Genesi di un nazista. Alfred Andersch e la scuola di Himmler, ovvero: imparare a obbedire

Pangea - Friday, August 8, 2025

Un esile monolite austero, essenziale, incandescente. Breve come una sentenza capace di incidere nella carne viva della Storia, la domanda che nessun fiammifero riesce a pronunciare senza bruciare: da dove nasce un assassino?

Il male non ha un principio teatrale, non comincia con un grido o un’esplosione. Il male indossa i panni del giorno feriale, siede in cattedra, detta compiti, chiede declinazioni. Il male, spesso, si impara. E in un breve romanzo – un pugno e una preghiera – Alfred Andersch ci porta dentro l’aula dove il suo alter ego, Franz Kien, adolescente inquieto, è protagonista di un’inquietudine più grande: la sua espulsione dalla ginnasio per mano del preside Himmler; sì, il padre di quel Himmler, quell’Heinrich al tempo ancora ragazzino, ancora impacciato, ancora figlio, colui che diverrà generale, poliziotto e criminale di guerra tedesco; il diretto organizzatore della soluzione finale all’origine dell’Olocausto.

Il padre di un assassino (Der Vater eines Mörders) è l’ultimo testo che Alfred Andersch pubblica, un ago di luce infilato nel passato, rivolto al silenzio. È un’invocazione contro l’oblio travestita da racconto scolastico. Scrivere questo libro – nel 1980, un mese prima della sua morte – fu per Andersch una forma di testamento civile. Trasmettere una ferita.

“Il giovane Himmler è un tipo molto a posto – gli aveva detto suo padre – un giovanotto in gamba, un seguace di Hitler, ma non fazioso.”

È il 1928. Siamo in un Gymnasium bavarese. Andersch è protagonista di una scena apparentemente banale: un’interrogazione, un errore, uno sguardo che si fa giudizio. Ma tra quei banchi, tra quelle frasi arcaiche e le pause imposte dal silenzio, si gioca qualcosa di più profondo: il rito della sottomissione.

Il preside Himmler è il custode di un mondo morente, quello della Germania imperiale, della pedagogia rigida come il passo dell’oca, del latino come lingua sacra dell’obbedienza. Il preside. L’autorità. Il vetro. L’arma. Kien, invece, è l’erede di un tempo nuovo, ancora oscuro, ancora informe, ma già indotto a sfidare la violenza. L’atto educativo diventa allora un processo al bambino stesso: il preside non insegna, giudica. E il giudizio, lo sappiamo, è la prima forma di condanna.

“Le pagelle scolastiche sono l’unico documento personale della mia infanzia e della mia adolescenza che sia sopravvissuto alla guerra. Sono firmate dal preside del ginnasio Wittelsbach: Himmler.”

Nato nel 1914 a Monaco, Alfred Andersch cresce nel cuore di una Germania ancora traumatizzata dalla sconfitta nella Prima guerra e dalle turbolenze della Repubblica di Weimar. Abbandona presto la scuola, rifiutando la disciplina soffocante dell’istruzione tradizionale. Si iscrive giovanissimo al partito comunista e subisce l’internamento a Dachau.

Durante la seconda guerra mondiale viene arruolato nella Wehrmacht e, nel 1944, diserta in Italia per farsi catturare dagli Alleati. Passa il resto della guerra come prigioniero in un campo americano. Al ritorno, fonda con Hans Werner Richter il celebre Gruppo 47, fucina della nuova letteratura tedesca del dopoguerra. 

“Non serve davvero a niente, pensò Franz, che io continui a fingere che le risposte alle sue domande mi vengano a mancare proprio quando me le pone. Perchiò butto fuori un ‘no’ a bassa voce, ma senza esitazione.”

Andersch è un autore schivo e complesso, fin troppo antiaccademico per l’élite letteraria, troppo borghese per la sinistra rivoluzionaria. È tuttavia sempre lucido, sempre inquieto. Mai compromesso nonostante le censure. Reduce dal dissenso, esule per scelta, narratore del margine, egli affida al ricordo l’onere della resistenza. Scrive con la sobrietà di chi ha molto visto e poco dimenticato. Non c’è pianto, non c’è retorica. Il suo stile è secco come una sentenza scolastica ma ci fa sentire come se sotto la superficie asciutta del testo si agitasse un magma di colpa e domande senza risposta. Lui stesso spiega il motivo dell’uso di un alter ego: 

“Il raccontare in terza persona permette a uno scrittore di essere il più sincero possibile. Lo aiuta a superare le inibizioni di cui difficilmente puo’ liberarsi quando dice – Io –”.

