Sarebbe impossibile, oggi, definire Suor Juana Inés de la Cruz “una delle
supreme figure simboliche in cui le donne moderne si sono riconosciute”. Eppure,
così attaccava la ‘quarta’ delle Poesie di questa singolare e ineffabile
personalità, tradotte da Roberto Paoli per la Bur nel 1983. Il libro –
naturalmente, verrebbe da dire – fa parte di un’eternità non più libraria, è
scomparso da cataloghi e scaffali; l’autrice è ormai un’innocua nota nei libri
di storia, una chiosa capretta, tanto che pare paradossale l’enfasi con cui
veniva presentata, allora:
> “Voleva vivere in perfetta solitudine, leggendo, studiando e scrivendo, senza
> essere disturbata dal tumulto della vita. ‘Il mio calamaio è il rogo nel quale
> devo bruciarmi’, scrisse stupendamente. Pochi uomini possono vantare una così
> adamantina, superba, disperata tensione intellettuale come questa suora
> messicana: sognava di essere androgina, di dimenticare il suo sesso e ogni
> sesso, il suo corpo e l’intero regno dei corpi, tutte le vicissitudini delle
> sensazioni e dei sentimenti”.
Anche il libro Einaudi che raccoglie i Versi d’amore e di circostanza di Juana –
uscito nella ‘bianca’ nel 1995, a cura di Angelo Morino – risulta “non
disponibile”. Peccato perché i versi di questa donna astrale, estranea al tempo,
che fu dama d’onore della viceregina, carmelitana scalza per una manciata di
mesi, poi affiliata all’ordine di San Gerolamo, temuta per spregiudicato
intelletto, di glaciale bellezza, sono tra i più alti dell’epoca, tra i più
belli mai scritti in lingua spagnola. Rimedieremo.
Chissà quali sono le “figure simboliche” in cui oggi si riconoscono le “donne
moderne”… Non credo che Suor Juana possa essere addomesticata in simboli e in
slogan: la sua mente, ferina, spaura; la sua libertà è violenta. Infine, si
liberò della biblioteca – che contava oltre 4mila volumi, spesso ‘proibiti’ se
non proibitivi – e degli strumenti musicali, che sapeva armeggiare. Chiuse anche
con gli strumenti scientifici con cui si lambiccava, giocando all’alchimia –
morì, troppo giovane, troppo altra, neppure cinquantenne, nel 1695, a causa di
un’epidemia (si dedicò a curare le inferme, subendone il contagio). Leggeva, tra
gli altri, Athanasius Kircher. A tratti, Suor Juana pare una delle donne dipinte
da Zurbarán: Sant’Agata o Santa Elisabetta del Portogallo, evanescenti e feroci,
con quel volto giaguaro. In lei, l’arguzia di Santa Teresa si svolge nell’aquila
di Tenochtitlán: un’intelligenza dagli artigli tesi. Per darle giustizia ci
vorrebbe la penna di Cristina Campo.
Perfino Samuel Beckett restò stordito dalla voracità linguistica di Suor Juana.
Su ispirazione di Octavio Paz – che a Suor Juana dedicò parte della sua vita da
studioso: Suor Juana o le insidie della fedecampeggiava, nel 1991, in catalogo
Garzanti, ora si trova nel mercato alternativo – cominciò a tradurla. L’esito
del suo lavoro – che contempla altri autori del Seicento come Bernardo de
Balbuena e Juan Ruíz de Alarcón – fu pubblicato nel 1958 dalla Indiana
University Press come An Anthology of Mexican Poetry transleted by Samuel
Beckett. Nel 1994 l’antologia è stata ripubblicata da Grove Press. Il libro è
smilzo, sobrio, ‘beckettiano’: nell’ala compare – guarda un po’ – Suor Juana,
nel ritratto di Miguel Cabrera: “Posseduta da un’ardente curiosità
intellettuale, ha difeso con forza il proprio diritto alla conoscenza, la
propria sete di sapere, scrivendo, tra l’altro, liriche di rara bellezza”.
