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“Siamo in una scorreggioteca. Si deve ricominciare da zero”. Ovvero: sulla poesia come destino. Dialogo con Aldo Nove
Comunque, è un trafficare tra le ombre – è un cenacolo. Oh, sì: spalancare le briciole sul palmo, fino al bruciore, e vedere i morti che vengono a becchettare. Morti con il volto da ghepardo, morti immortali e morti morituri. Morti che stanno in tasca, come un fiammifero.  Da un po’, inseguo le tracce fantasmatiche di Ivano Fermini. Ho letto alcuni versi folgoranti; ho ricostruito alcuni percorsi. Milo De Angelis ne fu il sulfureo, il negromante. Mi accenna ad Aldo Nove. Gli scrivo. Risposta secca, a tagliagole – più tardi verrà il bene, viene dopo, al calor bianco, al netto di tutto. Leggi questo. Inabissarsi. In quel libro, uscito per il Saggiatore – che “ha in corso di pubblicazione la sua intera opera” – Aldo Nove parla di poeti, di poesia, di un sé nell’Illiria lirica. Questa frase è a pagina 103: > “Lo portavo sempre con me, negli anni terribili e salvifici del liceo, Georg > Trakl. Fino a che non scelsi di suicidarmi con la stessa dose di cocaina con > cui Trakl si tolse la vita”.  Poco prima, Nove ha ricalcato Grodek, la poesia suprema e terribile di Trakl, “La sera risuonano i boschi autunnali/ di armi mortali…”. Inabissarsi è anche un libro pieno di poesie – poesie che sono un allarme, poesie disarmate.  Inabissarsi significa anche catapultarsi in una catabasi. Che faccia male è certo. I morti fanno le capriole. A volte, hanno una cresta di aculei sulla schiena. In Inabissarsi si parla di Ivano Fermini. Si parla anche di Milo De Angelis e di Nicola Crocetti, di Franco Buffoni e di Silvio Raffo. Si parla di Elio Pagliarani che compra le arance. Qualcuno – forse Cesare Cavalleri – mi ha parlato di come Eugenio Montale comprava i carciofi. Ecco. “La consapevolezza di un’arancia”. Così scrive Aldo Nove per farci capire cos’è un poeta. Attraversare la crosta del frutto, “intuirne le proprietà, quasi fosse un pianeta”. Come le arance di Cézanne, come la melità delle mele di Cézanne che tanto affascinò Rilke.  Un capitolo di Inabissarsi è dedicato a Ivano Fermini. Nato a Bolzano, trasferitosi a Milano, fece, a moti ondivaghi, l’operaio, “aveva degli enormi baffi neri”. Fermini è morto vent’anni fa. Un giorno Fermini chiede a Nove se può vivere con lui e Tiziana, “una ragazza a cui volevo molto bene, ovviamente fino a che non ci siamo detestati a vicenda”. La cosa “non era possibile né aveva senso”. Il poeta si dilegua. “Da quel giorno non lo vedemmo più”.  I poeti fanno così. A volte si disintegrano davanti ai nostri occhi per eccesso di prossimità. A volte i poeti fanno la crisalide. A volte i poeti sono come l’acqua in un secchio. Devi annaffiare le piante prima che si affollino, a carapace, le zanzare.  Aldo Nove ha scritto che nella poesia di Fermini “tutto è primordiale. E succede per la prima volta”. Abbiamo deciso di ripubblicare, dopo troppi anni, le sue poesie, scollegate da ogni oggi, impossibili, bellissime.  Inabissarsi è dedicato a Federica Fracassi, l’attrice, e inizia con “lo schifo assoluto di questo momento storico, la vergogna quotidiana di essere passati alla forma più sofisticata ed efficace di dittatura, quella delle nostre menti…”. Questo scrive a pagina 10 Aldo Nove: > “Una poesia senza vita è nulla, oppure uno degli ennesimi giochi imperanti > della finanza globale, cioè il fantasma mortale di qualcosa che non ha altro > scopo che rapinare energia all’umano tradito, quasi ormai estinto. > > Una vita senza poesia è la trasformazione in atto dei «cittadini», o meglio > degli umani, in automi obbedienti e non pensanti, quasi non più senzienti per > la propria acquisita organicità a un gioco astratto di cifre appresso alle > quali correre affannosamente per mantenere in piedi il nostro puro dato > biologico”. Il libro è costellato da fotografie di poeti – poeti fanciulli, eterni puer. Amelia Rosselli bambina sulle spalle del papà, ad esempio.  