Perché, però, raccontare questo spaccato d’infanzia congelata? Perché lì, in quella mattina di maggio, Andersch ha visto l’origine del nazismo: non nei proclami, non nella folla, ma nell’educazione come strumento di controllo, nella famiglia come prima caserma, nella scuola come anticamera del Reich. Il ventre in cui si forma la disciplina cieca, il seme del fanatismo, la grammatica dell’obbedienza. Una frase come una misura. Una bilancia. Un confine. È tutto qui, nel gesto minimo del giudicare, Andersch cerca la radice, osserva, ricorda la forma mentis che rende possibile l’assassinio; egli scrive per non tacere..

“La definizione di assassino per Heinrich Himmler è molto mite; non è stato un assassino qualsiasi ma, fin dove arrivano le mie nozioni storiche, il più grande sterminatore di vite umane che sia mai esistito.”

Il vero tema del libro, dunque, non è Himmler o lo stesso Andersch: è il modo in cui si costruisce un individuo incapace di scegliere. Andersch lascia che la scena parli da sé. L’assassino non nasce per vocazione. Ma per esposizione quotidiana a una cultura che educa all’obbedienza come virtù. Il vero Nazismo è un’enorme pedagogia del conformismo.

Quando nel 1961 Hannah Arendt assiste al processo Eichmann a Gerusalemme, formula la celebre teoria della Banalità del male. Eichmann non è un mostro, non è un sadico: è un uomo mediocre, che si è rifiutato di pensare. Un funzionario della morte che ha applicato regole. Un alunno modello del sistema. Il padre di un assassino mostra qualcosa di simile: il male come effetto collaterale dell’obbedienza, come frutto dell’incapacità di mettere in discussione l’autorità, di dire “no”. Il preside Himmler, con la sua educazione cinica, non guida; misura. E nella misura c’è già la distanza, e nella distanza, l’abbandono.

“Non era stupido, era semplicemente senza idee. Quella lontananza dalla realtà e quella mancanza di idee, possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo.”

Hannah Arendt

Il padre di un assassino (uscito, in Italia, per Guanda e per Marcos y Marcos) è anche un trattato implicito su come l’istruzione possa deformare l’essere umano. Il giovane Himmler, sconosciuto all’Andersch ragazzino, non è all’epoca l’uomo dei campi di sterminio, ma è guidato verso la metamorfosi in mostro. Foucault affermava che la scuola, così come la caserma e la prigione, è un’istituzione che plasma i corpi e le menti attraverso la microfisica del potere. L’autorità si interiorizza nei gesti quotidiani, nei voti, negli sguardi. Chi obbedisce non lo fa più per pa1ura, ma perché ha imparato che obbedire è giusto. In questo senso, il padre di Himmler — preside, figura autorevole, rappresentante della vecchia Germania imperiale — è un’emanazione viva del potere disciplinare. Ma non è un carnefice. Non è nemmeno un ideologo. È un funzionario. Un nodo nella rete.

Anche Nietzsche, in Al di là del bene e del male, smaschera l’educazione, la intende come meccanismo di addomesticamento. La cultura borghese tedesca, quella in cui è nato Himmler, ha prodotto individui obbedienti, ben nutriti e incapaci di pensiero critico. L’uomo addestrato non è l’uomo libero. La massa, infatti, come spiega EliasCanetti, desidera il comando, e l’autorità diventa figura sacra proprio perché intoccabile, distante, paterna. La scena del preside che espelle il giovane Andersch è perfetta per incarnare una distanza sacralizzata: il potere che si legittima non parlando mai abbastanza.

“Io mi sono tratto d’impaccio, poichè ho tentato di scrivere la storia di un ragazzo che non ha voglia di studiare. E neppure in questo senso la cos aè priva di ambiguità: ci saranno lettori che, di fronte allo scontro fra il Rex e Franz Kien, prenderanno le parti del preside.”

La tragedia non è che Himmler diventerà un assassino. È che nessuno glielo impedirà in tempo, perché tutti avranno fatto della disciplina la regola della sopravvivenza. Andersch ci da quindi un avvertimento. Un libro breve come un ricordo, ma duro come un monito inciso nella carne. Ogni società educa i propri figli. Ogni educazione trasmette una visione del mondo. Quale mondo stiamo insegnando?

In un tempo in cui vige la reificazione dell’uomo; in un’epoca che ama la performance, il ranking, la produttività, e che premia il silenzio mascherandolo da competenza, questo libro resta un contrappunto filosofico radicale. Forse non è l’odio a generare l’assassino. Forse è l’obbedienza cieca, il rispetto con la benda sugli occhi, il sistema che premia chi non mette in dubbio nulla. Forse, siamo tutti fanatici prigioneri.

Tommaso Filippucci

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