“Il cuore di un lupo mannaro”. Viaggio in Oriente con Kenneth Rexroth

Pangea - Saturday, April 12, 2025

Nel 1978, per la Christopher’s Books di Santa Barbara, piccola editrice eletta all’anticonformismo, esce un libro di spregiudicata bellezza. S’intitola The Love Poems of Marichiko; in copertina spiccano aerei, ermetici calligrammi. Kenneth Rexroth, il traduttore, ha settantatré anni, è nato tre giorni prima del Natale del 1905, a South Bend, Indiana. Il padre, venditore di farmaci, alcolizzato, muore che Kenneth è un ragazzino, nel 1919; la madre se n’era andata tre anni prima. Cresciuto con gli zii, a Chicago, reso spregiudicato dalla solitudine, Kenneth a diciannove anni prende la strada, gira il paese in autostop, si dà a diversi lavori – quello più proficuo sembra essere stato la guardia forestale. “Trovai lavoro a Marblemount. Zaino in spalla, mi presentai presso il Forest Service. Mi aprì Tommy Thompson, un tipo meraviglioso. ‘Vieni a cena con noi. Forse ho qualcosa’. Era uno dei paesaggi più selvaggi degli Stati Uniti: non sapevo nulla di scienze forestali, non conoscevo le ruvide vertigini delle montagne. Da bambino, ero stato nelle Alpi. Tommy mi disse di aprire un sentiero, oltre il bosco, verso il ghiacciaio. Partii con una sega, un’ascia, cibo nello zaino per una settimana”. Così scrive Kenneth in uno dei suoi reperti autobiografici; che sono, poi, l’autobiografia di un paese, tra vendemmia di vento e metropoli nell’urlo.

Fronte ampia, baffi geroglifici, occhi pieni di pietà. Kenneth Rexroth pubblica il primo libro importante nel 1940, s’intitola In What Hour. Introdotto alla poesia da Louis Zukofsky, diventerà amico di Lawrence Ferlinghetti. A San Francisco, il 7 ottobre del 1955, è Rexroth il gran cerimoniere del leggendario “Six Gallery reading”, quello in cui Allen Ginsberg legge Howl, specie di Pentecoste dei Beat. Quando qualcuno gli dice di essere stato il profeta dei Beat, il Giovanni Battista di quella generazione di imbestiati e ‘battuti’, Rexroth si ribella – li credeva, Kerouac, Ginsberg & Co., tumefatti dalla fama, affratellati ai santi, in fondo, dei traditori. Lui era rimasto ciò che era: un uomo docilmente ribelle ai canoni imposti, un anarchico, un ulisside cercatore. Più prossimo al medianico Ezra Pound che al mediatico ribellismo di quella generation, Rexroth aveva tracciato da tempo la sua via verso Oriente: autodidatta, avventuriero dalla mente Bucefalo, per la New Directions aveva tradotto One Hundred Poems from the Japanese (1955) e One Hundred Poems from the Chinese (1956).

Implacabile poligrafo, animato da una curiosità, si direbbe, animalesca, Rexroth ha tradotto García Lorca e Machado, Pierre Reverdy e Antonin Artaud, Basho e Wang Wei, Saffo e Leopardi (L’infinito attacca così: “This lonely hill has always/ Been dear to me, and this thicket / Which shuts out most of the final/ Horizon from view…”). Nella prefazione a The Phoenix and the Tortoise (1944) dichiarò di rifarsi “a fonti ellenistiche, bizantine e tardo romane – e a Marziale”. La poesia si sviluppava secondo “un più o meno sistematico, più o meno preciso punto di vista”; il poeta dichiarava il proprio “senso di disperazione e di abbandono di fronte al collasso di un intero sistema di valori culturali”. La raccolta era dedicata a David Herbert Lawrence – “morto nel tentativo di rifondare una famiglia spirituale” – e ad Albert Schweitzer, “l’uomo che, in questi tempi, ha realizzato il sogno di Leonardo da Vinci – Leonardo, che morì impotente, lasciando i suoi progetti a metà, che ha dimostrato che la volontà umana è una porta troppo stretta perché una persona possa forzarla verso l’universale”. 

