – che etimologicamente indica
semplicemente un uscire dal seminato, un contraddire delle forze in atto – è
tutta la sua grandezza e la sua vanagloria.
A un certo punto, l’intuire i pensieri estremi di Marco Aurelio. Perché proprio
lui, l’imperatore pensatore che visse quasi sempre in guerra? A che
quell’estrema rivelazione, dove pare “che il tempo non sia mai stato”?
«Visse quasi sempre in guerra»: eppure volle persistere nel pensare. E non solo
pensieri astratti, ma pensieri che nascevano da volti, luoghi, affetti. Il primo
dei dodici libri dei suoi Ricordi è tutto composto di dediche: diciassette in
tutto, e l’ultima è agli dèi. Diciassette, che in numeri romani significava
morte: VIXI. Gli ho voluto prestare pensieri che nascono dalla disgregazione e
dalla rovina della filosofia in cui aveva sempre creduto, che era poi lo
Stoicismo nuovo di Epitteto, integralmente fondato sui valori etici. Eppure, nel
penultimo di questi frammenti, Marco sente che proprio per questo bisogna
continuare a onorare la maestà di una dottrina, restare fedeli a qualcosa che fu
grande. L’epoca di Marco è molto simile alla nostra: un mondo sembra finire, la
mente umana sembra precipitare in forme che lasciano perplesse le menti
migliori, e le riempiono di una misteriosa inquietudine, ma anche di uno strano
senso di attesa, come si dice nei primi due frammenti della poesia, che andranno
letti congiuntamente. Come se il secondo completasse, nella mente di chi pensa,
il primo, ma dopo un certo lasso di tempo. E in mezzo a quel vuoto, è tutto lo
stupore dell’inaudito, lo stupore che secondo Aristotele stava all’inizio di
ogni forma di conoscenza:
> «Inseguendo il fruscio del vento una sera mi persi
> in un anfratto di vita nascosta»…
> «E vidi stelle che non brillano per noi, eppure brillano,
> e nomi di popoli che non conosciamo».
Quale il distico, il cuneo di versi che meglio ti distingue, in questo libro, e
perché?
Tra le tante, scelgo una sequenza che sta proprio all’inizio del libro, ed è la
strofe conclusiva della poesia intitolata Un secchio (Origini).
> C’è un cuore austero
> prima di ogni verso
> e sogni, e cieli, e intonaci
> e tutta la vita del mondo
> che stride, gorgoglia
> come un ranocchio di fiume
> al suo primo salto
Dentro questa poesia ci sono le mie origini, che affondano in un mondo rurale:
quel secchio è un secchio vero, come tutte le brocche, le scodelle, i chiodi, le
stoffe, i bicchieri, le anfore che popolano il libro: oggetti primi del vivere,
un po’ come le lettere e i suoni dell’alfabeto per la nostra lingua. Dentro quel
secchio ci pioveva l’acqua del mondo, vera e simbolica insieme, come sempre
dev’essere ciò che entra in un verso.
E dentro quell’acqua, ci sono anche le mie origini poetiche. Se parlo di un
prima della scrittura, è perché credo che la poesia non sia un mero esercizio di
lingua: occorre una lingua per fare poesia, ma prima ancora una visione, che
viene da lontano, cioè da ben prima di noi, da una genealogia di padri e di
madri, di storie e di luoghi che sono ancora qui, e popolano il nostro
immaginario.
Ma questo, per come è stato scritto e mi si è mostrato a un certo punto del suo
tragitto, è tutto un libro di cose prime: quelle che contano per davvero, che
designano una forma del nostro essere, e trovano il loro senso – starei per dire
un compimento, se la parola non rischiasse discorsi fuorvianti – nella piccola
cella del nostro cuore. Di cose prime, ma anche ultime: perché ultimo non è
altro che l’anello che si aggancia al primo. Bisogna mantenere la purezza prima,
austera del cuore, per scrivere un verso, e lo slancio di quel ranocchio che
gorgoglia al suo primo salto.
Lui è Giancarlo Pontiggia
E ora? Dove cerchi?
Ancora sto seguendo l’onda di questo libro, che nelle intenzioni avrebbe dovuto
essere il mio libro più limpido e leggibile, e che invece mi sta apparendo, dopo
la pubblicazione, come il più labirintico, forse il più enigmatico fra quelli
che ho scritto.
C’è qualcosa di pauroso e di luttuoso nella storia dell’uomo, che ben
conosciamo, ma che le nuove forme della tecnologia stanno liberando da ogni
senso di pudore e di rimorso: il futuro che ci attende sarà probabilmente un
mondo feroce e anestetizzato, dominato dalla sofistica delle nuove macchine, e
da una sorta di devitalizzazione dei sentimenti. Ma questa è solo una
previsione, confortata dal fatto che di solito le previsioni umane non sono mai
all’altezza dei fatti: e questo ci riempie di sollievo. Vorrei ricordare al
lettore giovane, inevitabilmente fuorviato dal poco che ancora conosce del tempo
e delle sue infinite accensioni, che i processi della storia sono soltanto una
fortuita accozzaglia di possibili, alcuni dei quali entrano nel presente come se
fossero più veri degli altri: ma lo diventano, non lo erano.
Come scriveva Baudelaire, L’imagination est la reine du vrai, et le possible est
une des provinces du vrai(«L’immaginazione è la regina del vero, e il possibile
una delle province del vero»), che è un’osservazione stupefacente, quasi una
definizione di ciò che la poesia dovrebbe sempre essere, indipendentemente dal
tema che assume: non puoi escludere il vero dalla tua riflessione, né fingere
che la storia non ti modelli, ma neanche puoi arrenderti all’idea che il mondo
sia soltanto quello che vedi. E mi viene in mente la prima parte di un frammento
di Eraclito:
> «La vita è un fanciullo che gioca, che muove i suoi pezzi sulla scacchiera».
Sì, la poesia porta in sé questa energia vitale, danzante, che alla fine vince
ogni malinconia: per dirla con Esiodo, sono i piedi delle Muse che battono
sull’Olimpo.
*In copertina: Georgia O’Keeffe, Starlight Night, 1917
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