Lorenzo Calogero, il poeta assoluto

Pangea - Wednesday, March 19, 2025

Ha in mano una borsa piena di poesia. Gli occhialini tondi, lo sguardo volto verso dove i più grandi, suoi simili, hanno guardato: Hölderlin, Dickinson, Celan. Vuole offrirci un dono immenso. Mentre un’orchidea ora splende nella mano. 

Vuole essere ascoltato. 

Non vuole essere capito… 

Non siamo noi a dover capire Calogero. 

Ci ha capiti lui. Ci ha contenuti nella sua vertiginosa movenza tellurica, e quotidiana, plasmando e riplasmando il mondo sul secco accento delle sue immaginifiche parole che delimitano la scoscesa assunzione di un Tutto diverso, a noi alieno eppure così vicino. 

Lo potremo chiamare anima. O mistero. 

Il mistero del rispecchiarsi eterno, una nell’altra, della vita e della morte. 

Nelle peregrinazioni di uno Spirito che è quello di noi tutti. 

Si tratta allora di accettare il suo gesto, e in quello finalmente ritrovarsi, dopo le ritrosie di troppi decenni. È giunto il momento di dare nuovamente voce al più grande poeta italiano del Novecento, e di farlo lontano dai pavidi, o invidiosi, tentennamenti dei lustri che ci separano dalla sua morte terrena. Che il suo respiro possa movimentare i nostri spiriti, purificare i nostri tormenti, se “poesia può essere una svolta del respiro”, come ebbe a scrivere il già citato Paul Celan, certo il più affine poeta del suo tempo a Lorenzo Calogero. Un respiro simbolo delle umane sofferenze e delle umane gioie, quantunque le prime prevalgano sulle seconde, come l’amato Leopardi ci ricorda, in quel viaggio che tutti i poeti (e gli amanti della poesia) unisce: da Omero a Virgilio, da Dante a Foscolo, da Leopardi a Pascoli, da Ungaretti a Zanzotto. 

Ovviamente nella sua straziante, sublime peculiarità, l’opera intera di Calogero si presenta a una prima lettura quasi “impersonale”. Ho messo le virgolette perché l’impersonalità delle sue poesie mette in scena simultaneamente l’io e il tu, il noi e il voi. Perché a parlare in lui è la Poesia stessa. Anche quando si riferisce direttamente a sé stesso, o alla donna amata, uno scarto improvviso lo porta, e ci porta, Altrove. “Altrove” è una modalità dello sguardo, capace di unire soggetto e oggetto e svolgerli poi nelle peripezie del canto. La sua poesia non ha inizio né fine, né troppo deve insidiarci la mole immensa del suo lavoro. Poesia in greco significa “fare”, ed il suo è stato un ininterrotto agire nei segreti della corrispondenza tra le parole e le cose, suo esercizio unico e sublime, quasi a plasmarne, il demiurgo di Melicuccà, la sterminata possibilità degli universi in potenza per farli emergere nell’atto concreto della scrittura e poi rituffarvisi dentro, trascinando con sé il lettore accondiscendente. 

“Accondiscendente” perché il sentiero orfico (come e più che in Dino Campana, l’unico che si sia avvicinato, in Italia, alle sue altezze e ai suoi abissi) non richiede la comprensione letterale del suo cammino. Vietata assolutamente la parafrasi. Si lascia svelare (velare, nascondere due volte, fino allo sfinimento delle apparenze) nel suo percorso che tutto include, per quanto si colgano i paesaggi della sua Calabria, quello che effettivamente in vita ha visto, ma quasi a dissimulare uno smarcamento dal simbolico al vero, passando attraverso il reale. Lacanianamente, se “l’inconscio è strutturato come un linguaggio”, Calogero compie l’operazione alchemica della sua rettificazione, rende la struttura dell’inconscio come linguaggio, nell’immensa danza di Šiva, il Dio che distrugge (le forme) perché possano riemergere nuove, attraverso un esodo dal linguaggio che ne diventa materia cesellata nell’intelaiatura di quella che chiameremo poesia. Ora, è opportuno ricordare la sapiente quanto apparentemente ambigua formula di Edoardo Sanguineti: “La poesia è sempre impoetica” (lo stesso Sanguineti, con pari acume, ebbe anche a segnalare che la poesia, infine, “è il vero naso di Cleopatra”). Insomma, è nella dimensione dello straniamento che la poesia in quanto tale ci si offre, pena il declassamento in quel “poetichese” dal quale Calogero si astenne con estremo rigore, sempre. Non è mai, la sua, una “bella poesia”. Piuttosto è sublime, nell’accezione che dallo pseudo–Longino al Rilke delle Elegie Duinesi è stata teorizzata come “tremenda”. 