Si parla – con ampiezza d’aquila – di Lorenzo Calogero, l’abbagliante poeta di Melicuccà, Calabria.  Che libro superbamente eversivo, questo. Eversione perfino dal verso, dal fare il verso a se stessi – c’è qualcosa di messianico nel poeta (quello vero, non supino all’oggi, suino, alieno alla biada della fama, sfamato dai cieli) messo alla gogna, insinuato nell’insulto, solitamente sputato, che spunta dove meno credi.  Un giorno mi scrive “sono 8+3-2”; un giorno mi chiama “brillo” – brillio, dico. Di Nicola Crocetti ricorda, “mi ha insegnato una fedeltà assoluta, nella totale incuria verso il misero interesse personale”; ricorda che è stato “spesso tradito da personaggi infami che ne hanno intuito e sfruttato biecamente la sprezzante indifferenza verso il denaro”.  Insomma, parte un dialogo – all’incirca. Accerchiati da questo continuo crollo. Come se il crepitio fosse uno scrivere a crepapelle – i volti posti all’azzurro e congioire dei fiori, un rogo.   Scrivi: “La poesia è un destino. Il destino di chi libera tutti”. Cosa significa? La poesia (e il poeta, che ne è “l’umile messaggero”, per citare Nanni Balestrini) esiste proprio in quanto destino, il che, mi sembra, indica una sorta di escatologia empirica, immediata: “adesso”. Provo a dirlo diversamente: la poesia disvela che non c’è nulla da svelare se non la trappola del  linguaggio, che il poeta sbroglia nell’atto della scrittura. Quell’attimo di attività paradossale è il destino (di libertà, di autenticità) della poesia. Che rapporto c’è tra il poeta è la Storia? Il poeta è nel mondo o è fuori dal mondo – è mondo o immondo? Come diceva Borges a proposito di Dante, entrambe le cose. “Movimento dello spirito nel tempo”, a inaugurarne le stagioni e gli abissi. La Storia del resto è fare narrazione… i fatti… esistono? Esiste a tuo dire un rapporto consustanziale tra il poeta, l’uomo poeta, e la sua poesia? Intendo, tra estetica ed etica? Credo di sì ma è una questione talmente personale da sfuggire a qualunque etichetta. Poeti si è se si vive la poesia. Altrimenti, come diceva Rilke in Lettere a un giovane poeta, è davvero meglio lasciare perdere e guardare San Remo. Qual è il poeta che ti ha affascinato, la poesia che ti ha folgorato? Ora c’è la disadorna di Milo De Angelis e Invece della rivoluzione di Nanni Balestrini. Due scarti, nella mia vita, improvvisi e totali. Che cos’è lo ‘spirito’? Qual è la tua poetica dell’esistere? “Trasumanar per verba non si poria”. Scrivi, in sostanza, che la poesia è una liberazione dalla “trappola” del quotidiano? Poesia, allora, sempre sovversiva, eversiva? Ma a cosa serve infine la poesia? La poesia serve a distruggere lo squallore del quotidiano per riportarlo alla sua materialità e ricostruirlo. Dura poco… è un gioioso, o se non è gioioso ne vale la pena, mito tra Sisifo e Ulisse incantato dalle Sirene. Nel tuo canone portatile quali sono i poeti primari, i poeti re? Tanti, troppi. I già citati Balestrini e De Angelis, tra i contemporanei, insieme a Valduga e Lamarque. Nella seconda metà del Novecento Giudici e Zanzotto. E poi la triade Carducci Pascoli D’Annunzio. E indietro Tasso e ovviamente Dante. E i Salmi…  La poesia a scuola: come si fa, cosa bisogna fare? Escluderla. La scuola attualmente non ha nulla a che fare con la poesia. La si conosce altrove. Chi ne ha bisogno la trova. Parlano di Scurati, oscurando Georg Trakl: perché? Cos’è questa cosa detta ‘cultura’? Si segue chi “ave del suo cul fatto trombetta” (Dante, nelle Malebolge). Siamo in una scorreggioteca. La cultura è nelle catacombe. È nelle catacombe che si dipanò nel mondo e nei secoli il messaggio cristiano. Tutto ciò che si propone come ‘culturale’, oggi, è merda che crea hype: più puzza, più se ne parla. Si deve ricominciare da zero. Anzi da tre, come diceva il grande Troisi. E pochi ma buoni lo stanno facendo. Tra tutti, immenso, Nicola Crocetti. L'articolo “Siamo in una scorreggioteca. Si deve ricominciare da zero”. Ovvero: sulla poesia come destino. Dialogo con Aldo Nove  proviene da Pangea.
