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Miracolo contro Necessità. Dialogo con Giancarlo Pontiggia
Qualche tempo fa, sfogliando il primo numero di “niebo”, la rivista in rivolta, ordita da Milo De Angelis. La copertina – nero su bianco – diceva “giugno 77”, si diceva – è vero – di Omero e di Paul Celan, di Hölderlin e di Gottfried Benn. Giancarlo Pontiggia compiva venticinque anni e in quel primo numero di “niebo” è il poeta più rappresentato. È difficile, per chi strologa tra fenditure di superficie, riconoscere nel poeta di allora, quello che scrive “Ah divaricata e ora dentro/ nella pietra lupestre sotto il luno/ le labbra/ il tuo stridere vento e strina la/ bocca”, il Pontiggia di oggi. Non è un caso se l’esordio di questo poeta antico e dunque perennemente giovane accada nel 1998 (Con parole remote, Guanda), vent’anni dopo quelle audacie, quelle ragazzate in versi. Eppure. Io trovo una continuità, rintraccio lo stesso discorso tra il ragazzo del “bestiario frigido e/ inquieto”, fitto di “animaletti e bestioline”, di “cielo e stelle”, e il poeta che oggi, nel suo libro più compiuto, ultimo, La materia del contendere (Garzanti, 2025), fa dire a Marco Aurelio, l’imperatore imperituro nel filosofare: > “Quando il tempo viene meno,  > e la ragione ci implora: ‘non interpellarmi più’,  > quando > nemmeno tu che hai governato il mondo,  > puoi più credere in quel mondo,  > onora la maestà del pensiero, sii fedele,  > sii > come uno che accende il fuoco,  > entra nella notte  > fa ssst,  > con il dito poggiato sulla bocca”. Quello che fa ssst, nel tempo senza tempo della poesia, è il Pontiggia ragazzo – il Pontiggia ragazzo che lancia un assist al Pontiggia di oggi – uno apre il fuoco, l’altro lo protegge: che ne imbiondiscano i sassi. Il Pontiggia ragazzo parlava di un “luogo delle fate”, scriveva – in un saggetto sgargiante per screziature grammaticali –: “Le bestioline lo azzannano, lo rodono, con la scienza del ghigno. È una corda senza nodi. Si straripa”. Io credo che La materia del contendere – titolo tratto da un passo di una poesia dall’attacco fulminante: “Tutto è pieno di dèi, di vita che pullula./ Oppure: non c’è un bel niente,/ ma un niente che pullula di sogni” – sia il punto in cui straripa la poesia di Pontiggia. Una corda senza nodi, cioè: un serpente; una corda che si fa parete di ghiaccio.  Pieno di fuoco, di fuchi del fuoco, questo libro, che ha per guardiani Eraclito e Virgilio, e diversi altri numi, numerosissimi, fatti melma, però, in un linguaggio che ha l’austerità di chi scruta gli astri, di chi fa affiorare presagi e precordi tra i dadi. A chi piace il gioco delle risonanze (un giogo, infine): veda, in controluce, il Pavese di “Leucò” (in Cos’è bene e cos’è male, ad esempio), qualche latino di fronte a un’Arcadia di rovine, frantumi di Borges, forse, i bagliori di un epigrammista, Ovidio meditato da Mandel’štam. Tuttavia, Pontiggia non è poeta di stucchi né di ‘mestiere’: è poeta avventato (cioè, che ha il vento dentro, non gli stagni odierni, artificiali), che si sporge nell’avvenire, è un poeta inattuale, del tutto, che traduce i ‘segni’ in versi.  Alcuni brani hanno il cataclisma della rivelazione; Il mondo nuovo, ad esempio: > “Chi se li ricorda, i tempi > di un tempo che fu, remoto, inaccessibile, > che compare, ogni tanto, in sogno, per chi sogna, > ancora. > Ma nessuno più sogna, credimi, > e questo è per voi, che venite di lontano, > l’ostacolo più grande: resistere > al sonno che vi invade, e annienta > la mente che ragiona. Dai sonni, lunghi e ramosi, > discendono i popoli dei sogni, che vi si appiccicano addosso, > come ragne liquorose nella cella > della mente. > Ma nessuno più sogna, qui, dal tempo > dei tempi che furono, e chi ci arriva, come voi, di lontano, > si abitua a non farne, > e così diviene simile a noi, ombra > come tutti” L’impeccabile equilibrio di Pontiggia è tale perché sempre sul punto del crollo, della brocca che non regge, del futuro in pezzi. In questo libro – così pieno di ombre, le frasche del fuoco, i suoi vessilli – il poeta s’intride nei primordi dell’uomo, dice l’uomo prima dell’uomo (“Qualcuno scende dal Pleistocene,/ appena dopo la grande glaciazione,/ dice/ che sta per giungere uno,/ un uomo, un mortale/ che aspira all’ordine dei cieli,/ cammina come se volasse…”), per scongiurarne l’incendio, forse, per un soprassalto d’assoluto.  