
“E il poeta ubriaco inguainava di insulti l’Universo”. In fuga con Rimbaud
Pangea - Thursday, June 12, 2025Costretto al letto dell’ospedale della “Conception” di Marsiglia, Arthur Rimbaud scrive al direttore delle “Messaggeries maritimes”: vuole essere destinato ad Aphinar, benché “completamente paralizzato”. Morirà il giorno dopo, il 10 di novembre del 1891; aveva compiuto 37 anni il mese prima. Aphinar è un luogo che non esiste, è parte, forse, di una geografia ctonia, è un lembo di aldilà. La grafia di quella lettera è storpia, incomprensibile il dire, di uomo che balbetta idolatrie d’idiota, stordito dal dolore; eppure, che stupenda bravata, che colpo di fionda: Rimbaud muore sulla cresta dell’ultima invenzione. Aphinar è la parola-chiavistello, la parola-faina che bracca la morte, che sconcerta l’eterno. (E noi, lì, al suo capezzale, vorremmo scortare il poeta che ha dimenticato di essere poeta, il poeta estremista, all’ultimo imbarco, sulla carrozzina, paralizzato, e sussurrargli nenie, ninnoli di verbo, e asciugargli la fronte, e pettinargli i capelli, e imboccarlo).
Come si sa, Rimbaud vive gli ultimi dieci anni della sua vita in Africa, per lo più ad Harar, in Etiopia. Si dà al commercio di caffè e di utensili vari, tenta – con formule fallimentari – di vendere armi a Menelik, negus dello Scioa, invia alla “Société de géographie de Paris” un Rapport sur l’Ogadine di schietta nitidezza, scevro da lirismi. In sostanza, si annoia. Prima dell’Africa, era stato a Londra e a Vienna, a Bruxelles e a Milano, a Giava – con la casacca della Legione Straniera olandese – e ad Alessandria d’Egitto. A Cipro pare abbia incidentalmente ucciso un operaio, lavorava in una cava di pietre. Scarse le fotografie che lo ritraggono, spesso consumate dal tempo: il volto indemoniato dal pallore, di febbrile ingenuità; a tratti, il cranio, rasato a zero. Nell’ottobre del 1873, come vuole la leggenda, Rimbaud festeggia i suoi diciannove anni dimenticando, a Bruxelles, nei magazzini dell’“Alliance typographique M-J. Poot et compagnie”, le copie fresche di stampa di Une Saison en enfer. Quasi vent’anni dopo, rassicura “Sua Eccellenza” il Ras Maconnèn: presto “tornerò all’Harar, per esercitarvi il commercio, come prima”. Il più grande poeta della modernità, il poeta perpetuamente contemporaneo, infinitamente fanciullo, ha abiurato la poesia – è possibile?
Un po’ tutti hanno preso per la giacca Rimbaud: Paul Verlaine ne ha fatto il proprio personale “angelo in esilio”; la sorella Isabelle lo ha tradotto in un santo; secondo l’esploratore novarese Ugo Ferrandi, “era un arabista e un poliglotta dottissimo, spiegava e commentava il Corano agli indigeni” (in: Carlo Zaghi, Rimbaud in Africa, Guida editori, 1993). A dire dell’aitante avventuriero francese Jules Borelli – che lo aveva scortato in un viaggio tra Ancober, Entoto e Harar, in luoghi fino ad allora mai toccati da piede europeo – il “mercante Rimbaud… conosce l’arabo, parla l’amarico e l’oromoo. È instancabile. L’attitudine ad apprendere le lingue, la grande forza di volontà, l’inesausta pazienza lo rendono uno tra i viaggiatori più esperti” (ora, insieme al resoconto di quel viaggio, in: Scioa. L’Africa di Arthur Rimbaud, Magog, 2024).

