“Per conquistare il cielo”. La poetica dello sciamano. (Qualcosa, ancora, su GRM)

Pangea - Thursday, May 29, 2025

Così appunta Elias Canetti, è il 30 luglio del 1966:

“Leggo poesie in tutte le lingue che conosco, e in traduzione, quando sono scritte in lingue che non conosco, ma cerco di farmi almeno un’idea di quelle lingue… Sfoglio libri su tutti i possibili animali. Torno ad ascoltare, cosa che da moltissimi anni non facevo più, le mie care voci degli animali”. 

Canetti associa la lettura della poesia alla voce animale – imparare lingue sconosciute, cioè: imparare la parola del lupo, l’urlo dell’ungulato, il cigolio della gazza. Il brano è in un libro, Processi. Su Franz Kafka (Adelphi, 2024), di inclassificabile bellezza. Inutile ricordare la presenza ‘animale’, da strenuo classificatore, nei libri di Kafka: florilegio di sciacalli e ratti, di cani e di pantere, di cavalli e scimmie. L’opera di Kafka è un bestiario; valicare il simbolo a cui sottende quella singola bestia vuol dire franare nella follia. 

Ad ogni modo, che scena magnifica. Uno dei più potenti intelletti del secolo, Canetti, che, nel suo studio, ascolta le voci degli animali, per liberarsi dal linguaggio umano (si legge poesia anche per questo: per sobillare il linguaggio, per liberarsi da umana lingua). Per chi fosse interessato, Canetti fa riferimento ad Animal Language, libro fotografico del 1938, con due dischi “che riproducevano i versi degli animali africani di giorno e di notte”, ideato da Julian Huxley, il fratello di Aldous, che è stato, tra l’altro, il fondatore del WWF, l’uomo che ha inventato la parola Transhumanism, transumanesimo. 

Incapace di ‘contattare’ gli animali, Canetti li ascolta, nel suo studio gonfio di libri, fiero della propria interiore ‘animalità’. 

Sono quasi certo che i libri sciorinati da Canetti tra quelli “che più contano per me”, facciano parte della biblioteca ideale di Gian Ruggero Manzoni. Pascal e i Presocratici, Sofocle e William Blake, Georg Trakl e Zhuang-zi, Confucio, Lao-Tzu ed Erodoto, Atlantis, soprattutto, la formidabile enciclopedia di miti e fiabe africane collezionata da Leo Frobenius negli anni Venti. Manzoni ha lo stesso physique intellettuale di Canetti: è uno ramingo tra più mondi culturali; un vagabondaggio – è chiaro – che opera in orizzontale (libri) e in verticale (pratica; ascesi/ascesa). A Canetti manca l’estremismo dell’azione, dell’esteta armato; possedeva, tuttavia, il dono dell’ira e dell’eros. Ma non è questo il punto. 

Nel suo ultimo libro – se è poi l’ultimo: GRM pratica la giusta liturgia della dissipazione, ogni libro è sempre l’ultimo –, Nel lento movimento dei ghiacci (stampa puntoacapo), Manzoni dichiara i punti di giunzione tra il verbo e l’animale, tra il poeta e lo sciamano (“Sciamano del Delta del Po, sempre scopro ogni notte che vago nell’immutata sostanza della natura umana”: sua serpe e suo scettro sia l’angusta anguilla). Sciamino, a questo punto, gli scettici: al netto del consueto, cospicuo proliferare di ‘cultura’ (Leopold Zunz, Pascal, Aristotele, i canti dei nativi d’America), Manzoni si dà alla ‘natura’ del gesto lirico, inaugura la danza con gambe tese ad arco:

“Nel lento movimento dei ghiacci, la porta spalancata è alla cometa, quella recante vita nel suo strascico… recante l’essenza di un altro mondo, che mai vedremo, se non ipotizzando un oltre alla tenebra, in piena luce”. 

In un brano – che ricorda gli incantesimi orditi da Álvaro Mutis – GRM parla dello “sciamano Ainu” che balla con l’orso dell’Hokkaido; parla delle “maghe del Rio delle Amazzoni”, parla dell’“angelo di carne”. Ossidati all’oggi, i poeti scontano la latitanza dal linguaggio che ‘agisce’, che si fa atto: espulsi dalla natura e dalla storia – il poeta non ‘serve’ più, se non in civiltà più raffinate, a cementare il senso d’appartenenza a una nazione, di servizio a una terra, a una lingua/seme, lingua-seminagione –, i poeti, servili, sono utili, semmai, a stimolare le anime belle, a far leva sui ‘sentimenti’; mai che trafiggano e trasformino le anime. Così, sono i falsi poeti a proliferare, oggi, a primeggiare, come sono i falsi profeti a guidare le adunate dei fedeli. Ma al poeta nulla importa dell’applauso o del consenso – necessario, invece, al romanziere, a chi lavora per ‘comunicare’ –: attende che la sua parola sia efficace, e non mero guscio, vocabolo inerte, vocabolo-carcassa. 

