
“Quando gli dèi non c’erano più”. Marguerite Yourcenar o per un’archeologia dell’interiorità
Pangea - Friday, June 20, 2025La letteratura è come un maestoso iceberg sospinto senza posa nelle acque polari. Nella parte emersa si mostra la storia “diurna” della letteratura, quella che trova posto nelle biblioteche, nei manuali didattici e nelle antologie. Negli abissi gelidi e cupi dimora invece il suo gemello “notturno” – un’Atlantide sommersa di pagine e pagine destinate a un pugno di esploratori estremi. L’astronomia ci presta l’immagine del satellite naturale che gravita attorno al suo astro di riferimento e gli conferisce caratteristiche speciali: moti, rivoluzioni e maree. Trasferendoci sul piano della letteratura, potremmo dire che Memorie di Adriano è il pianeta e i Taccuini di appunti la sua luna privata.
Carnets de notes: meno di quindici pagine, dense e tuttavia aeree, che si leggono alla fine del libro e che vi gettano una luce laterale, descrivendo l’arco interiore di una gestazione e di un corpo a corpo con l’opera durato un trentennio.
Come nasce la prima immagine di un libro nella mente di uno scrittore? Che ruolo giocano le arti visive nel caleidoscopio multiforme che romanticamente definiamo ispirazione? E in che modo un libro, legandosi indissolubilmente alla biografia e alle sue vicende, diventa talmente rilevante per un poeta da trasformarsi in destino? A queste e tante altre domande cercano di rispondere i Carnets de notes, tra annotazioni, lampi e memorie di una vita intera.
Un paesaggio in particolare può diventare letteratura – topografia mitica dell’immaginazione. A soli 21 anni, nel 1924, Marguerite Yourcenar visita per la prima volta Villa Adriana, a Tivoli, con l’amato padre Michel. L’impatto emotivo e intellettuale del luogo lascia in lei una traccia profonda. È qui, tra i filari di cipressi ormai scomparsi e il frinire millenario e solare delle cicale, che nasce il primo nucleo immaginativo del suo capolavoro. Primo vagito che sarà suggellato, verso il 1927, dalla lettura appassionata della monumentale corrispondenza di Flaubert. Vi trova e vi sottolinea una frase indimenticabile:
«Quando gli dèi non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo».
La Yourcenar avrebbe dedicato gran parte della sua vita a cercare di descrivere quest’uomo.
È sorte di molti poeti e scrittori misurare concretamente la propria inadeguatezza di fronte al compito che ci si era posti. Gli esiti di tale spietata e lucida consapevolezza sono molteplici: la fuga verso il silenzio, il revolver o le fiamme dove i manoscritti diventano cenere. Nel 1929, Yourcenar brucia senza molte esitazioni la prima stesura di Memorie di Adriano.

Da quel fatidico anno, la vita le impone appuntamenti significativi: con l’amore, la cui disillusione detta le prose liriche di Feux; con la storia, che già mostra i segnali premonitori della sciagura imminente; infine con la geografia privata, in virtù della quale la scrittrice lascia l’Europa per vivere negli Stati Uniti, insieme alla fedele compagna Grace Frick. È qui, nel silenzio ovattato di un’isoletta americana che si erge come avamposto atlantico, che Marguerite vivrà fino alla morte, senza mai rinunciare peraltro ai tanti viaggi. La quiete marina di Petite Plaisance è la cornice ideale in cui i ricordi della donna riaffiorano dalla sfera del vissuto per trasformarsi in letteratura. Si ridestano le memorie degli anni europei, gli incontri emblematici e le letture importanti: le mattine trascorse a Villa Adriana, il brulichio del quartiere Plaka di Atene, l’inquieto vagare sulle acque dell’Egeo e sulle strade dell’Asia Minore.
«Per riuscire a utilizzare questi ricordi, che sono i miei, essi hanno dovuto allontanarsi da me quanto il II secolo».
Come dire: quanto di noi e dei giorni vissuti altrove rimane nel nostro percorso all’interno del Labirinto, dove, come un Minotauro assassino e liberatore, ci attende l’opera compiuta?