L’inizio di un’impervia ascensione. 

Il trascendente in un quotidiano sempre infranto dal battito cardiaco del sole mediterraneo. 

Va detto che è da spazzare via l’immagine dell’uomo Calogero che la pur preziosissima testimonianza di Giuseppe Tedeschi ci ha lasciato. Quella un po’ distorta del poeta sfigato elemosinante attenzioni che mai gli vennero fornite. Piuttosto, anche nell’atto risolutivo della sua esistenza terrena, va ritrovata la baldanza sacrale di un Majakovskij, il sigillo a un’impossibile danza che trasforma la sua tomba (quella materiale, nel cimitero del suo paese natio) in oscillazione perpetua che è origine dell’universo e sua riproposta. L’oracolo dice e non dice, accenna: con in più, nel caso di Calogero, una componente di forza materica, diremmo pure sensuale, che rende, straniatamente, il suo essere poeta universale quanto calabrese, etereo e concreto (la poesia, si sa, vive di ossimori) assieme, particella e onda in assenza di un osservatore che pure tutto scruta, immoto. Una poesia come quella di Calogero fa paura. 

Vincerne la paura è quanto di più peculiarmente umano ci è dato, ed è proprio la poesia vera a indicarcene la strada e a donarcene la necessaria strumentazione, dal viaggio di Ulisse a quello dantesco, perché il prezzo dell’ascensione è il pericolo, come quello di ogni scoperta. Così è sempre stato e sempre sarà, oltre l’opaco canto delle Sirene, della versificazione gratificante che tanto ha azzoppato e azzoppa poeti pur celebri o celeberrimi, compresi quelli coevi a Calogero e che lui aveva ben studiato e in alcuni casi amato, spesso a loro appellandosi inutilmente (ad eccezione di Leonardo Sinisgalli, che seppe coglierne, in vita, l’esuberante porsi ai limiti del nostro raziocinio, e tanto spesso abbandonandone l’angustia perifericità) perché troppo oltre, oppure per un certo provincialismo di cui l’Italia ha saputo assai raramente liberarsi: ad esempio, giusto due anni dopo la scomparsa di Calogero, ed almeno negli intenti, in quelle neoavanguardie che provarono a romperne l’elegante quanto ormai decadente, se non proprio decaduto, impedimento a infrangere schemi fossilizzati in un manierismo, vuoi realistico vuoi ermetico, da asfittico salotto letterario. Non che oggi sia cambiato molto: i veri poeti sono sempre pochissimi ed eccezionali, gli altri possono anche vincere i Nobel per la Letteratura ma non disfarsi di canoni, in quanto tali, destinati ad invecchiare e poi a svanire. Con buona pace di Quasimodo e Montale. 

Calogero, con chi lo legge, scopre e segue altri percorsi. I suoi testi più radicali mi ricordano, sul piano del contenuto quanto quello delle forme, il “punto d’unione” dello “sciamanesimo tolteco”, che tanta eco ebbe in Italia, nel decennio successivo alla scomparsa del poeta di Melicuccà, con la diffusione delle narrazioni di Carlos Castaneda. Il punto d’unione sarebbe ciò che ci collega tutti alla stessa “immagine” (immagine, sottolineiamo, che sempre muta e che menti più sottili sanno cogliere nella sua fantasmagoria immaginifica) del mondo. E in realtà, nell’originale spagnolo “punto d’unione” significa “ricamo, intreccio all’uncinetto”: un’elaborata trama di visioni che ai più appare statica, ma che Calogero ci mostra nella sua lunare, continua elaborazione di orlati tessuti di “pezzi di reale” (diremmo nel gergo della psicanalisi strutturalista), in un metafisico caleidoscopio che ha i colori dell’anima, colti nel loro incessante divenire. 