Manzoni riassomiglia la poesia al suo dire originario, ne fa nenia, sacra cantilena – dunque, sacrilegio – in assenza di opera sacra. E allora:

“Oggi sono la lince del fiume Amur, ieri fui il daino preso in trappola, domani sarò l’orso polare che, ai cacciatori, parlerà del sonno che t’invade, quando il freddo ti prende l’anima e le carni… quando i liquami umani via via si solidificano e l’alito vaporoso si trasforma in neve sulla barba”. 

Chi vede in questi brani mere figure esornative, ‘immagini’, pittogrammi del fallimento, è un idolatra del vocabolario. Chi conosce Manzoni sa che la pratica è tale da sempre, da Il mercante di allodole (era il 1977, primo verso che testimonia un’indole indocile: “Chi comprende i simboli con le mani è l’unico uomo libero”), a Le battane di bronzo (uscì per la Stamperia dell’Arancio, trent’anni fa, ne riproduco le cifre finali: “Per conquistare il cielo occorrono macchine di luce, un modello che convinca e che riempia ognuno; e una religione, votata all’essenza, o alla più feroce risposta”), in qua. Oggi – nell’era della simulazione, che chiede di dissimularsi nell’altro – tale pratica è semplicemente più esplicita. 

Dunque, la congiunzione tra il poeta e l’animale. L’anima dello sciamano – così ne dice Klaus E. Müller in Sciamanismo. Guaritori. Spiriti. Rituali, Bollati Boringhieri, 2001 – veniva ruminata per tre anni dalla “Madre animale” (sia alce, cervo o renna), era “l’anima di un essere dalla duplice natura, animale e umana”, riconoscibile fin da bambino per eccezionalità fisica, ‘mostruosa’ (“gli individui destinati a diventare grandi sciamani nascevano con i denti, oppure ‘con la camicia’ e con un numero eccedente di dita per mano (o per piede), o con un neo vistoso sul corpo”), e psichica (“tendevano a cadere in deliquio e avevano un carattere chiuso; di indole pensosa, passavano il tempo a rimuginare, soli”). Ne seguiva, l’addestramento, la vita riparata dal convegno umano, in luoghi spesso inaccessi; il corredo sonoro e lirico, che riproduceva le voci degli animali-guida. Parola che sana, quello dello sciamano, che piega, che piaga. L’amorfo repertorio che leggiamo, preziosità etnografica (ad esempio, in: Testi dello sciamanesimo siberiano e centroasiatico, Utet, 1984), non va letto come si leggerebbero Yeats o Blake (due poeti-sciamani, tra l’altro, che sciamanizzano) ma come canto che anima, che opera, che in assenza di compito resta esteticamente inerme. Lo sciamano presiede alla vita – il parto – e alla morte – la sepoltura – e al pasto – la caccia. Eleva a suo grado gli elementi. Ora: che può il poeta se non riferire un deciduo dire, la caducità della parola? Il libro di Manzoni non è la cronaca di uno sciamano infame, senza futuro, ma l’indizio iniziale di chi torna a manovrare il fuoco, di chi, con la timida tenerezza del nudo uomo, che ascolta l’erba, i fiumi, lo scalciare del sole, leva le briglie alle parole, leva ogni paramento, a trafittura d’ululato.  

Compito del poeta: liberarsi della poesia. Scatenarla. 

Per altro, il riferimento – GRM ha tradotto Genesi, Esodo, Isaia, una manciata di Salmi per il “Salterio dei Poeti” e altro ancora va traducendo dal Testo – ha pertinenza biblica. Iubal, figlio di Lamec, della genia di Caino, è “il padre di tutti i suonatori di cetra (kinnor) e di flauto (ugab)”. Iubal non è il primogenito – non lo era neanche Abele; a sottendere: destino di sacrificio – e gli strumenti che crea indicano un opposto approccio all’arte mantica della musica. Ugab, lo strumento a fiato, ruba il ‘soffio’ di chi lo suona: appare poche volte nel testo biblico. Kinnor, invece, partecipa di ogni luogo del Testo (42 occorrenze): lo strumento a corda pretende maneggevolezza nella voce, accordo con il canto. Ogni strumento musicale è trasmutazione di uno strumento di guerra: il flauto fu cerbottana; la cetra fu arco e fionda. Il flauto adombra la tattica dell’uccello, la cetra quella del felide. Anche il più alto atto d’arte reca un pervicace sentore di sangue. 

Chi lamenta assenza di animali nei Vangeli ha lo sguardo fuori asse. Al dialogo umano, frutto di sacri fraintesi, il Nazareno preferisce quello con le bestie e con gli angeli (così insegna l’evangelista Marco). Il suo stesso corpo è arca, nella sua voce la voce delle miriadi di bestie. Per altro, gli apostoli operavano guarigioni, andavano in estasi, afferravano la serpe senza che gliene incorresse danno. Di ciò, non restano neppure le vestigia – se non negli esorcismi –, ma il sottile fastidio di un tempo andato. 

Manzoni, intanto, continua la sua danza – a me ricorda, di spalle, il Giudice Holden, istoriata creatura uscita dalle fucine di Cormac McCarthy, un poco Pan un poco Astaroth, che sganghera la luce nel suo noccioleto. A noi, succhiare di quel fiele. 

*In copertina: strumento sciamanico esposto in “Shamans. Communicating the invisible”, al Muse di Trento; nel testo: opere di Gian Ruggero Manzoni

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