Libro da studiare come si sondano i petroglifi, certi che oltre la pietra è carne ciò che ci artiglia, che il primate non ha il primato del linguaggio – e tutto, atrocemente, docilmente, ci parla.  La ricorrente brocca di Pontiggia fa pensare in effetti all’annaffiatoio del Lord Chandos di Hofmannsthal; anche il poeta, come quell’altro, può dire, “sento un gioco di corrispondenze entusiasmante, davvero infinito dentro e attorno a me… non v’è alcuna cosa in cui io non sia in grado di trasfondermi. Allora è come se il mio corpo fosse composto di vere cifre che dischiudono ogni cosa”. Questa continuità tra il poeta e il creato impone un continuo esilio dal dono: si è a sentinella, a protezione. È “la vita che ci assale”, scrive Pontiggia – porre un telaio nel caos, farne fuggire il filo come si rifugge da un fuoco troppo netto, dalla lama troppo tesa.  Insomma, a far tonsura di questo vagabondaggio per enigmi pretendo Pontiggia al dialogo. Da dove arriva questo libro, di ombre e di fuochi, del fiume e dell’ibisco, dell’allarme e del sussurro? Ne ricavo una via, bifronte, dalle epigrafi: si parte con Eraclito, l’oscuro, si chiude nel candore di Virgilio, ecloga decima. Insomma, dimmi.  Hai colto meravigliosamente, caro Davide, il senso delle due epigrafi, che devono essere considerate parte integrante del testo: due immagini-pensiero, due sentenze, entro le quali il libro si trova come raccolto. Il frammento eracliteo ci parla del moto incessante delle cose, e della contesa che lo governa: quello virgiliano della dimensione statica e utopica di un mondo pastorale, quasi una memoria dell’età aurea di cui aveva scritto Esiodo. Moto e quiete: due stazioni dell’animo umano, due modi della nostra percezione del mondo e del vivere. E il canestro che il pastore sta intessendo con il suo «ibisco sottile», è in fondo il libro che ho scritto: i poeti tessono da sempre i loro libri, li tessono e ritessono, e a volte anche li disfano, come una tela perenne, che è come una metafora della grande tela del mondo.  Parlano le ombre, in questo libro, “anime, stridono”, diresti. Mi viene da chiederti, allora, dove sono i morti, chi sono queste ombre che ci fanno visita e dimorano in noi, che cos’è, dunque, la morte… Sì, quante ombre, e quante visite, in questo libro. Molte affondano nella materia della mia infanzia, quasi uscissero da quel secchio che accoglie la pioggia della vita, e sta alle origini di ogni nostro sentire. A volte solo nomi, come quelli che compaiono alla fine della poesia intitolata In viaggio (Altre ombre, sogni, vento): compagni di giochi dell’infanzia, per i quali la vita fu così breve, ma colti in un momento di tregua, forse di splendore. E l’ombra di mio padre, che popola diverse delle poesie del libro, a cominciare da Una piuma d’oro, tutta intessuta intorno ad alcuni emblemi del mito – classico e poi cristiano – della Fenice. Ma ci sono anche ombre fantastiche, come quelle che vengono dalla grotta di Lascaux, o come la misteriosa voce che parla dietro la porta dell’Istmo, e racconta in pochi versi l’intera sua vita. E ombre di grandi, come Marco e Giuliano, che governarono il mondo, e si trovano all’improvviso a contemplare qualcosa che non avevano previsto. Ma questo è un libro di voci, ognuna delle