Il 1958 è un anno importante per Beckett: traduce L’innominabile in inglese,
scrive Acte sans Paroles, L’ultimo nastro di Krapp, Finale di partita. L’anno
dopo il Trinity College lo investe del dottorato honoris causa. Credo che
Beckett, in quel lotto di anni, sia stato invaso dal linguaggio di Suor Juana:
esuberante, è vero, ma che esorbita fino ai confini dell’indicibile,
dell’annientamento, per eccesso, di ogni lemma. Come sfregare due pietre d’oro
perché accada una fiamma: è bianca, sa di acqua. Eppure – a dire
dell’insignificanza di Suor Juana nei perigli della cultura d’oggi – non c’è
cenno della Anthology of Mexican Poetry nel formidabile ‘Meridiano’ dedicato
a Romanzi, teatro e televisione di Beckett. Eppure, è opera in cui coincidono –
rarità al cubo – due futuri premi Nobel per la letteratura: Paz otterrà l’alloro
nel 1990, ventuno anni dopo Beckett. Il punto di giunzione tra l’irlandese e il
messicano è Antonin Artaud: credeva in misteriose analogie tra i Tarahumara,
“razza di uomini perduti” nei recessi del Messico, e la civiltà delle Aran, tra
il peyote e Bachall Isu, il mitico bastone di San Patrizio custodito – e poi
bruciato – a Dublino. Soprattutto, modellò il linguaggio fino a farne magia,
formula ipnotica.
Ad ogni modo, ecco come Samuel Beckett rende uno dei sonetti più noti di Suor
Juana, Éste que ves, engaño colorido:
Questo frainteso a colori che tanto ammiri,
vanagloria dell’eccellenza artistica
non è che una furba frode dei sensi
in fallaci sillogismi di pittura;
questo, dico, adulazione da becchino
che estenua l’odioso orrore degli anni,
vaniloquente sconfitta degli oltraggi del tempo
trionfo sull’oblio e sulla vecchiaia,
è vano artificio della dedizione
è fragile fiore al vento
è inutile santuario del fato
sordida inerte opera vana, conquista
che svanirà, ben fatta, certo, nient’altro
che carcassa e polvere, ombra e nulla.
Questa la traduzione, adesiva, di Paoli:
Questo, che vedi, colorato inganno
che dell’arte ostentando le bellezze
con falsi sillogismi di colori
è un inganno dei sensi malizioso;
questo, nel quale la lusinga ha osato
della vecchiaia eludere gli orrori
e sconfiggendo del tempo i rigori
trionfare sugli anni e sull’oblio,
è un artificio vano della cura,
è un fiore molto gracile nel vento,
è un inutile scudo contro il fato:
è una sciocca pazienza delirante,
è un affanno fugace e, a ben guardare,
è cadavere, è polvere, è ombra, è niente.
Un sapiente drammaturgo dovrebbe figurarsi il giorno in cui Samuel Beckett
incontrerà Suor Juana – le chiederà di ispezionare la sua calotta cranica,
riconoscendo gli stessi ghiacciai, un padre chiamato Antartide. Dopo averle
baciato le dita, è ovvio – rese al giglio e all’acciaio, fatte iena.
***
Da Primero sueño
Venere era, Venere
per prima della bella stella
del mattino adorna
brillò lungo l’alba
arcigna sposa del vecchio Titone.
Amazzone di ardore rivestita
armata contro la notte
fatata e fatale
pianto di malinconia pianta
e mostra l’amabile fronte
tra i ramificati bagliori del mattino
tenero ma ferino araldo
dell’astro feroce
che viene, che viene
schierando gli scherani
e gli arcieri bagliori
la retroguardia
di venerande veterane luci
contro di lei, tiranno usurpatore
dell’impero del giorno, mentre
cinghie di neri tuoni
trafiggono le ombre nottambule
fino ad atterrirla.