Infaticabile ‘molestatore’ culturale, nel 1949 Rexroth firma un’antologia che raduna il meglio dei New British Poets, dedicata, in parti uguali, a James Laughlin, il suo editore, e, “come sempre”, alla moglie, Marie. Lì, senza tema di discepoli, sono stivati i poeti che seguono il dominio di Eliot e di W.H. Auden: George Barker e Hugh Macdiarmid, Lawrence Durrell e David Gascoyne, Stephen Spender e Denise Levertov. Il cuore dell’antologia è Dylan Thomas (“Non c’è dubbio che sia lui il giovane poeta più influente che scriva oggi in Inghilterra. L’unanimità con cui tutti, tranne gli irriducibili stalinisti e i versificatori domestici, da rivista, lo indicano come il più formidabile fenomeno della poesia contemporanea è semplicemente sbalorditiva”); mirabili le pagini introduttive:

“Dylan Thomas è sfacciato. Non si mostra mai a cuore aperto. Ti prende per il collo. Ti incunea il cuore in gola. Ti colpisce il muso con un cuore sanguinante e odoroso, un cuore pieno di vermi e di aghi, di nerosangue, spinato, il cuore di un lupo mannaro… Dylan Thomas scrive come se non avesse mai incontrato essere umano, come se non conoscesse lo spazzolino da denti. Non c’è nulla di male in questo. Egli è un capo selvaggio che guida la sua spedizione di cacciatori, per fare lo scalpo ai visi pallidi. Appartiene a una stirpe di eroi”. 

In fondo estraneo ai patronimici della fama, ai club, alle combine dei premi, spesso disperso in piccole edizioni d’arte, Rexroth ha scritto di William Blake e di Rimbaud, dei canti dei nativi americani e del jazz, di Isaac B. Singer e della controcultura americana, dell’Ecclesiaste e della Cabbala. Un suo saggio sonda i legami tra Coleridge e lo Zen; un articolo pubblicato sul “San Francisco Examiner” – di cui era editorialista – s’intitola The Tao of Fishing, esce nell’agosto del 1960: il mese prima si era occupato del teatro Kabuki e di Samuel Beckett. È difficile, intendo, trovare un poeta dagli interessi tanto poliedrici ed eterogenei: leggere Rexroth è una gioia del cervello, obbliga a una perpetua gimkana tra comodità e convenzioni, è un poeta sempre in allarme, Rexroth, è un poeta-sentinella, alle pendici di un evo appena intuito. Ha scritto, con la stesso assiduo, generoso genio, con l’audacia del perpetuo dilettante, del bambino eterno, di Simone Weil e degli haiku, di Matteo Ricci, il gesuita nato a Macerata che partì nel Cinquecento ad evangelizzare la Cina, e delle lettere di Van Gogh.

In Italia, tuttavia, Rexroth è per lo più un paria. L’ho conosciuto grazie a Flavio Santi: nel 1999, per Marcos y Marcos, ha curato l’antologia Su quale pianeta; esiste, ormai, nel mercato secondario. InternoPoesia, per la cura di Francesco Dalessandro, pubblicherà un mannello di “poesie scelte” come Lasciati celebrare.La celebreremo.  

Cristina Giorcelli ha scritto che Rexroth, “Tenace oppositore del materialismo contemporaneo, nutrì palingenetiche speranze nelle filosofie orientali e nella poesia. Nella sua visione, mistica e sensuale a un tempo, la poesia costituisce l’atto comunicativo, ‘sacramentale’, per eccellenza: in poesia, infatti, il suono, il ritmo, l’attenzione alla calligrafia (quale si rivela nella resa grafica delle traduzioni di Rexroth di poesia cinese e giapponese), la cura tipografica del testo, devono partecipare all’‘estasi del senso’”. 

In appendice, diamo minimo conto dell’affinità tra Rexroth e il mondo orientale: le sue traduzioni dicono – poundianamente – di un’armonia da lotofago, l’ingordigia della bellezza. Il poeta che traduce divorando. 

Rexroth morì a Santa Barbara nel giugno del 1982. Poco prima, si era convertito al cattolicesimo; nel 1978 aveva pubblicato come The Burning Heart una selezione di “poetesse giapponesi”. Fu una raccolta di successo, poi ripresa da New Directions: per la prima volta, si squarciavano i paraventi di un’era remota, di una femminilità irredenta. The Love Poems of Marichiko pareva un’appendice a quell’assiduo lavoro di ricerca. Le poesie sono delicatissime, scritte su veli di carta, da mollare ai venti:

“Fare l’amore con te
è come bere acqua di mare.
Più bevo
più sete mi setaccia
niente può placarla, se non:
bere il mare per intero”

“E un giorno, sei pollici di
cenere sarà ciò
che resta del nostro incendio
mentale, di tutto il mondo creato,
di questo amore, l’origine
la dissipazione”

Dietro il volto della giovane poetessa contemporanea Marichiko, si nascondeva Kenneth Rexroth. Estremo gioco d’ombre di un cannibale del linguaggio. Rexroth eccelleva nella poesia d’amore; l’arte dei famelici.