Classico è “il nuovo che resta nuovo”, scrisse con rara efficacia Ezra Pound, che con il poeta di Melicuccà condivide, oltre la grandezza, una certa “incomprensibilità” secondo i canoni a cui abbiamo già accennato. Il canto di Lorenzo Calogero è tanto altro quanto per tutti. Basta lasciarsi trasportare. A chi scrive è capitato più volte di leggere versi di Calogero a non addetti ai lavori, e specialmente bambini, affascinati per non dire sconvolti dalla sua potenza. Si tratta di accettarlo così com’è, senza scomodare troppo la parte sinistra del cervello e il suo bailamme controsapienziale, che alla poesia non si confà se non in ambito strettamente accademico, dove certo è utile, utilissimo il lavoro filologico, ma sempre sul filo della sua refertazione, asettica e, nel caso di Calogero, simile a una vera e propria trappola da cui va assolutamente liberata. La poesia è, potremmo dire oggi con un termine preso in prestito dalla musica rock (e pop), “punk”. Sfascia gli argini, distorce la tradizione per rioffrircela rivitalizzata, nello scandalo della bellezza impudica, in quella, direbbe Milo De Angelis, “umiltà di una porta” che, proprio perché colta in quanto tale, si rovescia e diventa epifania, agnizione dell’insperato. 

Tutto in Lorenzo Calogero è illuminato. 

E tempi oscuri come il nostro ne hanno un immenso bisogno.

Aldo Nove

*

Da Quaderni di Villa Nuccia

III

Sceglievo poche cose
e questa vita dall’arsura del ponte
 era così proclive; ma non volevo
 allontanarmi dai luoghi amati.
 Sceglievo fra due rose rosse
e tu, primula, forse mi sai dire
come soavemente avvennero
le contese, prima che si presentasse
in luogo di un luogo amato
la faccia lungimirante
cortese di Dio…

*

VI

A tavola rasa,
ma tu non questo mattino eri desta.

Se sapevo qualcosa che nel cuore scivola
e simula la sua meraviglia
tu non questo specchio d’acqua eri
o capelli che scendono lungo il corpo
in questo sorgimento d’astri
e giuocano sul fianco o la tua caviglia.

*

VIII

Ancora eri in attesa
e poi era la vana vanità del giorno.

Mi dispiacque e i pensieri a stormo
passavano cortissimi
e i supplizi erano il pensiero più disadorno
quelli alla cui rupe del tempo
era un faggio intorno.

Mi piacque cantare
ma tu eri di là
forse un frassino, un pensiero
che più non concedi.

Una musica forse vagava di là
come quella che più non concedi. 
Erano fili esili di api intorno
e se a te ritorno…

Capre vagavano per l’azzurra siepe
nei vaghi interstizi
dei silenzi del mondo…

*

XVI

 …Ma passeggiando di nottetempo
odo questo cinguettio
e un’allodola è come una fronda,
una luce calata dal desiderio del cielo.
Ma, vedi, sono costretto anch’io
e ai piedi, umile, è una tomba
e quando spira vento autunnale
sono vento anch’io.

*

XXI

…Nastri lisci erano di uccelli
e un’orchidea nera fra i baci
vespertini, ora, s’aggrotta.
Tu eri nera tumida ai capelli
e così, per questa vasta oasi,
fuggitiva sopra l’acque
in un riverbero di rose…

*

XXVIII

 …Hai di nocciolo la luce
del monte verso cui fievolmente inclini
o rispondi: è il latte, il cuore tardo del monte
nel cuore della penombra, quando,
fissato il silenzio perduto vissuto in due
esso era in disparte.

Tu l’appennino contemplavi dalla sedia;
e che era questo screzio
di cui io non ero parte?
Tu in minutissimi,
piccolissime ansie lo facevi
di un perduto andirivieni.
E questo per la liquida ricchezza
della sommità dei boschi.
                                                     Ma tu di chi
facevi parte in trasparenza?

Da Lorenzo Calogero, Poesie scelte 1932-1960, Edizioni Lyriks, Cittanova (RC) 2024

*L’ultimo numero di “Poesia” (Vol. 30, Marzo/Aprile) è dedicato a Lorenzo Calogero; qui si anticipa per gentile concessione il testo di Aldo Nove 

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