Ha in mano una borsa piena di poesia. Gli occhialini tondi, lo sguardo volto
verso dove i più grandi, suoi simili, hanno guardato: Hölderlin, Dickinson,
Celan. Vuole offrirci un dono immenso. Mentre un’orchidea ora splende nella
mano.
Vuole essere ascoltato.
Non vuole essere capito…
Non siamo noi a dover capire Calogero.
Ci ha capiti lui. Ci ha contenuti nella sua vertiginosa movenza tellurica, e
quotidiana, plasmando e riplasmando il mondo sul secco accento delle sue
immaginifiche parole che delimitano la scoscesa assunzione di un Tutto diverso,
a noi alieno eppure così vicino.
Lo potremo chiamare anima. O mistero.
Il mistero del rispecchiarsi eterno, una nell’altra, della vita e della morte.
Nelle peregrinazioni di uno Spirito che è quello di noi tutti.
Si tratta allora di accettare il suo gesto, e in quello finalmente ritrovarsi,
dopo le ritrosie di troppi decenni. È giunto il momento di dare nuovamente voce
al più grande poeta italiano del Novecento, e di farlo lontano dai pavidi, o
invidiosi, tentennamenti dei lustri che ci separano dalla sua morte terrena. Che
il suo respiro possa movimentare i nostri spiriti, purificare i nostri tormenti,
se “poesia può essere una svolta del respiro”, come ebbe a scrivere il già
citato Paul Celan, certo il più affine poeta del suo tempo a Lorenzo Calogero.
Un respiro simbolo delle umane sofferenze e delle umane gioie, quantunque le
prime prevalgano sulle seconde, come l’amato Leopardi ci ricorda, in quel
viaggio che tutti i poeti (e gli amanti della poesia) unisce: da Omero a
Virgilio, da Dante a Foscolo, da Leopardi a Pascoli, da Ungaretti a Zanzotto.
Ovviamente nella sua straziante, sublime peculiarità, l’opera intera di Calogero
si presenta a una prima lettura quasi “impersonale”. Ho messo le virgolette
perché l’impersonalità delle sue poesie mette in scena simultaneamente l’io e il
tu, il noi e il voi. Perché a parlare in lui è la Poesia stessa. Anche quando si
riferisce direttamente a sé stesso, o alla donna amata, uno scarto improvviso lo
porta, e ci porta, Altrove. “Altrove” è una modalità dello sguardo, capace di
unire soggetto e oggetto e svolgerli poi nelle peripezie del canto. La sua
poesia non ha inizio né fine, né troppo deve insidiarci la mole immensa del suo
lavoro. Poesia in greco significa “fare”, ed il suo è stato un ininterrotto
agire nei segreti della corrispondenza tra le parole e le cose, suo esercizio
unico e sublime, quasi a plasmarne, il demiurgo di Melicuccà, la sterminata
possibilità degli universi in potenza per farli emergere nell’atto concreto
della scrittura e poi rituffarvisi dentro, trascinando con sé il lettore
accondiscendente.
“Accondiscendente” perché il sentiero orfico (come e più che in Dino Campana,
l’unico che si sia avvicinato, in Italia, alle sue altezze e ai suoi abissi) non
richiede la comprensione letterale del suo cammino. Vietata assolutamente la
parafrasi. Si lascia svelare (velare, nascondere due volte, fino allo sfinimento
delle apparenze) nel suo percorso che tutto include, per quanto si colgano i
paesaggi della sua Calabria, quello che effettivamente in vita ha visto, ma
quasi a dissimulare uno smarcamento dal simbolico al vero, passando attraverso
il reale. Lacanianamente, se “l’inconscio è strutturato come un linguaggio”,
Calogero compie l’operazione alchemica della sua rettificazione, rende la
struttura dell’inconscio come linguaggio, nell’immensa danza di Šiva, il Dio che
distrugge (le forme) perché possano riemergere nuove, attraverso un esodo dal
linguaggio che ne diventa materia cesellata nell’intelaiatura di quella che
chiameremo poesia. Ora, è opportuno ricordare la sapiente quanto apparentemente
ambigua formula di Edoardo Sanguineti: “La poesia è sempre impoetica” (lo stesso
Sanguineti, con pari acume, ebbe anche a segnalare che la poesia, infine, “è il
vero naso di Cleopatra”). Insomma, è nella dimensione dello straniamento che la
poesia in quanto tale ci si offre, pena il declassamento in quel “poetichese”
dal quale Calogero si astenne con estremo rigore, sempre. Non è mai, la sua, una
“bella poesia”. Piuttosto è sublime, nell’accezione che dallo pseudo–Longino al
Rilke delle Elegie Duinesi è stata teorizzata come “tremenda”.