April 7, 2025 / Pangea
Lorenzo Calogero, il poeta assoluto
Ha in mano una borsa piena di poesia. Gli occhialini tondi, lo sguardo volto verso dove i più grandi, suoi simili, hanno guardato: Hölderlin, Dickinson, Celan. Vuole offrirci un dono immenso. Mentre un’orchidea ora splende nella mano.  Vuole essere ascoltato.  Non vuole essere capito…  Non siamo noi a dover capire Calogero.  Ci ha capiti lui. Ci ha contenuti nella sua vertiginosa movenza tellurica, e quotidiana, plasmando e riplasmando il mondo sul secco accento delle sue immaginifiche parole che delimitano la scoscesa assunzione di un Tutto diverso, a noi alieno eppure così vicino.  Lo potremo chiamare anima. O mistero.  Il mistero del rispecchiarsi eterno, una nell’altra, della vita e della morte.  Nelle peregrinazioni di uno Spirito che è quello di noi tutti.  Si tratta allora di accettare il suo gesto, e in quello finalmente ritrovarsi, dopo le ritrosie di troppi decenni. È giunto il momento di dare nuovamente voce al più grande poeta italiano del Novecento, e di farlo lontano dai pavidi, o invidiosi, tentennamenti dei lustri che ci separano dalla sua morte terrena. Che il suo respiro possa movimentare i nostri spiriti, purificare i nostri tormenti, se “poesia può essere una svolta del respiro”, come ebbe a scrivere il già citato Paul Celan, certo il più affine poeta del suo tempo a Lorenzo Calogero. Un respiro simbolo delle umane sofferenze e delle umane gioie, quantunque le prime prevalgano sulle seconde, come l’amato Leopardi ci ricorda, in quel viaggio che tutti i poeti (e gli amanti della poesia) unisce: da Omero a Virgilio, da Dante a Foscolo, da Leopardi a Pascoli, da Ungaretti a Zanzotto.  Ovviamente nella sua straziante, sublime peculiarità, l’opera intera di Calogero si presenta a una prima lettura quasi “impersonale”. Ho messo le virgolette perché l’impersonalità delle sue poesie mette in scena simultaneamente l’io e il tu, il noi e il voi. Perché a parlare in lui è la Poesia stessa. Anche quando si riferisce direttamente a sé stesso, o alla donna amata, uno scarto improvviso lo porta, e ci porta, Altrove. “Altrove” è una modalità dello sguardo, capace di unire soggetto e oggetto e svolgerli poi nelle peripezie del canto. La sua poesia non ha inizio né fine, né troppo deve insidiarci la mole immensa del suo lavoro. Poesia in greco significa “fare”, ed il suo è stato un ininterrotto agire nei segreti della corrispondenza tra le parole e le cose, suo esercizio unico e sublime, quasi a plasmarne, il demiurgo di Melicuccà, la sterminata possibilità degli universi in potenza per farli emergere nell’atto concreto della scrittura e poi rituffarvisi dentro, trascinando con sé il lettore accondiscendente.  “Accondiscendente” perché il sentiero orfico (come e più che in Dino Campana, l’unico che si sia avvicinato, in Italia, alle sue altezze e ai suoi abissi) non richiede la comprensione letterale del suo cammino. Vietata assolutamente la parafrasi. Si lascia svelare (velare, nascondere due volte, fino allo sfinimento delle apparenze) nel suo percorso che tutto include, per quanto si colgano i paesaggi della sua Calabria, quello che effettivamente in vita ha visto, ma quasi a dissimulare uno smarcamento dal simbolico al vero, passando attraverso il reale. Lacanianamente, se “l’inconscio è strutturato come un linguaggio”, Calogero compie l’operazione alchemica della sua rettificazione, rende la struttura dell’inconscio come linguaggio, nell’immensa danza di Šiva, il Dio che distrugge (le forme) perché possano riemergere nuove, attraverso un esodo dal linguaggio che ne diventa materia cesellata nell’intelaiatura di quella che chiameremo poesia. Ora, è opportuno ricordare la sapiente quanto apparentemente ambigua formula di Edoardo Sanguineti: “La poesia è sempre impoetica” (lo stesso Sanguineti, con pari acume, ebbe anche a segnalare che la poesia, infine, “è il vero naso di Cleopatra”). Insomma, è nella dimensione dello straniamento che la poesia in quanto tale ci si offre, pena il declassamento in quel “poetichese” dal quale Calogero si astenne con estremo rigore, sempre. Non è mai, la sua, una “bella poesia”. Piuttosto è sublime, nell’accezione che dallo pseudo–Longino al Rilke delle Elegie Duinesi è stata teorizzata come “tremenda”.  