Ma lei è bella, lei è l’avanguardia
dell’araldo del sole
che sventola il palio a Oriente
e chiama alle armi le mere, bellicose
genie dei rapaci:
che sia ingenua la loro fede
sonora come quella delle trombe
quando il tiranno, in rotta, trema
sconvolto da cupi presentimenti
e si sforza di elencare la sua leggendaria
potenza e controbatte con il funebre
mantello le infallibili
falci di luce
ed è vano il valore
della disperazione, futile
ogni resistenza, così inclina
alla fuga, unica via di salvezza
e il rauco corno erutta
e i neri battaglioni
retrattili in geometrica ritirata.
Ma una più arcana pienezza
di raggi squarciò le più alte cime
le torri del mondo. Il sole
recluso nel suo girovagare
rende oro l’azzurro
raggi di luce virginea
incidono il ceruleo cranio del cielo
si abbattono su quella
funesta tirannia.
E lei fugge e lei inciampa
nei suoi stessi orrori
calpesta la sua ombra:
cieca fuga, luce che avanza
luce che incalza, che sfonda
il limite occidentale e la sfigura.
Ma la caduta la vivifica
la rovina la imbeve di una
rinnovata ribellione
e in quella parte di mondo
ignara del giorno
indossa ancora la corona
mentre nel nostro emisfero
il sole scuote la criniera
conferendo a ogni cosa
il suo degno colore
affidando agli ancoraggi
della luce il mondo – ora
tutto è luce e posso destarmi.
Versione di Samuel Beckett
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Entro a Montecalvo a piedi – il sole ha il becco, l’azzurro è carnale, viene da
morderlo. È un azzurro bue – un azzurro bestia da soma. Il sole sollazza, lì
sopra. Plana.
Provincia di Pesaro-Urbino, un castello nel vessillo comunale, poco meno di
tremila abitanti. Due bambini giocano – i re del luogo. Una signora, alla
finestra, fuma; un tizio fa lo scalpo al giardino di casa. Sabato – giorno di
riposo, giorno di Saturno. Un tempo, qui si sfogavano in lotte senza quartiere
gli sgherri del Montefeltro e quelli del Malatesta – di qui passò Francesco
Sforza; il castro fu messo al sacco da Cesare Borgia. Il borgo vanta ascendenze
romane.
Di tali, vestigia, oggi, non ci sono che straccetti. I bombardamenti alleati,
durante la Seconda guerra, hanno raso al suolo il paese. In particolare, gli
aerei della Raf hanno devastato la chiesa medioevale di San Nicolò: nella
struttura moderna – brutta come tutte le chiese moderne – è conservata la
campana del XIII secolo.
Per lo più: il bendaggio del silenzio. Un borgo sdentato.
*
Montecalvo dà su un abisso di calanchi: è questo a confermargli il carisma di
una superba alterigia.
Certo: bisogna scaraventarsi oltre i sentieri segnati; aprire un percorso tra i
rovi. A terra, le tracce calligrafiche del capriolo – poi, grumi d’erba smossi
dal cinghiale. Qualcuno dice di aver visto il cervo – ma i boschi sono pigmei,
laceri ai fianchi. Qualcuno dice del lupo vespertino, che s’incunea tra le assi
della notte. Nel crinale opposto, galoppano le mucche, mai viste così agili,
così fulve. Regna il gheppio, l’amuleto dei rapaci – appollaiato sui cavi
elettrici.
Il grigio dei calanchi, terra aspra resa lunare dalle acque, mi ricorda il
volto, infossato di rughe, di Samuel Beckett. Qui immagino che possa
parlare L’innominabile:
> “Adesso dove? Adesso quando? Adesso chi? Senza chiedermelo. Dire io. Senza
> pensarci. Chiamarle domande, queste, ipotesi. Andare avanti, chiamare questo
> andare, chiamare questo avanti”.
Qui dovrebbero venire a leggere L’innominabile – a inscenarlo.
Vocio interminabile dell’Innominabile – “D’altra parte a parlare sono obbligato.