L’inizio di un’impervia ascensione.
Il trascendente in un quotidiano sempre infranto dal battito cardiaco del sole
mediterraneo.
Va detto che è da spazzare via l’immagine dell’uomo Calogero che la pur
preziosissima testimonianza di Giuseppe Tedeschi ci ha lasciato. Quella un po’
distorta del poeta sfigato elemosinante attenzioni che mai gli vennero
fornite. Piuttosto, anche nell’atto risolutivo della sua esistenza terrena, va
ritrovata la baldanza sacrale di un Majakovskij, il sigillo a un’impossibile
danza che trasforma la sua tomba (quella materiale, nel cimitero del suo paese
natio) in oscillazione perpetua che è origine dell’universo e sua riproposta.
L’oracolo dice e non dice, accenna: con in più, nel caso di Calogero, una
componente di forza materica, diremmo pure sensuale, che rende, straniatamente,
il suo essere poeta universale quanto calabrese, etereo e concreto (la poesia,
si sa, vive di ossimori) assieme, particella e onda in assenza di un osservatore
che pure tutto scruta, immoto. Una poesia come quella di Calogero fa paura.
Vincerne la paura è quanto di più peculiarmente umano ci è dato, ed è proprio la
poesia vera a indicarcene la strada e a donarcene la necessaria strumentazione,
dal viaggio di Ulisse a quello dantesco, perché il prezzo dell’ascensione è il
pericolo, come quello di ogni scoperta. Così è sempre stato e sempre sarà, oltre
l’opaco canto delle Sirene, della versificazione gratificante che tanto ha
azzoppato e azzoppa poeti pur celebri o celeberrimi, compresi quelli coevi a
Calogero e che lui aveva ben studiato e in alcuni casi amato, spesso a loro
appellandosi inutilmente (ad eccezione di Leonardo Sinisgalli, che seppe
coglierne, in vita, l’esuberante porsi ai limiti del nostro raziocinio, e tanto
spesso abbandonandone l’angustia perifericità) perché troppo oltre, oppure per
un certo provincialismo di cui l’Italia ha saputo assai raramente liberarsi: ad
esempio, giusto due anni dopo la scomparsa di Calogero, ed almeno negli intenti,
in quelle neoavanguardie che provarono a romperne l’elegante quanto ormai
decadente, se non proprio decaduto, impedimento a infrangere schemi fossilizzati
in un manierismo, vuoi realistico vuoi ermetico, da asfittico salotto
letterario. Non che oggi sia cambiato molto: i veri poeti sono sempre pochissimi
ed eccezionali, gli altri possono anche vincere i Nobel per la Letteratura ma
non disfarsi di canoni, in quanto tali, destinati ad invecchiare e poi a
svanire. Con buona pace di Quasimodo e Montale.
Calogero, con chi lo legge, scopre e segue altri percorsi. I suoi testi più
radicali mi ricordano, sul piano del contenuto quanto quello delle forme, il
“punto d’unione” dello “sciamanesimo tolteco”, che tanta eco ebbe in Italia, nel
decennio successivo alla scomparsa del poeta di Melicuccà, con la diffusione
delle narrazioni di Carlos Castaneda. Il punto d’unione sarebbe ciò che ci
collega tutti alla stessa “immagine” (immagine, sottolineiamo, che sempre muta e
che menti più sottili sanno cogliere nella sua fantasmagoria immaginifica) del
mondo. E in realtà, nell’originale spagnolo “punto d’unione” significa “ricamo,
intreccio all’uncinetto”: un’elaborata trama di visioni che ai più appare
statica, ma che Calogero ci mostra nella sua lunare, continua elaborazione di
orlati tessuti di “pezzi di reale” (diremmo nel gergo della psicanalisi
strutturalista), in un metafisico caleidoscopio che ha i colori dell’anima,
colti nel loro incessante divenire.