La biografia di Rimbaud è stata anatomizzata al millimetro, forse per carpire il segreto della sua poesia, sfuggente, per sempre nuova, inadatta al canone. I viaggi di Rimbaud sono diventati romanzi – ne cito due: Rimbaud a Giava di Jamie James, Melville, 2016, e Rimbaud e la vedova (sulla breve tappa milanese), di Edgardo Franzosini, Skira, 2020 –, gli studi biografici (critici, psichici, ipnotici) sono diventati un genere letterario a sé stante. Nel 2008, per l’editore Marietti, Adriano Marchetti ha assemblato una fiera lista di “Interpreti francesi di Rimbaud” in un libro di stravagante bellezza, Rapsodia selvaggia. Tra i cinquantacinque, autorevolissimi “interpreti” – da Mallarmé ad Aragon, da Simone Weil a Tzvetan Todorov e Yves Bonnefoy – ne preferisco due. Il primo è René Char, che in una specie di epistola lirica inneggia al malandrino Arthur:
“Hai fatto bene a partire, Arhtur Rimbaud!… Hai avuto ragione ad abbandonare il viale degli oziosi, le osterie dei pisciaversi, per l’inferno delle bestie, per il commercio dei furbi e il buongiorno dei semplici”.
L’altro – più che altro, per l’austerità dello stile, per la cinerea postura – è Julien Gracq, il quale ammira in Rimbaud “l’uomo che mantiene sempre meravigliosamente le distanze”. Secondo Gracq, il carattere imperituro della poesia di Rimbaud – garanzia di esistenza anche quando la lingua francese perirà – è il suo essere “abbastanza inumana”.
È vero. La poesia di Rimbaud è pura metallurgia della fuga. Rimbaud non chiede lettori – non chiede nulla in effetti. Rimbaud lascia tracce. I suoi versi sono una mappa, una cartografia del non ritorno. Inseguire Rimbaud, tuttavia, è il contrario della sequela: ciò che ci è donato non è il centuplo su questa terra e il regno nella prossima. No. Rimbaud è il primo e il solo. Rimbaud uccide i suoi discepoli. Rimbaud consegna agli affini il sacrario della parola Aphinar; ci obbliga all’ennui, ai morbi di un’inquietudine che ghiaccia le ossa, alla tigre in pieno petto. Non c’è alcun guadagno, alcun conforto dalla lettura di Rimbaud, ma l’esilio nell’enigma, il punto – magnetico, è vero – in cui tutte le certezze si sfasciano, in cui la poesia diventa rogo, suono, inno, come ai tempi delle pitture magdaleniane, quando la stella mangiava alle nostre mani, con il muso da sauro, e il poeta si trasformava in falco e volpe, pietra e prato, biscia e vento.

Mai si è scritto tanto di un poeta così violentemente reticente. Ardengo Soffici andò in estro per quel ragazzo “che non ebbe paura di scendere giù per tutti i gironi dell’inferno psicologico moderno per pescarvi il segreto di una bellezza inusitata e folgorante” (così nel saggio su Arthur Rimbaud pubblicato nel 1911 nei “Quaderni della Voce”). Eppure, non seppe riconoscere in Dino Campana un poeta altrettanto folgorante. Per decenni, Renato Minore si è insinuato nella vita di Rimbaud, il “poeta dalle suole di vento” (il suo Rimbaud è uscito per Mondadori nel 1991 e in edizione ampliata per Bompiani, nel 2019); l’esito della ricerca è quasi ovvio: far rilucere l’enigma in sé, la nuda ecchimosi del fuggiasco, la vita “esibita e impenetrabile a un tempo”. Quando l’ho interpellato mi ha messo in guardia dal mito di Rimbaud, perché “Un mito è anche una trappola infinita di volti, di voci, di specchi e lui stesso ha fatto di tutto per essere duplicato, conteso, frainteso. Non meno carichi di risonanza, e di ambigua luminosità, gli oggetti, le incalzanti reliquie che il Poeta Maledetto ha lasciato: prima fra tutti la valigia dei viaggi in Abissinia, la stampella che accompagnò i suoi ultimi passi, la firma sulle piramidi, le lettere. E poi i disegni, le fotografie chiedendo all’immagine non il segreto che versi e documenti trattengono, ma la ricchezza ammiccante e fissa dell’icona, non solo il presagio di un destino, ma la conferma di un mistero bloccato dal lampo di magnesio e lì rimasto intatto. La leggenda di Rimbaud accomuna le generazioni e, in tutto il mondo, ogni giorno ci sono giovani che scoprono le sue poesie e desiderano possederne una copia”.