Non tacerò mai. Mai” –, vocio-pigolio, balenio di belati, che disintegra l’idea
stessa del romanzo, come la pioggia fende le coste argillose, che degradano
all’eone di terra inferiore, infera. I calanchi: paesaggio che cammina. I
calanchi sono il luogo Innominabile: non c’è tenacia vegetale che possa
attecchire su quelle guance scavate, su quel glabro.
Parola lebbrosa, panorama dolente.
*
Da noi la trilogia di Beckett – Molloy, Malone muore, L’innominabile: scritta in
francese, pubblicata in Francia tra il 1951 e il 1953 – è ora raccolta nel
‘Meridiano’ Mondadori che raduna Romanzi, teatro e
televisione(2023). Strumento straordinario – leggere è altro – prevede:
sradicare e farsi dilaniare, mica sfogliare. La Faber pubblica la trilogia,
libro per libro, per festeggiare i settant’anni dalla prima edizione in inglese
di Molloy. L’introduzione dei libri è affidata a tre scrittori contemporanei:
Colm Tóibín, Claire-Louise Bennett and Eimear McBride.
Non so se si possa scrivere qualcosa di sensato intorno ai romanzi di Beckett:
nella loro voragine sono così audaci, così espliciti.
Samuel Beckett, il calanco della letteratura occidentale.
Lo dice lui, tra l’altro:
> “La sola ricerca fertile è quella che scava, che si immerge, è una contrazione
> dello spirito, una discesa. L’artista è attivo, ma in modo negativo:
> indietreggia di fronte alla nullità dei fenomeni siti al di fuori della
> circonferenza, è attratto verso il centro del vortice”.
*
Bisogna immergersi nei calanchi per capirne la spudorata attrazione.
Un’attrazione che ti si pianta fin nella fibra del sogno.
Sognai calanchi.
Dal vero, ne ho cavalcato uno. Camminare sul crinale tra due calanchi, lungo una
sella d’erba. Stellate di spine intorno. Spine serpentine. Straordinario il
silenzio nei boschivi, irsuti, che spaziano sulla cima dei calanchi. Come se le
bestie fossero spaventate da quella terra senza mediazioni, un rinoceronte
d’argilla. Il sogno del calanco: farsi vulcano, svanire.
*
Secondo Harold Bloom, Beckett è l’erede di Joyce, di Proust e di Kafka. Viene
dopo quegli scrittori-foresta. Viene nell’era desertificata. “La trilogia di
Beckett (Molloy, Malone muore, L’innominabile) rappresenta un vero passo oltre e
nulla di ciò che è stato impropriamente chiamato postmodernismo ha raggiunto il
suo livello”. Così scrive Bloom.
Come si fa a scrivere un romanzo come L’innominabile? Fare lo scalpo all’anima.
Entrare per frode nel linguaggio – già, questo fa lo scrittore: ladrocinio del
linguaggio. Deve frodare il linguaggio che, altrimenti, a lasciarlo fare, ci
frega, ci sfregia nel frainteso. Frastuono. Frana.
Stare nel centro del vortice. Nel centro di un calanco. Come si doma una stella
cometa. Cominciare da lì. Piantumare di sé il calanco.
*
Nel suo libro più bello, Rovinare le sacre verità (un tempo Garzanti, ora SE),
uno studio su “Poesia e fede dalla Bibbia a oggi”, Harold Bloom scrive che
Beckett era uno gnostico “naturale”, scrive che “Basilide o Valentino,
eresiarchi alessandrini, avrebbero subito riconosciuto il mondo della
trilogia... È il mondo dominato dagli Arconti, il kenoma, il non-luogo di
vuoto”.
Forse per questo, a perdifiato tra i calanchi – un fiato ben arato da
paleolitico di grigiori –, mi è venuto in mente il Vangelo di Filippo. I
calanchi non conservano ombre. Al centro di un calanco: si è come nel Pleroma;
si è come in un grembo – si retrocede dal feto, si recede da ciò che resta
dell’immagine. Falansterio di falci.