L’inizio di un’impervia ascensione.  Il trascendente in un quotidiano sempre infranto dal battito cardiaco del sole mediterraneo.  Va detto che è da spazzare via l’immagine dell’uomo Calogero che la pur preziosissima testimonianza di Giuseppe Tedeschi ci ha lasciato. Quella un po’ distorta del poeta sfigato elemosinante attenzioni che mai gli vennero fornite. Piuttosto, anche nell’atto risolutivo della sua esistenza terrena, va ritrovata la baldanza sacrale di un Majakovskij, il sigillo a un’impossibile danza che trasforma la sua tomba (quella materiale, nel cimitero del suo paese natio) in oscillazione perpetua che è origine dell’universo e sua riproposta. L’oracolo dice e non dice, accenna: con in più, nel caso di Calogero, una componente di forza materica, diremmo pure sensuale, che rende, straniatamente, il suo essere poeta universale quanto calabrese, etereo e concreto (la poesia, si sa, vive di ossimori) assieme, particella e onda in assenza di un osservatore che pure tutto scruta, immoto. Una poesia come quella di Calogero fa paura.  Vincerne la paura è quanto di più peculiarmente umano ci è dato, ed è proprio la poesia vera a indicarcene la strada e a donarcene la necessaria strumentazione, dal viaggio di Ulisse a quello dantesco, perché il prezzo dell’ascensione è il pericolo, come quello di ogni scoperta. Così è sempre stato e sempre sarà, oltre l’opaco canto delle Sirene, della versificazione gratificante che tanto ha azzoppato e azzoppa poeti pur celebri o celeberrimi, compresi quelli coevi a Calogero e che lui aveva ben studiato e in alcuni casi amato, spesso a loro appellandosi inutilmente (ad eccezione di Leonardo Sinisgalli, che seppe coglierne, in vita, l’esuberante porsi ai limiti del nostro raziocinio, e tanto spesso abbandonandone l’angustia perifericità) perché troppo oltre, oppure per un certo provincialismo di cui l’Italia ha saputo assai raramente liberarsi: ad esempio, giusto due anni dopo la scomparsa di Calogero, ed almeno negli intenti, in quelle neoavanguardie che provarono a romperne l’elegante quanto ormai decadente, se non proprio decaduto, impedimento a infrangere schemi fossilizzati in un manierismo, vuoi realistico vuoi ermetico, da asfittico salotto letterario. Non che oggi sia cambiato molto: i veri poeti sono sempre pochissimi ed eccezionali, gli altri possono anche vincere i Nobel per la Letteratura ma non disfarsi di canoni, in quanto tali, destinati ad invecchiare e poi a svanire. Con buona pace di Quasimodo e Montale.  Calogero, con chi lo legge, scopre e segue altri percorsi. I suoi testi più radicali mi ricordano, sul piano del contenuto quanto quello delle forme, il “punto d’unione” dello “sciamanesimo tolteco”, che tanta eco ebbe in Italia, nel decennio successivo alla scomparsa del poeta di Melicuccà, con la diffusione delle narrazioni di Carlos Castaneda. Il punto d’unione sarebbe ciò che ci collega tutti alla stessa “immagine” (immagine, sottolineiamo, che sempre muta e che menti più sottili sanno cogliere nella sua fantasmagoria immaginifica) del mondo. E in realtà, nell’originale spagnolo “punto d’unione” significa “ricamo, intreccio all’uncinetto”: un’elaborata trama di visioni che ai più appare statica, ma che Calogero ci mostra nella sua lunare, continua elaborazione di orlati tessuti di “pezzi di reale” (diremmo nel gergo della psicanalisi strutturalista), in un metafisico caleidoscopio che ha i colori dell’anima, colti nel loro incessante divenire.  