quali porta con sé il proprio destino: voci che parlano, gemono, stridono, sognano, a seconda della loro natura, e del vivere che fu loro dato. Ciascuna con la sua sporta di gioie e di dolori, che s’insaccano nel gran bulicame delle cose del mondo. Ma cos’è morte, nessuno di noi lo può dire, anche se in una delle ultime poesie del libro si osa parlarne con l’unica logica possibile, che è quella del paradosso:  > «un salto  > che nessuno ha mai fatto,  > e tutti fanno». Vado a tentoni. Mi sembra che il tuo libro vada sfogliato come si sfibrano le braci del fuoco, in attesa, cioè, quasi, di una ‘rivelazione’: che sia cenere o abbaglio o bisbiglio. Già… ma quale rivelazione? Cosa insegui in questo peregrinare di fuochi, di catabasi, di sogni? Su questo libro hanno aleggiato, a lungo, le potenti immagini di un film come Ordet di Dreyer. Lo dico piano, quasi temendo di essere equivocato, ma questo è un libro traversato dai soffi dell’impensato, dove una brocca che s’infrange può tornare a ricomporsi, così come una foglia strappata dal vento tornare al suo ramo. Epifanie della speranza, mi piacerebbe chiamare queste immagini, che sembrano fare da argine al potere buio delle cose che devono seguire il loro corso. Miracolo contro Necessità. E così la morte, come nel Settimo sigillo di Bergman – un altro nume, da sempre, della mia immaginazione poetica – può anche essere distratta dal canto di nenia di una madre. Parlo della poesia intitolata A un passo da ieri, dove la Morte si posa  > «su una forcina di bimba,  > si assopisce per un po’ al dondolio di una cuna,  > di una nenia  > che sembra soffiata dentro un vetro  > una bolla  > di voce che ha il suono del vento, la luce  > della neve che scende».  Questa poesia è come la risposta alla crudele ninna nanna tratta (ma con molta libertà) da un frammento di Simonide: una ninna nanna per un bimbo che non è più, e che riposa «sotto un cielo di chiodi di bronzo». Ma questo è tutto un libro che procede per disgiunzioni e opposizioni: ed è questo il senso del contendere che il titolo esprime. Una contesa di forze che abitano il mondo come il nostro cuore. Penso alle anime che stridono, sì, ma sanno a volte parlarci con immagini di vita e di rinascita, sovvertendo ogni principio:  > «è > come essere in un nero  > che abbaglia, come  > scendere una scala, aprire una porta, trovarsi  > all’improvviso in alto»…  E anche qui, nella seconda parte della poesia, la Morte incespica, e cade (Anime, stridono). Sembri il più antico – e il più giovane, dunque – dei poeti italiani viventi, per quel dire che sa di Antologia Palatina, di stare al desco coi lirici antichi. Quali sono, in questa tua ricerca, in questa poetica, i tuoi lari, le letture, i maestri? Tantissimi, come puoi immaginare: la poesia, per me, non è mai stata un atto individuale, semmai un processo collettivo, che si stratifica nel corso dei secoli, insieme alla lingua che evolve, cambia, eppure è sempre la stessa, con le sue procedure, che sono logiche e analogiche insieme. Mi verrebbe da dire che in ogni verso di questo libro la contesa è tra immaginazione e pensiero, densità fisica e molecolare del mondo e impennate del cuore che non ci sta, e un po’ stride, un po’ canta. E i suoi lari, i lari che in una poesia compaiono per ripristinare – nella forma simbolica di una brocca – un ordine del vivere e del sentire che sta per andare in pezzi, sono soprattutto i filosofi morali che rileggo ciclicamente dagli anni della mia adolescenza: Seneca, Epitteto, Marco Aurelio, Montaigne, perfino il Nietzsche della Gaia scienza, con tutti i suoi dolorosi paradossi, i suoi patti mancati con la vita. E naturalmente i grandi tragici, che irrompono nell’età classica di Pericle mantenendo ancora intatte le energie immaginative di quella arcaica: parlo di Eschilo e di Sofocle, naturalmente, con