Per tre decenni vaga la Yourcenar tra piani temporali e spaziali sciolti dal presente e ricomposti solo nelle frontiere notturne del sogno. Nel 1949, un plico di documenti lasciato in Svizzera prima della guerra e di cui si era persa traccia, raggiunge Mount Desert Island. Il paragone con un messaggio nella bottiglia gettata in mare non è del tutto improprio. Da quella scatola di cartone si risvegliano antichi progetti, immagini che sembravano perdute accarezzano di nuovo la sensibilità di Marguerite. Ogni scrittore che si rispetti, d’altronde, fa i conti con le sue Erinni private che non gli perdonano l’incompiuto. Nel tumulto dei gesti e della storia, i frammenti di un libro sempre vagheggiato erano sopravvissuti in qualche modo alle migrazioni, alle guerre e ai falò, per giungere infine nelle mani di una donna intenta a riordinare la galleria di vivi e di morti nella sua esistenza.

I manoscritti non bruciano – si legge nello straordinario Il Maestro e Margherita di Bulgakov. Dovremmo dire meglio: non bruciano completamente. A Marguerite Yourcenar basta leggere la celebre formula iniziale «Mon cher Marc»: il libro che si era portata sempre dentro andava finalmente scritto e salvato dalle fiamme.
È possibile praticare un’archeologia dell’interiorità? Rinvenire in sé, scavando tra le stratificazioni del passato, le testimonianze di quello che si era? Ritrovare nel presente la scia delle intuizioni di un tempo? Nel tentativo di entrare nell’intimità di un altro uomo, per giunta vissuto due millenni prima, la Yourcenar deve colmare, prima di tutto, la distanza che la separa da sé stessa. D’altronde, la vita di ognuno di noi non è che somma di sottrazioni – così come un libro, fissato ormai nella sua forma ultima e definitiva, è l’esito di una scelta in virtù della quale le lacune, le reticenze e le omissioni costellano le pagine come i crateri le superfici di un pianeta.
«Ripetersi senza tregua che tutto quello che racconto qui è falsato da quello che non racconto; queste note non circondano che una lacuna. Non vi si parla di ciò che facevo in quegli anni difficili, dei pensieri, i lavori, le angosce, le gioie, né dell’immensa ripercussione degli avvenimenti esteriori e della perenne prova di sé alla pietra di paragone dei fatti. Passo altresì sotto silenzio le esperienze della malattia e altre più segrete che queste portano con sé; e la perpetua presenza o ricerca dell’amore».
Ciò che rincuora Marguerite, nella notte della sua vita e della storia, è l’immediata e plastica bellezza delle arti visive: l’obbedienza del marmo alla mano, la linea chiara e precisa del disegno, il dettaglio che vivifica la materia. Nel 1941, mentre si trova a New York con Grace, la scrittrice scopre per caso in un negozio di arte quattro stampe di Piranesi. Una di esse raffigura una veduta di Villa Adriana e lo splendido Canopo: l’architettura evocata dall’artista sembra descrivere quella inquieta di un mondo interiore. Nelle sale di un museo nel Connecticut, una tela di ambiente romano del Canaletto e l’immagine del Pantheon con un cielo al tramonto, suscitano in Marguerite una sensazione di calda serenità. Ma sono soprattutto le raffigurazioni di Antinoo a provocare nella scrittrice una sorta di identificazione emozionale con l’imperatore: un bassorilievo a firma di Antoniano di Afrodisia e un’illustre sardonica dello stesso autore. Questi due pregevoli ritratti testimoniano che il marmo e il minerale hanno resistito per secoli alla follia degli uomini, obbedendo alla loro vocazione di amore e candore.
Si può davvero affermare che Memorie di Adriano sia il resoconto fedele di un uomo e di un’epoca intera che ne fu testimone? Nabokov sosteneva che tutti i più grandi libri – e questo vi figura a pieno titolo – non sono altro che meravigliose fiabe. C’è qualcosa di irrevocabile che colpisce il lettore dei Carnets: il senso che Memorie di Adriano sia nato non tanto da un atto creativo, ma dall’obbedienza a un destino avvertito come ineludibile.
Dopo aver terminato il libro, Marguerite Yourcenar ritorna a Villa Adriana. Da quella mattina del 1924 sono passati più o meno quarant’anni. Adempiuto un destino, sfamata la tigre che le ruggiva in petto, è tempo di volgersi altrove.
«Ma non sento più la presenza immediata di quegli esseri, l’attualità di quei fatti; mi restano vicini ma ormai sono superati, né più né meno come i ricordi della mia esistenza. I nostri rapporti con gli altri non hanno che una durata; quando si è ottenuta la soddisfazione, si è appresa la lezione, reso il servigio, compiuta l’opera, cessano; quel che ero capace di dire è stato detto; quello che potevo apprendere è stato appreso.
Occupiamoci ora di altri lavori».
Lorenzo Giacinto
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