Diffidare dei poeti vivi

Pangea - Wednesday, March 12, 2025

Dei poeti vivi diffido – sono a mio agio coi defunti. I poeti morti. Che ti spezzano il cuore. Come recita la canzone. 

Atto disumano, umanizzare la poesia. Rivelare il volto del poeta. Se non è velare due volte. Se non l’ha in dote – il volto da poeta. 

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Ho scritto a un poeta vivo. L’editoria lo vuole poeta morto – sostiene. Traduco, anni addietro, un drappello di suoi versi. Afferiscono – e fioriscono, feriscono – a una raccolta che ha l’avvenenza efferata di un salmo. Ne fantastico la pubblicazione. Il poeta vivo – paria in patria – mi scrive. E il suo fervore è umano, troppo umano – per me. Mi disorienta. Disarciona i pensieri. Il lirico si fa uomo. Il poeta è vivo – e m’inquieta.   

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Ho conosciuto un poeta vivo. Dita, porporate, stringono un Rilke a mo’ di breviario. Poesia e preghiera. Poesia è preghiera. Asserisce – senza articolare verbo. Serrato nella muta liturgia dei gesti. Pare estraneo alla terra. Ma prossimo al deserto. Ho incrociato, dapprima, la sua poesia. Votata all’uomo, consacrata a Dio. Invisibile nel visibile. Il poeta scandaglia il mondo con iride sacro. Il poeta è un profeta – vivo. 

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Ho parlato a un poeta vivo. Occhi da sioux dominano il volto increspato di versi – corpo d’albero, mani da capo dei lupi. Capelli inargentati – a ornare il cranio come penne d’aquila. Ebbro, l’estro – pare un Dylan Thomas etrusco – e caratura da divo del cinema, a slegarne la posa. Poesia, la sua, di parole-cannibali – inaccessibili, sfuggenti –, avviluppano letali, fetali, fatali. A divorare la poesia per la poesia. Poeta di capodogli e capitani, linee d’ombra e marinai, foglie d’erba e Frankenstein. Compone e traduce, rotea il verbo in un’ellisse – è un poeta-Ulisse.

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Ho osservato dei poeti vivi. Nel loro vivere da poeti. Alle opere, di solito, antepongo le biografie. Stavolta, il canone si rivolta. Prima la poesia – dirompe educata. Poi il poeta. A volto scoperto – velato e ri-velato, al contempo, dalla parola. Il poeta è vivo, il suo verso vivido. 

Ordinata torma di poeti urbani mi si staglia fra le ciglia, di vocazione corsara e cortese, composta ed opposta – eterogeneo, l’universo dei versi, traversi. Scorgo poeti di mondo, scevri dal mondano. Un motivo beat batte sul crinale nord dell’Urbe. Capitolino, il salotto-librario si fa giungla di lettere – capitola, il poeta per il poeta. Selezione naturale del verbo metropolitano. 

Così reali, questi poeti vivi, da assurgere a una guglia metafisica. La tangibilità nel poeta pare massima nella sua assenza. L’autenticità degli individui mi spiazza – l’inautenticità della poesia mi conforta. Non c’è verità nella poesia. Per fortuna. Nella sua forma rarefatta, è artefatta. In questo esile consesso fungo da intruso, sono il refuso di questo ritrovo. Ad animarne le fila, scopro, è Edoardo Piazza – poeta di Esperidi e civette urbane –, a margine, illumina sul senso dell’incontro, questione di necessità, per dare ‘una casa alla poesia, un approdo concreto’. Ho sempre contemplato l’ala immateriale della poesia. Eppure – banale a dirsi – a dimorarvi dietro è l’uomo, e dietro l’uomo palpita un’urgenza d’identità, di patria. Una patria poetica. Questa dislocazione fisica del verso appare cosa ordinaria – non lo è. Ho l’impressione che salti davvero ogni schema. Che il poeta resti privo del suo guscio. Pare sdrucciolevole, il terreno ‘corporeo’ della poesia – scivolare nel buonismo, nell’empatia di foggia deteriore, è un attimo. Ma la poesia, in fondo, vive solo nella forma della poesia. È armata contro la basica spontaneità del mondo. In cui tutti scrivono poesie. Tutti si dicono poeti. Vivi. 

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Un poeta vivo è morto. Apprendo, aprendo le notizie, giorni fa. È giovane – per sempre, adesso. Non lo conosco, ma lo conosco, ma non rammento. Il dispositivo social che dispone di me, si premura di ricordarmi i miei ricordi. Un libro nero, minuto, estraneo al ramo commerciale dell’editoria, è giunto fino ai suoi occhi di poeta. Un carteggio a senso unico, ossessivo, Cristina Campo verso Alejandra Pizarnik – l’abbiamo pubblicato tempo fa. Ha la delicatezza di scriverne, di scrivermi. Riporta, in calce, a mo’ di orazione, La Tigre assenza – riletta, è già presenza. Un poeta morto è vivo. 

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Ascolto un poeta vivo. Mentre passeggio, flâneur fra i dedali di Roma – città-lupa che pasce il dolore di tutti. Canta i poeti vivi e i poeti morti. In dote, ha il volto da poeta – caratura da cantautore, tono da angelo inquieto, voce di quarzo. Ne usucapisco la leggerezza tenace dei versi, l’umorismo arrotato della romanità. 

I poeti morti ti spezzano il cuore
I poeti morti non tagliano il pane 
Non portano il cane, non hanno tatuaggi
I poeti vivi hanno gli aggettivi
Per gratificare i nuovi primitivi

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Dei poeti vivi diffido – ai poeti vivi mi affido. 

Fabrizia Sabbatini

*Il 16 marzo alle ore 16.30, a Roma, presso il Caffè letterario Horafelix, si terrà l’incontro “Poesia corsara”, con la partecipazione di Pangea (per info: horafelixroma@gmail.com) 

*In copertina e nel testo: fotografie di mani di Alfred Stieglitz

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