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GIAPPONE

Yosano Akiko

(1878-1942)

Neri i capelli
in mille rivoli annodati
annodati i capelli annosi
annodati nodosi ricordi
delle nostre infinite notti d’amore.

*

L’autunno sfiorisce:
nulla dura per sempre. 
Il fato sfata le nostre vite.
Accarezza i miei capezzoli
con le tue mani da manovale. 

*

Cogli i miei seni
squarcia ogni mistero
un fiore esplode
è cremisi e profuma. 

*

Fukao Sumako

(1895-1974)

Casa luminosa

Che casa luminosa:
nessuna stanza è resa al buio.

La casa si erge alta
sulle scogliere, scandita
come un faro. 

Quando arriva la notte
depongo una luce
una luce più grande del sole e della luna.

Pensa 
al mio cuore che si flette
quando con dita tremanti
accendo un fiammifero nella sera.

Sollevo il petto
inspiro ed espiro al rumore dell’amore
come la figlia del guardiano del faro. 

Questa è una casa luminosa.
Voglio creare un mondo
che nessun uomo può costruire. 

*

Noriko Ibaragi

(1926-2006)

La mente di una bambina

Ecco cosa aveva in mente una bambina:
perché la schiena delle mogli
odora così forte di magnolia
o di gardenia? 
Cos’è 
quel futile velo di nebbia
sulle spalle delle mogli?
Ne voleva avere 
quella meravigliosa cosa
che alle vergini è vietata. 

La bambina crebbe
divenne moglie – fu madre. 
Un giorno capì:
la tenerezza
che si ammucchia sulle spalle delle mogli
non è che fatica
di amare – amare giorno dopo giorno. 

*

CINA

Huang O

(1498-1569)

Sopra la melodia “Nuvole imbizzarrite”

Hai tenuto il mio fiore di loto
tra le labbra, hai slabbrato
il pistillo. Abbiamo rubato
un frammento del magico corno
del rinoceronte: insonni
per tutta la notte – per tutta
la notte la cresta leonina del gallo 
si è fermata. Per tutta la notte l’ape
si è incuneata tremando tra gli stami
del fiore. Oh mio dolce gioiello!
Soltanto il mio signore domina
sul sacro stagno di loto:
ogni notte fa esplodere in me
i suoi fiori di fuoco. 

*

Sun Yün-Feng 

(1764-1814)

Sulla strada, attraversando Chang-te

L’anno scorso ho attraversato questo luogo:
mi è piaciuto e sono felice di esserci ancora. 
Il mercato del pesce si inabissa tra ombre blu.
Da una locanda con il tetto di paglia
si snoda il fumo del tè. 
Le sabbie, a riva, interrano
la bianca luna: il fiume sussurra.
I salici attendono il verde
della ventura primavera.
I versi di una poesia mi lacerano.
L’ho preteso: fermi per un po’, destriero. 

*

Viaggio tra le montagne 

Il vento occidentale invita alla nostalgia:
la polvere del carro sale fino alle nubi – è sera. 
Le cicale fischiano tra le foglie ingiallite. 
Al tramonto l’ombra di un uomo è spaventosa
come una montagna – gli uccelli si ritirano tra i greti del sonno.
Vago senza fermarmi – ho perso la via di casa.
Mentre ammiro il fiume, un brivido
d’invidia per il pescatore che siede
in solitudine: pensa pensieri eleganti, senza peso. 

*

Qiu Jin

(1875-1907)

Una lettera alla Signora T’ao Ch’iu

Sono sola con la mia ombra
mormoro e scrivo strani 
caratteri nell’aria, come Yin Hao. 
Vino e malanni non mi spezzano
non soffro per chi non c’è più:
per avere ragione del mio cuore
Li Ch’ing-chao ha messo sotto 
torchio una città intera.
Nessuno può capirmi:
le mie visioni superano quelle
degli uomini che mi stanno al fianco – 
ma sopravvivere è impossibile. 
A cosa serve il cuore di un eroe
in abiti femminili?
Il mio destino è il rischio:
imploro il Cielo – le eroine
del passato hanno mai 
conosciuto l’invidia?

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