le loro parole intinte di destino e di pietà, sorrette da una logica così inconfutabile, da poter affondare nelle acque del mistero. Mi sorprende leggere poesie che registrano le voci di Lascaux, voci pleistoceniche: quasi a cercare il punto in cui l’uomo diventò umano, il punto in cui iniziò la caduta, l’ascesa. Da dove provengono quei versi? Tocchi forse il punto decisivo del libro, che è tutto, dall’inizio alla fine, una meditazione sull’uomo e sulla sua storia. Il cuore del discorso sta, per quel che posso dire, alle pp. 63-68, dove si danno, nell’ordine, le seguenti quattro poesie: Lascaux, voce; Telai, gnomoni, yo-yo; Il mondo nuovo; Dal Pleistocene. Il mondo nuovo è quello che sta arrivando, e di cui ben poco, in realtà, sappiamo; e certo porta in sé i segni dell’infero. È un mondo laborioso e insonne, che si erge però su un vuoto inquietante, privo di desideri: un grande apiario umano disertato anche dal sogno e dalla parola. La poesia che parla di telai, gnomoni e yo-yo (un gioco dei miei anni Cinquanta, che molto fa pensare alle leggi della quantistica) è una meditazione sul tempo. Le altre due retrocedono nella misteriosa, profondissima fessura del preistorico, quasi una sorta di Rift Valley del tempo e della vita da cui salgono gemiti, voci, visioni. Poi succede che qualcuno, dal Pleistocene, scorga il futuro dell’uomo senza sapere «se è il caso di essere contento». O che un basolo della via Appia, dalla sua prospettiva, senta la fragile vanità dei processi storici, che si dissolve nella rete profonda della Natura. Ma un po’ tutto, in questo libro, parla di origini, di sacre acque, di disordini cosmici:  > «Ed è un bivacco di ere,  > che tumultuano, conglomerano. Padri  > che rotolano in altri padri. Materia  > che s’impenna, delira  > in vortici di fuoco».  > > (Dillo tu) La materia che delira è l’uomo: e in quel delirare – che etimologicamente indica semplicemente un uscire dal seminato, un contraddire delle forze in atto – è tutta la sua grandezza e la sua vanagloria. A un certo punto, l’intuire i pensieri estremi di Marco Aurelio. Perché proprio lui, l’imperatore pensatore che visse quasi sempre in guerra? A che quell’estrema rivelazione, dove pare “che il tempo non sia mai stato”? «Visse quasi sempre in guerra»: eppure volle persistere nel pensare. E non solo pensieri astratti, ma pensieri che nascevano da volti, luoghi, affetti. Il primo dei dodici libri dei suoi Ricordi è tutto composto di dediche: diciassette in tutto, e l’ultima è agli dèi. Diciassette, che in numeri romani significava morte: VIXI. Gli ho voluto prestare pensieri che nascono dalla disgregazione e dalla rovina della filosofia in cui aveva sempre creduto, che era poi lo Stoicismo nuovo di Epitteto, integralmente fondato sui valori etici. Eppure, nel penultimo di questi frammenti, Marco sente che proprio per questo bisogna continuare a onorare la maestà di una dottrina, restare fedeli a qualcosa che fu grande. L’epoca di Marco è molto simile alla nostra: un mondo sembra finire, la mente umana sembra precipitare in forme che lasciano perplesse le menti migliori, e le riempiono di una misteriosa inquietudine, ma anche di uno strano senso di attesa, come si dice nei primi due frammenti della poesia, che andranno letti congiuntamente. Come se il secondo completasse, nella mente di chi pensa, il primo, ma dopo un certo lasso di tempo. E in mezzo a quel vuoto, è tutto lo stupore dell’inaudito, lo stupore che secondo Aristotele stava all’inizio di ogni forma di conoscenza: > «Inseguendo il fruscio del vento una sera mi persi  > in un anfratto di vita nascosta»…  > «E vidi stelle che non brillano per noi, eppure brillano, > e nomi di popoli che non conosciamo».  