“Voleva vivere in perfetta solitudine”. L’incontro tra Samuel Beckett e Suor Juana Inés de la Cruz

Pangea - Monday, May 5, 2025

Sarebbe impossibile, oggi, definire Suor Juana Inés de la Cruz “una delle supreme figure simboliche in cui le donne moderne si sono riconosciute”. Eppure, così attaccava la ‘quarta’ delle Poesie di questa singolare e ineffabile personalità, tradotte da Roberto Paoli per la Bur nel 1983. Il libro – naturalmente, verrebbe da dire – fa parte di un’eternità non più libraria, è scomparso da cataloghi e scaffali; l’autrice è ormai un’innocua nota nei libri di storia, una chiosa capretta, tanto che pare paradossale l’enfasi con cui veniva presentata, allora:

“Voleva vivere in perfetta solitudine, leggendo, studiando e scrivendo, senza essere disturbata dal tumulto della vita. ‘Il mio calamaio è il rogo nel quale devo bruciarmi’, scrisse stupendamente. Pochi uomini possono vantare una così adamantina, superba, disperata tensione intellettuale come questa suora messicana: sognava di essere androgina, di dimenticare il suo sesso e ogni sesso, il suo corpo e l’intero regno dei corpi, tutte le vicissitudini delle sensazioni e dei sentimenti”.

Anche il libro Einaudi che raccoglie i Versi d’amore e di circostanza di Juana – uscito nella ‘bianca’ nel 1995, a cura di Angelo Morino – risulta “non disponibile”. Peccato perché i versi di questa donna astrale, estranea al tempo, che fu dama d’onore della viceregina, carmelitana scalza per una manciata di mesi, poi affiliata all’ordine di San Gerolamo, temuta per spregiudicato intelletto, di glaciale bellezza, sono tra i più alti dell’epoca, tra i più belli mai scritti in lingua spagnola. Rimedieremo. 

Chissà quali sono le “figure simboliche” in cui oggi si riconoscono le “donne moderne”… Non credo che Suor Juana possa essere addomesticata in simboli e in slogan: la sua mente, ferina, spaura; la sua libertà è violenta. Infine, si liberò della biblioteca – che contava oltre 4mila volumi, spesso ‘proibiti’ se non proibitivi – e degli strumenti musicali, che sapeva armeggiare. Chiuse anche con gli strumenti scientifici con cui si lambiccava, giocando all’alchimia – morì, troppo giovane, troppo altra, neppure cinquantenne, nel 1695, a causa di un’epidemia (si dedicò a curare le inferme, subendone il contagio). Leggeva, tra gli altri, Athanasius Kircher. A tratti, Suor Juana pare una delle donne dipinte da Zurbarán: Sant’Agata o Santa Elisabetta del Portogallo, evanescenti e feroci, con quel volto giaguaro. In lei, l’arguzia di Santa Teresa si svolge nell’aquila di Tenochtitlán: un’intelligenza dagli artigli tesi. Per darle giustizia ci vorrebbe la penna di Cristina Campo.

Perfino Samuel Beckett restò stordito dalla voracità linguistica di Suor Juana. Su ispirazione di Octavio Paz – che a Suor Juana dedicò parte della sua vita da studioso: Suor Juana o le insidie della fedecampeggiava, nel 1991, in catalogo Garzanti, ora si trova nel mercato alternativo – cominciò a tradurla. L’esito del suo lavoro – che contempla altri autori del Seicento come Bernardo de Balbuena e Juan Ruíz de Alarcón – fu pubblicato nel 1958 dalla Indiana University Press come An Anthology of Mexican Poetry transleted by Samuel Beckett. Nel 1994 l’antologia è stata ripubblicata da Grove Press. Il libro è smilzo, sobrio, ‘beckettiano’: nell’ala compare – guarda un po’ – Suor Juana, nel ritratto di Miguel Cabrera: “Posseduta da un’ardente curiosità intellettuale, ha difeso con forza il proprio diritto alla conoscenza, la propria sete di sapere, scrivendo, tra l’altro, liriche di rara bellezza”. 