Classico è “il nuovo che resta nuovo”, scrisse con rara efficacia Ezra Pound, che con il poeta di Melicuccà condivide, oltre la grandezza, una certa “incomprensibilità” secondo i canoni a cui abbiamo già accennato. Il canto di Lorenzo Calogero è tanto altro quanto per tutti. Basta lasciarsi trasportare. A chi scrive è capitato più volte di leggere versi di Calogero a non addetti ai lavori, e specialmente bambini, affascinati per non dire sconvolti dalla sua potenza. Si tratta di accettarlo così com’è, senza scomodare troppo la parte sinistra del cervello e il suo bailamme controsapienziale, che alla poesia non si confà se non in ambito strettamente accademico, dove certo è utile, utilissimo il lavoro filologico, ma sempre sul filo della sua refertazione, asettica e, nel caso di Calogero, simile a una vera e propria trappola da cui va assolutamente liberata. La poesia è, potremmo dire oggi con un termine preso in prestito dalla musica rock (e pop), “punk”. Sfascia gli argini, distorce la tradizione per rioffrircela rivitalizzata, nello scandalo della bellezza impudica, in quella, direbbe Milo De Angelis, “umiltà di una porta” che, proprio perché colta in quanto tale, si rovescia e diventa epifania, agnizione dell’insperato.  Tutto in Lorenzo Calogero è illuminato.  E tempi oscuri come il nostro ne hanno un immenso bisogno. Aldo Nove * Da Quaderni di Villa Nuccia III Sceglievo poche cose e questa vita dall’arsura del ponte  era così proclive; ma non volevo  allontanarmi dai luoghi amati.  Sceglievo fra due rose rosse e tu, primula, forse mi sai dire come soavemente avvennero le contese, prima che si presentasse in luogo di un luogo amato la faccia lungimirante cortese di Dio… * VI A tavola rasa, ma tu non questo mattino eri desta. Se sapevo qualcosa che nel cuore scivola e simula la sua meraviglia tu non questo specchio d’acqua eri o capelli che scendono lungo il corpo in questo sorgimento d’astri e giuocano sul fianco o la tua caviglia. * VIII Ancora eri in attesa e poi era la vana vanità del giorno. Mi dispiacque e i pensieri a stormo passavano cortissimi e i supplizi erano il pensiero più disadorno quelli alla cui rupe del tempo era un faggio intorno. Mi piacque cantare ma tu eri di là forse un frassino, un pensiero che più non concedi. Una musica forse vagava di là come quella che più non concedi.  Erano fili esili di api intorno e se a te ritorno… Capre vagavano per l’azzurra siepe nei vaghi interstizi dei silenzi del mondo… * XVI  …Ma passeggiando di nottetempo odo questo cinguettio e un’allodola è come una fronda, una luce calata dal desiderio del cielo. Ma, vedi, sono costretto anch’io e ai piedi, umile, è una tomba e quando spira vento autunnale sono vento anch’io. * XXI …Nastri lisci erano di uccelli e un’orchidea nera fra i baci vespertini, ora, s’aggrotta. Tu eri nera tumida ai capelli e così, per questa vasta oasi, fuggitiva sopra l’acque in un riverbero di rose… * XXVIII  …Hai di nocciolo la luce del monte verso cui fievolmente inclini o rispondi: è il latte, il cuore tardo del monte nel cuore della penombra, quando, fissato il silenzio perduto vissuto in due esso era in disparte. Tu l’appennino contemplavi dalla sedia; e che era questo screzio di cui io non ero parte? Tu in minutissimi, piccolissime ansie lo facevi di un perduto andirivieni. E questo per la liquida ricchezza della sommità dei boschi.                                                      Ma tu di chi facevi parte in trasparenza? Da Lorenzo Calogero, Poesie scelte 1932-1960, Edizioni Lyriks, Cittanova (RC) 2024 *L’ultimo numero di “Poesia” (Vol. 30, Marzo/Aprile) è dedicato a Lorenzo Calogero; qui si anticipa per gentile concessione il testo di Aldo Nove  L'articolo Lorenzo Calogero, il poeta assoluto proviene da Pangea.
March 19, 2025 / Pangea