Benjamin Fondane, il prodigioso pensatore amico di Emil Cioran, su Rimbaud, si può dire, con ribalderia da bandito, ha fondato una filosofia (il suo Rimbaud le voyou è attualmente edito in Italia da Castelvecchi); Victor Segalen ha scritto forse il più commosso ed elusivo ritratto del poeta – Le Double Rimbaud, edito nel 1906 su “Mercure de France” –, intimandoci di “Non cercare di capire”.
Forse Rimbaud ha esaudito le sue poesie nel vagabondaggio, diventando egli stesso un “battello ebbro”. Forse, più prosaicamente, il ventenne roso dal dio della giovinezza, il prediletto dal fato, ha preferito la vita allo scranno, il veliero alla scrivania, l’Africa al marciume parigino. La poesia è stata una parentesi, una ragazzata (una ragazzetta): il “ladro del fuoco” è diventato fuoco, incede nell’incendio.
È proprio dei poeti pionieri – i rarissimi: Rimbaud, Friedrich Hölderlin, William Blake, Emily Dickinson – abitare l’irriconoscenza, non riconoscere la propria opera, obliarla, tra i nastri, nelle fauci di un baule, nella pazzia, nella fuga.
Le poesie sono il lascito sinistro di Rimbaud: non possono stazionare su un comodino, non si accomodano in una biblioteca. Queste poesie scalpitano, hanno la criniera, recano vigoria di formula magica. Queste poesie agiscono, agitano. Altro che Je est un autre: qui l’Altro ci fissa con occhi intimidatori. A volte ha il volto di un Minotauro, altre della cincia, a volte è una betulla altre volte un lupo.
Queste poesie fanno paura – la paura ci donerà un cuore barbaro, pronto di nuovo a osare.
Davide Brullo

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Vite
A dodici anni fui rinchiuso in una soffitta dove ho imparato il mondo, ho illustrato la commedia umana. In una cella ho appreso la storia. In una qualche festa notturna in una qualche città del Nord, ho incontrato tutte le donne dei pittori antichi. In un vecchio vicolo di Parigi mi hanno insegnato le scienze classiche. In una magnifica dimora cerchiata dall’intero Oriente ho compiuto la mia immensa opera e ho passato il mio illustre ritiro. Ho sbrecciato il mio sangue. Il dovere mi è rimesso. Non devo pensare più. Vengo davvero dall’oltretomba, senza commissioni.
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Sfridi
Plotoni di muri d’ombra: bastonano cani scheletrici,
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Da dietro tartassava grottesche oscenità
Una rosa s’involava nel ventre del portiere
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Bruna, aveva sedici anni quando la maritarono
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E ora ama d’amore ardente il figlio di diciassette.
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E il poeta ubriaco inguainava di insulti l’Universo.
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Piove con dolcezza sulla città.
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Quando la carovana dell’Iran si arrestò alla fontana di Ctesifonte, crebbe la disperazione nel trovarla inerte. Alcuni accusarono i magi, altri gli imam. I cammellieri si unirono alle imprecazioni… Si erano messi sulla via ormai da molte lune… carichi d’incenso, di mirra e oro. Il loro capo gridò… soppesò di sopprimerli… Certi accettarono.
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All’assalto, o mia vita assente!
Arthur Rimbaud
In copertina: Arthur Rimbaud secondo Alberto Giacometti, 1962
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