Scoperto a Nag Hammadi, il Vangelo di Filippo era d’uso proprio tra i
valentiniani citati da Bloom. Si trova facilmente in rete; in Italia esiste la
traduzione commentata di Luigi Moraldi, nei Vangeli gnostici editi da
Adelphi. In appendice, ne ho tradotto qualche fibbia, dalla versione di Willis
Barnstone: poeta dal solido talento, nato nel Maine quasi un secolo fa, ha
tradotto, tra l’altro, Saffo, Wang Wei, Giovanni della Croce e le poesie di Mao
Tse-tung; fu amico di Borges. Segno questo detto (dalla versione di Moraldi):
> “Dio è un mangiatore di uomini; per questo l’uomo gli è immolato. Prima che
> gli si immolasse l’uomo, gli si immolavano animali, giacché coloro ai quali si
> sacrificava non erano dèi”.
Alla coincidenza degli opposti, eraclitea, segue la messa in questione dei
‘nomi’. I nomi sono illusori, futili nodi che ci legano a questo mondo, a questo
tempo, alla superficie carnale delle cose. Soltanto chi possiede i nomi occulti
– il frutto sotto il carapace –, vive nel regno pur su questa terra. Questa
concezione, propria di chi scrive, è canone in Beckett: si scrive maneggiando un
coltello; bisogna scrostare i sacrosanti nomi, gli inesatti nomi, i nomi
ingannevoli delle cose. Ma chi può sopportarne lo splendore, poi?
La nudità sfoggiata dai calanchi: nome indottrinato dalla spoliazione. Oltre la
nudità di ciò che è nudo, oltre l’ultima, intima screpolatura, oltre la più
conficcata fenditura – a che quel bisbiglio? Cosa risuona?
Acqua battesimale – acqua che dilaga il fuoco – che dilata le doghe della
valle.
*
Nessun suono rimbomba sulle pareti dei calanchi: la terra ha molte bocche, la
terra ha sete di te. Strana sensazione: come di stare nel retro del sole, nel
suo cuoio.
Ecco: è come stare nel cranio vuoto del sole.
All’opera di scavo, all’ascesi, segua l’ascesa. Nello zaino ho Canto di vita,
un’antologia di poesie di Hugo von Hofmannsthal; è un libro lieve, apollineo.
Edito da Einaudi nel 1971, la traduzione è di Elena Croce.
Chi legge oggi le poesie di Hofmannsthal? A me paiono salvifiche. Sono il punto
di giunzione tra gli inni di Hölderlin e i versi di Rilke – solo: privati del
dramma, della reclusione, dell’annaspare tra i gangli di una risposta.
Hofmannsthal è l’annuncio, è il grande arciere, orefice di oracoli. La sua
poesia è una luce senza schegge, una luce laccio – forse è per questo che,
sgorgata nell’infallibile giovinezza, ha costretto il suo autore al silenzio.
Hofmannsthal ha scritto pochi, perfettissimi versi – poi, si è volto ad altro.
Più tardi, tento di rimescolare Manche freilich…, una delle poesie più ambigue.
Si parla della morte, di lande stellare, del collasso degli altri;
dell’invasione della vita in altre vite, dell’ombra e di un’anima spaventata.
Non serve capire quando si cammina tra gli assoluti. La figura della schmale
Leier, la “stretta lira”, sarà ripresa da Rilke nei Sonetti a Orfeo.
Alcuni – è vero – moriranno là
dove sibilano serpentini i remi
ma altri siedono al timone, saturi
del volo degli alati, delle lande stellari.
Alcuni hanno pesanti corpi
artigliati alle radici della vita
ma altri hanno un seggio
tra le Sibille, le regine,
perché lì è casa
leggero il capo, leggiadre le mani.
Ma l’Ombra gemma da quella vita
nelle altrui vite
il leggero si aggioga al pesante
come l’aria ai nodi della terra:
la pena di popoli dimenticati
non posso alienare dalle palpebre
né tentare l’anima, l’intimorita,
con l’intemerato crollo di lontane stelle.
Molti destini sono intrecciati al mio
l’Essere gioca a confonderli
ma la mia parte supera questa vita
l’ilare lira, la dinoccolata fiamma.