Quale il distico, il cuneo di versi che meglio ti distingue, in questo libro, e perché? Tra le tante, scelgo una sequenza che sta proprio all’inizio del libro, ed è la strofe conclusiva della poesia intitolata Un secchio (Origini).  > C’è un cuore austero > prima di ogni verso > e sogni, e cieli, e intonaci > e tutta la vita del mondo > che stride, gorgoglia > come un ranocchio di fiume > al suo primo salto Dentro questa poesia ci sono le mie origini, che affondano in un mondo rurale: quel secchio è un secchio vero, come tutte le brocche, le scodelle, i chiodi, le stoffe, i bicchieri, le anfore che popolano il libro: oggetti primi del vivere, un po’ come le lettere e i suoni dell’alfabeto per la nostra lingua. Dentro quel secchio ci pioveva l’acqua del mondo, vera e simbolica insieme, come sempre dev’essere ciò che entra in un verso.  E dentro quell’acqua, ci sono anche le mie origini poetiche. Se parlo di un prima della scrittura, è perché credo che la poesia non sia un mero esercizio di lingua: occorre una lingua per fare poesia, ma prima ancora una visione, che viene da lontano, cioè da ben prima di noi, da una genealogia di padri e di madri, di storie e di luoghi che sono ancora qui, e popolano il nostro immaginario.  Ma questo, per come è stato scritto e mi si è mostrato a un certo punto del suo tragitto, è tutto un libro di cose prime: quelle che contano per davvero, che designano una forma del nostro essere, e trovano il loro senso – starei per dire un compimento, se la parola non rischiasse discorsi fuorvianti – nella piccola cella del nostro cuore. Di cose prime, ma anche ultime: perché ultimo non è altro che l’anello che si aggancia al primo. Bisogna mantenere la purezza prima, austera del cuore, per scrivere un verso, e lo slancio di quel ranocchio che gorgoglia al suo primo salto.  Lui è Giancarlo Pontiggia E ora? Dove cerchi? Ancora sto seguendo l’onda di questo libro, che nelle intenzioni avrebbe dovuto essere il mio libro più limpido e leggibile, e che invece mi sta apparendo, dopo la pubblicazione, come il più labirintico, forse il più enigmatico fra quelli che ho scritto.  C’è qualcosa di pauroso e di luttuoso nella storia dell’uomo, che ben conosciamo, ma che le nuove forme della tecnologia stanno liberando da ogni senso di pudore e di rimorso: il futuro che ci attende sarà probabilmente un mondo feroce e anestetizzato, dominato dalla sofistica delle nuove macchine, e da una sorta di devitalizzazione dei sentimenti. Ma questa è solo una previsione, confortata dal fatto che di solito le previsioni umane non sono mai all’altezza dei fatti: e questo ci riempie di sollievo. Vorrei ricordare al lettore giovane, inevitabilmente fuorviato dal poco che ancora conosce del tempo e delle sue infinite accensioni, che i processi della storia sono soltanto una fortuita accozzaglia di possibili, alcuni dei quali entrano nel presente come se fossero più veri degli altri: ma lo diventano, non lo erano.  Come scriveva Baudelaire, L’imagination est la reine du vrai, et le possible est une des provinces du vrai(«L’immaginazione è la regina del vero, e il possibile una delle province del vero»), che è un’osservazione stupefacente, quasi una definizione di ciò che la poesia dovrebbe sempre essere, indipendentemente dal tema che assume: non puoi escludere il vero dalla tua riflessione, né fingere che la storia non ti modelli, ma neanche puoi arrenderti all’idea che il mondo sia soltanto quello che vedi. E mi viene in mente la prima parte di un frammento di Eraclito:  > «La vita è un fanciullo che gioca, che muove i suoi pezzi sulla scacchiera».  Sì, la poesia porta in sé questa energia vitale, danzante, che alla fine vince ogni malinconia: per dirla con Esiodo, sono i piedi delle Muse che battono sull’Olimpo.  *In copertina: Georgia O’Keeffe, Starlight Night, 1917 L'articolo Miracolo contro Necessità. Dialogo con Giancarlo Pontiggia proviene da Pangea.
April 24, 2025 / Pangea