Un esile monolite austero, essenziale, incandescente. Breve come una sentenza
capace di incidere nella carne viva della Storia, la domanda che nessun
fiammifero riesce a pronunciare senza bruciare: da dove nasce un assassino?
Il male non ha un principio teatrale, non comincia con un grido o
un’esplosione. Il male indossa i panni del giorno feriale, siede in cattedra,
detta compiti, chiede declinazioni. Il male, spesso, si impara. E in un breve
romanzo – un pugno e una preghiera – Alfred Andersch ci porta dentro l’aula dove
il suo alter ego, Franz Kien, adolescente inquieto, è protagonista di
un’inquietudine più grande: la sua espulsione dalla ginnasio per mano del
preside Himmler; sì, il padre di quel Himmler, quell’Heinrich al tempo ancora
ragazzino, ancora impacciato, ancora figlio, colui che diverrà generale,
poliziotto e criminale di guerra tedesco; il diretto organizzatore della
soluzione finale all’origine dell’Olocausto.
Il padre di un assassino (Der Vater eines Mörders) è l’ultimo testo che Alfred
Andersch pubblica, un ago di luce infilato nel passato, rivolto al silenzio. È
un’invocazione contro l’oblio travestita da racconto scolastico. Scrivere questo
libro – nel 1980, un mese prima della sua morte – fu per Andersch una forma
di testamento civile. Trasmettere una ferita.
> “Il giovane Himmler è un tipo molto a posto – gli aveva detto suo padre – un
> giovanotto in gamba, un seguace di Hitler, ma non fazioso.”
È il 1928. Siamo in un Gymnasium bavarese. Andersch è protagonista di una scena
apparentemente banale: un’interrogazione, un errore, uno sguardo che si fa
giudizio. Ma tra quei banchi, tra quelle frasi arcaiche e le pause imposte dal
silenzio, si gioca qualcosa di più profondo: il rito della sottomissione.
Il preside Himmler è il custode di un mondo morente, quello della Germania
imperiale, della pedagogia rigida come il passo dell’oca, del latino come lingua
sacra dell’obbedienza. Il preside. L’autorità. Il vetro. L’arma. Kien, invece, è
l’erede di un tempo nuovo, ancora oscuro, ancora informe, ma già indotto a
sfidare la violenza. L’atto educativo diventa allora un processo al bambino
stesso: il preside non insegna, giudica. E il giudizio, lo sappiamo, è la prima
forma di condanna.
> “Le pagelle scolastiche sono l’unico documento personale della mia infanzia e
> della mia adolescenza che sia sopravvissuto alla guerra. Sono firmate dal
> preside del ginnasio Wittelsbach: Himmler.”
Nato nel 1914 a Monaco, Alfred Andersch cresce nel cuore di una Germania ancora
traumatizzata dalla sconfitta nella Prima guerra e dalle turbolenze della
Repubblica di Weimar. Abbandona presto la scuola, rifiutando la disciplina
soffocante dell’istruzione tradizionale. Si iscrive giovanissimo al partito
comunista e subisce l’internamento a Dachau.
Durante la seconda guerra mondiale viene arruolato nella Wehrmacht e, nel 1944,
diserta in Italia per farsi catturare dagli Alleati. Passa il resto della guerra
come prigioniero in un campo americano. Al ritorno, fonda con Hans Werner
Richter il celebre Gruppo 47, fucina della nuova letteratura tedesca del
dopoguerra.
> “Non serve davvero a niente, pensò Franz, che io continui a fingere che le
> risposte alle sue domande mi vengano a mancare proprio quando me le pone.
> Perchiò butto fuori un ‘no’ a bassa voce, ma senza esitazione.”
Andersch è un autore schivo e complesso, fin troppo antiaccademico per l’élite
letteraria, troppo borghese per la sinistra rivoluzionaria. È tuttavia sempre
lucido, sempre inquieto. Mai compromesso nonostante le censure. Reduce dal
dissenso, esule per scelta, narratore del margine, egli affida al ricordo
l’onere della resistenza. Scrive con la sobrietà di chi ha molto visto e poco
dimenticato. Non c’è pianto, non c’è retorica. Il suo stile è secco come una
sentenza scolastica ma ci fa sentire come se sotto la superficie asciutta del
testo si agitasse un magma di colpa e domande senza risposta. Lui stesso spiega
il motivo dell’uso di un alter ego:
> “Il raccontare in terza persona permette a uno scrittore di essere il più
> sincero possibile. Lo aiuta a superare le inibizioni di cui difficilmente puo’
> liberarsi quando dice – Io –”.