Il cielo impone nubi, per convalidare il suo rito in una litania di scure vesti,
di volti tirati. Pioverà. I calanchi intoneranno il loro lugubre canto. Da
lontano, le raganelle già si misurano con Beethoven. Qualcosa si muove – bene,
in fondo, è l’arte di adescare.
**
Dal Vangelo di Filippo
Luce e tenebra
Luce e oscurità, vita e morte, destra e sinistra
sono pargoli, inseparabili, sempre insieme.
I buoni non sono buoni, il malvagio malvagio
non è, vivere non è vivere, morte non è morte.
Ogni elemento sfuma nell’origine.
Chi vive al di là del mondo non svanisce.
È eterno.
*
Nomi
I nomi delle cose terrene: illusioni.
Rivolta dal reale all’irreale.
Se ausculti la parola “dio”: perdi il reale
predi l’irreale.
Padre, figlio, spirito santo, vita, luce, resurrezione, chiesa.
Parole non reali. Irreali
ma riferite al reale vengono udite dal mondo.
Ingannano. Se fossero i nomi del Regno
nessuno sulla terra li udirebbe.
Qui nessuno li assegna.
Il loro fine è insediarsi nell’eterno regno.
*
L’occulto
Gesù è nome occulto, Cristo manifesto.
Gesù non è parola qualsiasi, ma il nome con cui è chiamato.
In siriaco Cristo è Messia, in greco è Cristo.
Ogni lingua a suo modo lo chiama.
Nazareno è il nome rivelato di ciò che giace nel segreto.
*
Cristo
Cristo, in sé, è tutto, è tutto l’uomo
l’angelo, il mistero e il padre.
*
La perla
Se la perla è gettata nel fango, non perde valore
se la strofini con olio puro, non acquista valore.
Per sempre è preziosa agli occhi di chi la possiede.
Ovunque sono, i figli di Dio
sono preziosi agli occhi del padre.
*
Dio, il cannibale
Dio è un cannibale, Dio mangiatore di uomini. Per questo, la gente a lui si
sacrifica.
Prima che gli uomini dessero la vita per Dio
si sacrificavano le bestie, perché
chi li divorava non erano dèi.
*
Vetro e terra
I vasi di vetro e quelli di terracotta provengono munti dal fuoco.
Quando un vaso di vetro si rompe, lo rifanno:
il respiro lo ha creato.
Quando un vaso di terracotta si rompe, lo si butta:
non è il frutto di un respiro.
*
Uomini e bestie
La superiorità degli uomini è invisibile
agli occhi: risiede nel nascosto.
Per questo, dominano sulle bestie
che sono più forti e più grandi in forme
visibili e nascoste. Così, sopravvivono.
Quando l’umano si ritira, le bestie si uccidono
e si divorano tra loro: non hanno cibo.
Ma ora hanno cibo, perché l’uomo ara la terra.
*
Il mistero delle acque
Se ti inabissi nelle acque e risali
senza essere risanato e dici: “Sono cristiano”
prendi in prestito un nome.
Ma se ricevi lo Spirito Santo
hai in dono il nome. Un regalo
non si deve pagare.
Il prestito, invece, deve essere
saldato con gli interessi. Questo
significa: varcare un mistero.
*
La foggia del fuoco
Anima e spirito sorgono dall’acqua e dal fuoco.
Dall’acqua, dal fuoco, dalla luce viene l’attendente
nella camera nuziale.
Fuoco è crisma. Luce è fuoco. Non mi riferisco
alla fiamma informe, ma a un altro fuoco
bianco, luminoso, bello
che conferisce bellezza.
*
Resurrezione
Il Signore risorge dai morti.
È ciò che è
ma ora il suo corpo è perfetto.
Incarnato
ora è nella vera carne.
Questa nostra carne non è vera.
Questa nostra carne è soltanto la parvenza del vero.
L'articolo Saturi di stelle. Gita tra i calanchi con l’innominabile Beckett e il
Vangelo di Filippo proviene da Pangea.