Il 1958 è un anno importante per Beckett: traduce L’innominabile in inglese, scrive Acte sans Paroles, L’ultimo nastro di Krapp, Finale di partita. L’anno dopo il Trinity College lo investe del dottorato honoris causa. Credo che Beckett, in quel lotto di anni, sia stato invaso dal linguaggio di Suor Juana: esuberante, è vero, ma che esorbita fino ai confini dell’indicibile, dell’annientamento, per eccesso, di ogni lemma. Come sfregare due pietre d’oro perché accada una fiamma: è bianca, sa di acqua. Eppure – a dire dell’insignificanza di Suor Juana nei perigli della cultura d’oggi – non c’è cenno della Anthology of Mexican Poetry nel formidabile ‘Meridiano’ dedicato a Romanzi, teatro e televisione di Beckett. Eppure, è opera in cui coincidono – rarità al cubo – due futuri premi Nobel per la letteratura: Paz otterrà l’alloro nel 1990, ventuno anni dopo Beckett. Il punto di giunzione tra l’irlandese e il messicano è Antonin Artaud: credeva in misteriose analogie tra i Tarahumara, “razza di uomini perduti” nei recessi del Messico, e la civiltà delle Aran, tra il peyote e Bachall Isu, il mitico bastone di San Patrizio custodito – e poi bruciato – a Dublino. Soprattutto, modellò il linguaggio fino a farne magia, formula ipnotica.

Ad ogni modo, ecco come Samuel Beckett rende uno dei sonetti più noti di Suor Juana, Éste que ves, engaño colorido:

Questo frainteso a colori che tanto ammiri,
vanagloria dell’eccellenza artistica
non è che una furba frode dei sensi
in fallaci sillogismi di pittura;

questo, dico, adulazione da becchino
che estenua l’odioso orrore degli anni,
vaniloquente sconfitta degli oltraggi del tempo
trionfo sull’oblio e sulla vecchiaia,

è vano artificio della dedizione
è fragile fiore al vento
è inutile santuario del fato

sordida inerte opera vana, conquista 
che svanirà, ben fatta, certo, nient’altro 
che carcassa e polvere, ombra e nulla. 

Questa la traduzione, adesiva, di Paoli:

Questo, che vedi, colorato inganno
che dell’arte ostentando le bellezze
con falsi sillogismi di colori
è un inganno dei sensi malizioso;

questo, nel quale la lusinga ha osato
della vecchiaia eludere gli orrori
e sconfiggendo del tempo i rigori
trionfare sugli anni e sull’oblio,

è un artificio vano della cura,
è un fiore molto gracile nel vento,
è un inutile scudo contro il fato:

è una sciocca pazienza delirante,
è un affanno fugace e, a ben guardare,
è cadavere, è polvere, è ombra, è niente.

Un sapiente drammaturgo dovrebbe figurarsi il giorno in cui Samuel Beckett incontrerà Suor Juana – le chiederà di ispezionare la sua calotta cranica, riconoscendo gli stessi ghiacciai, un padre chiamato Antartide. Dopo averle baciato le dita, è ovvio – rese al giglio e all’acciaio, fatte iena. 

***

Da Primero sueño

Venere era, Venere 
per prima della bella stella 
del mattino adorna
brillò lungo l’alba
arcigna sposa del vecchio Titone. 
Amazzone di ardore rivestita
armata contro la notte
fatata e fatale
pianto di malinconia pianta
e mostra l’amabile fronte
tra i ramificati bagliori del mattino
tenero ma ferino araldo
dell’astro feroce
che viene, che viene
schierando gli scherani
e gli arcieri bagliori
la retroguardia 
di venerande veterane luci
contro di lei, tiranno usurpatore
dell’impero del giorno, mentre
cinghie di neri tuoni
trafiggono le ombre nottambule
fino ad atterrirla. 
Ma lei è bella, lei è l’avanguardia
dell’araldo del sole
che sventola il palio a Oriente
e chiama alle armi le mere, bellicose
genie dei rapaci:
che sia ingenua la loro fede
sonora come quella delle trombe
quando il tiranno, in rotta, trema
sconvolto da cupi presentimenti
e si sforza di elencare la sua leggendaria
potenza e controbatte con il funebre
mantello le infallibili
falci di luce
ed è vano il valore
della disperazione, futile
ogni resistenza, così inclina
alla fuga, unica via di salvezza
e il rauco corno erutta
e i neri battaglioni
retrattili in geometrica ritirata.
Ma una più arcana pienezza
di raggi squarciò le più alte cime
le torri del mondo. Il sole
recluso nel suo girovagare
rende oro l’azzurro
raggi di luce virginea
incidono il ceruleo cranio del cielo
si abbattono su quella
funesta tirannia. 
E lei fugge e lei inciampa
nei suoi stessi orrori
calpesta la sua ombra:
cieca fuga, luce che avanza
luce che incalza, che sfonda
il limite occidentale e la sfigura. 
Ma la caduta la vivifica
la rovina la imbeve di una
rinnovata ribellione 
e in quella parte di mondo
ignara del giorno
indossa ancora la corona
mentre nel nostro emisfero
il sole scuote la criniera
conferendo a ogni cosa 
il suo degno colore
affidando agli ancoraggi 
della luce il mondo – ora 
tutto è luce e posso destarmi. 

Versione di Samuel Beckett

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