Classico è “il nuovo che resta nuovo”, scrisse con rara efficacia Ezra Pound,
che con il poeta di Melicuccà condivide, oltre la grandezza, una certa
“incomprensibilità” secondo i canoni a cui abbiamo già accennato. Il canto di
Lorenzo Calogero è tanto altro quanto per tutti. Basta lasciarsi trasportare. A
chi scrive è capitato più volte di leggere versi di Calogero a non addetti ai
lavori, e specialmente bambini, affascinati per non dire sconvolti dalla sua
potenza. Si tratta di accettarlo così com’è, senza scomodare troppo la parte
sinistra del cervello e il suo bailamme controsapienziale, che alla poesia non
si confà se non in ambito strettamente accademico, dove certo è utile,
utilissimo il lavoro filologico, ma sempre sul filo della sua refertazione,
asettica e, nel caso di Calogero, simile a una vera e propria trappola da cui va
assolutamente liberata. La poesia è, potremmo dire oggi con un termine preso in
prestito dalla musica rock (e pop), “punk”. Sfascia gli argini, distorce la
tradizione per rioffrircela rivitalizzata, nello scandalo della bellezza
impudica, in quella, direbbe Milo De Angelis, “umiltà di una porta” che, proprio
perché colta in quanto tale, si rovescia e diventa epifania, agnizione
dell’insperato.
Tutto in Lorenzo Calogero è illuminato.
E tempi oscuri come il nostro ne hanno un immenso bisogno.
Aldo Nove
*
Da Quaderni di Villa Nuccia
III
Sceglievo poche cose
e questa vita dall’arsura del ponte
era così proclive; ma non volevo
allontanarmi dai luoghi amati.
Sceglievo fra due rose rosse
e tu, primula, forse mi sai dire
come soavemente avvennero
le contese, prima che si presentasse
in luogo di un luogo amato
la faccia lungimirante
cortese di Dio…
*
VI
A tavola rasa,
ma tu non questo mattino eri desta.
Se sapevo qualcosa che nel cuore scivola
e simula la sua meraviglia
tu non questo specchio d’acqua eri
o capelli che scendono lungo il corpo
in questo sorgimento d’astri
e giuocano sul fianco o la tua caviglia.
*
VIII
Ancora eri in attesa
e poi era la vana vanità del giorno.
Mi dispiacque e i pensieri a stormo
passavano cortissimi
e i supplizi erano il pensiero più disadorno
quelli alla cui rupe del tempo
era un faggio intorno.
Mi piacque cantare
ma tu eri di là
forse un frassino, un pensiero
che più non concedi.
Una musica forse vagava di là
come quella che più non concedi.
Erano fili esili di api intorno
e se a te ritorno…
Capre vagavano per l’azzurra siepe
nei vaghi interstizi
dei silenzi del mondo…
*
XVI
…Ma passeggiando di nottetempo
odo questo cinguettio
e un’allodola è come una fronda,
una luce calata dal desiderio del cielo.
Ma, vedi, sono costretto anch’io
e ai piedi, umile, è una tomba
e quando spira vento autunnale
sono vento anch’io.
*
XXI
…Nastri lisci erano di uccelli
e un’orchidea nera fra i baci
vespertini, ora, s’aggrotta.
Tu eri nera tumida ai capelli
e così, per questa vasta oasi,
fuggitiva sopra l’acque
in un riverbero di rose…
*
XXVIII
…Hai di nocciolo la luce
del monte verso cui fievolmente inclini
o rispondi: è il latte, il cuore tardo del monte
nel cuore della penombra, quando,
fissato il silenzio perduto vissuto in due
esso era in disparte.
Tu l’appennino contemplavi dalla sedia;
e che era questo screzio
di cui io non ero parte?
Tu in minutissimi,
piccolissime ansie lo facevi
di un perduto andirivieni.
E questo per la liquida ricchezza
della sommità dei boschi.
Ma tu di chi
facevi parte in trasparenza?
Da Lorenzo Calogero, Poesie scelte 1932-1960, Edizioni Lyriks, Cittanova (RC)
2024
*L’ultimo numero di “Poesia” (Vol. 30, Marzo/Aprile) è dedicato a Lorenzo
Calogero; qui si anticipa per gentile concessione il testo di Aldo Nove
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