Perché, però, raccontare questo spaccato d’infanzia congelata? Perché lì, in
quella mattina di maggio, Andersch ha visto l’origine del nazismo: non nei
proclami, non nella folla, ma nell’educazione come strumento di controllo, nella
famiglia come prima caserma, nella scuola come anticamera del Reich. Il ventre
in cui si forma la disciplina cieca, il seme del fanatismo, la grammatica
dell’obbedienza. Una frase come una misura. Una bilancia. Un confine. È tutto
qui, nel gesto minimo del giudicare, Andersch cerca la radice, osserva, ricorda
la forma mentis che rende possibile l’assassinio; egli scrive per non tacere..
> “La definizione di assassino per Heinrich Himmler è molto mite; non è stato un
> assassino qualsiasi ma, fin dove arrivano le mie nozioni storiche, il più
> grande sterminatore di vite umane che sia mai esistito.”
Il vero tema del libro, dunque, non è Himmler o lo stesso Andersch: è il modo in
cui si costruisce un individuo incapace di scegliere. Andersch lascia che la
scena parli da sé. L’assassino non nasce per vocazione. Ma per esposizione
quotidiana a una cultura che educa all’obbedienza come virtù. Il vero Nazismo è
un’enorme pedagogia del conformismo.
Quando nel 1961 Hannah Arendt assiste al processo Eichmann a Gerusalemme,
formula la celebre teoria della Banalità del male. Eichmann non è un mostro, non
è un sadico: è un uomo mediocre, che si è rifiutato di pensare. Un funzionario
della morte che ha applicato regole. Un alunno modello del sistema. Il padre di
un assassino mostra qualcosa di simile: il male come effetto collaterale
dell’obbedienza, come frutto dell’incapacità di mettere in discussione
l’autorità, di dire “no”. Il preside Himmler, con la sua educazione cinica, non
guida; misura. E nella misura c’è già la distanza, e nella distanza,
l’abbandono.
> “Non era stupido, era semplicemente senza idee. Quella lontananza dalla realtà
> e quella mancanza di idee, possono essere molto più pericolose di tutti gli
> istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo.”
>
> Hannah Arendt
Il padre di un assassino (uscito, in Italia, per Guanda e per Marcos y Marcos) è
anche un trattato implicito su come l’istruzione possa deformare l’essere umano.
Il giovane Himmler, sconosciuto all’Andersch ragazzino, non è all’epoca l’uomo
dei campi di sterminio, ma è guidato verso la metamorfosi in
mostro. Foucault affermava che la scuola, così come la caserma e la prigione, è
un’istituzione che plasma i corpi e le menti attraverso la microfisica del
potere. L’autorità si interiorizza nei gesti quotidiani, nei voti, negli
sguardi. Chi obbedisce non lo fa più per pa1ura, ma perché ha imparato che
obbedire è giusto. In questo senso, il padre di Himmler — preside, figura
autorevole, rappresentante della vecchia Germania imperiale — è un’emanazione
viva del potere disciplinare. Ma non è un carnefice. Non è nemmeno un ideologo.
È un funzionario. Un nodo nella rete.
Anche Nietzsche, in Al di là del bene e del male, smaschera l’educazione, la
intende come meccanismo di addomesticamento. La cultura borghese tedesca, quella
in cui è nato Himmler, ha prodotto individui obbedienti, ben nutriti e incapaci
di pensiero critico. L’uomo addestrato non è l’uomo libero. La massa, infatti,
come spiega EliasCanetti, desidera il comando, e l’autorità diventa figura sacra
proprio perché intoccabile, distante, paterna. La scena del preside che espelle
il giovane Andersch è perfetta per incarnare una distanza sacralizzata: il
potere che si legittima non parlando mai abbastanza.
> “Io mi sono tratto d’impaccio, poichè ho tentato di scrivere la storia di un
> ragazzo che non ha voglia di studiare. E neppure in questo senso la cos aè
> priva di ambiguità: ci saranno lettori che, di fronte allo scontro fra il Rex
> e Franz Kien, prenderanno le parti del preside.”
La tragedia non è che Himmler diventerà un assassino. È che nessuno glielo
impedirà in tempo, perché tutti avranno fatto della disciplina la regola della
sopravvivenza. Andersch ci da quindi un avvertimento. Un libro breve come un
ricordo, ma duro come un monito inciso nella carne. Ogni società educa i propri
figli. Ogni educazione trasmette una visione del mondo. Quale mondo stiamo
insegnando?
In un tempo in cui vige la reificazione dell’uomo; in un’epoca che ama la
performance, il ranking, la produttività, e che premia il silenzio mascherandolo
da competenza, questo libro resta un contrappunto filosofico radicale. Forse non
è l’odio a generare l’assassino. Forse è l’obbedienza cieca, il rispetto con la
benda sugli occhi, il sistema che premia chi non mette in dubbio nulla. Forse,
siamo tutti fanatici prigioneri.
Tommaso Filippucci
L'articolo Genesi di un nazista. Alfred Andersch e la scuola di Himmler, ovvero:
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