Svettare: per una poetica della montagna

Pangea - Friday, August 22, 2025

La poesia nasce in vetta – svettare è il metodo degli ispirati; è un modo di voltare il collo, di rendere lo sguardo alle nevi. 

…e il linguaggio torni ciò che è: neve, ululato di nubi, nebbie in gregge; il fischio del rapace; i rami in amore marziale. Complica il linguaggio chi è complice di questo infame semplificare. La parola non lega – scioglie, sprigiona, libera. 

Slega nodi – sega cordami. Ogni parola: giaguaro delle nevi.

In altura si inspira – a valle si espira, ci si esprime. L’altezza, a povertà d’aria, non permette scrittura – si scrive soltanto a umana quota, da uomo a uomo, di cose imparate e impari, di ciò che lassù si è visto. 

*

La poesia giunge da Elicona, le “santissime vette”, i “vertici sommi”, in Beozia, dove dimorano le Muse. Vetta di 1748 metri, montagna cucciola: la vera altezza si misura in profondità. 

Sull’Oreb – o Sinai che sia – Mosè incontra Dio. L’Oreb è “il monte di Dio” (har-el helohim): poco più di un colle – l’attuale Har Karkom, misura 847 metri –; Dio appare in forma di roveto che arde. La misura di Dio è diversa da quella adottata dai geografi, agiografi delle rocce. 

Mosè pascola capre e pecore; secoli dopo l’agnus dei, Cristo, accompagnerà i discepoli – Pietro, Giacomo e Giovanni “suo fratello” – “su un alto monte” per trasfigurarsi. Secondo la tradizione, il monte della trasfigurazione è il Tabor, una collina che si eleva di cinquecento metri sul livello del mare. Ancora una volta, altezza che si misura in profondità.

Grazie alla parola ottenuta da Dio sul monte, Mosè apre le acque. 

Grazie alle parole scambiate con il Padre, il Figlio apre i cieli. 

Grazie al logos succhiato dalle Muse, Orfeo scende negli inferi. 

*

Il Ventoux asceso da Petrarca nel 1336 si trova a Vaucluse, in Provenza, misura 1910 metri. È un’ascesa laica, quella del poeta: eppure, ‘purgatoriale’. Giunto in quota insieme al fratello, Petrarca apre a caso le Confessioni di Agostino, a confinare il fato in provvidenza:

“Lo apro per leggere quello che mi cadesse sott’occhio: quale pagina poteva capitarmi che non fosse pia e devota? Era il decimo libro. Mio fratello, che attendeva per mia bocca di udire una parola di Agostino, era attentissimo. Lo chiamo con Dio e testimonio che dove dapprima gettai lo sguardo, vi lessi: «E vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi». Stupii, lo confesso; e pregato mio fratello che desiderava udire altro di non disturbarmi, chiusi il libro, sdegnato con me stesso dell’ammirazione che ancora provavo per cose terrene quando già da tempo, dagli stessi filosofi pagani, avrei dovuto imparare che niente è da ammirare tranne l’anima, di fronte alla cui grandezza non c’è nulla di grande”.

Il monte non è Paradiso, ma Purgatorio: agisce come un battesimo, come acqua battente. Suprema spoliazione – della mente, in scarsità di ossigeno; del corpo, in ristrettezze d’energie – per gettarsi nel superiore.

Il monte: smontarsi di ogni aggettivo, lasciarsi sollevare. 

Gettarsi, cioè: precipitare – spogliarsi, cioè: spezzarsi. 

Il corpo va spezzato, l’opera va spezzata – così, per briciole, si cibano i divezzi lettori. 

*

Il canto di Orfeo dischiude gli Inferi: pur spalancati come un frutto, al poeta non è permesso riportare in vita l’amata, Euridice. La vetta di Orfeo è il canto: volgersi verso il monte Pangeo, per ammirare il sorgere di Apollo, lo porta a morte. Dioniso, geloso, gli scaglia le sfreccianti Baccanti, le furiose, che spezzano il corpo di Orfeo gettandolo nell’Evros. Il fiume, endecasillabo del monte, suo azzurro poema. Soltanto fatta a pezzi la poesia s’invola, si alza. 

*

Non esiste poesia che non comporti ascesi: Rilke – il poeta orfico per antonomasia – conclude la propria ascesi nel castelletto di Muzot, presso Veyras, nel Canton Vallese, a poco più di 600 metri di altitudine. Dino Campana, l’autore dei Canti Orfici, vagabondava per i monti, “giurando noi fede all’azzurro” (così nella sezione che apre Immagini del viaggio e della montagna):

“Pare la donna che siede pallida giovine ancora
Sopra dell’erta ultima presso la casa antica:
Avanti a lei incerte si snodano le valli
Verso le solitudini alte de gli orizzonti:
La gentile canuta il cuculo sente a cantare.
E il semplice cuore provato negli anni
A le melodie della terra
Ascolta quieto: le note
Giungon, continue ambigue come in un velo di seta.
Da selve oscure il torrente
Sorte ed in torpidi gorghi la chiostra di rocce
Lambe ed involge aereo cilestrino…
E il cuculo cola più lento due note velate
Nel silenzio azzurrino”.

*

Montagna: luoghi di monaci e di briganti, di rifugi, di transfughi, di divinità di confine – di eresiarchi e di anarchici. Imperiale è l’impervio. Così i poeti, eletti al brigantaggio del linguaggio, al bracconaggio del verbo, a parola che cede in gravità – che ha misura nel sovrumano silenzio. 

Gli sciamani costruivano il proprio tamburo, a orientarsi nel viaggio celeste, con pelli di bestie d’alta quota, esseri capaci d’involarsi nell’abisso – quasi angeli. 

Così, ogni scalata è santa, ogni parola è stilita, sospesa tra terra e cielo, a capofitto. 

Ci si eleva per abbassarsi, ci si innalza per scoprire la propria altissima debolezza. Il fuoco è verticale perché divora le cose del mondo, perché incenerisce – così l’uomo consuma per involarsi: ma la sua è cenere infeconda, l’effimera del frutto. 

Dunque: farsi parola per espiazione – per esplosione. 

Anselm Kiefer, Voglio vedere le mie montagne – für Giovanni Segantini

*

Secondo l’astronomo francese Jean Jacques Dortous de Mairan, vissuto nel XVIII secolo, dall’Olimpo, il mitico monte degli dèi, si ammirava, all’epoca dei Greci antichi, l’aurora boreale, il poema celeste. Epopea di guerre stellari. 

Lo stesso astronomo ha scritto un importante studio sui ghiacci, il luogo in cui si sublima la montagna. I ghiacciai: lente fenici dei monti. 

Il libro: ghiacciaio che si scioglie sotto gli occhi del lettore, per riformarsi altrove, in altre conche, in altre calotte. La montagna non va vinta, ma invitata – chi scala sa che esiste l’attimo in cui le gambe danzano. 

Cosce da arciere, cosce da rapace. 

*

C’è chi cammina come avesse endecasillabi nei polpacci, con un ritmo di singolare eleganza. E chi marcia in novenari – oppure uniformando il proprio andare all’oceanico verso di Walt Whitman, il gran vagabondo.  

Altra fermezza: camminare restando fermi, come sulla tolda di una barca. Il rifugio, ben più che una casa, è un cielo, come i cieli nel Paradiso di Dante. 

Sempre, chi va, va masticando un voto – “Bisogna cristallizzarsi, costringersi nel ritmo giusto… Bisogna entrare in un voto, indossare un voto”, scrive Scipione nel 1932, ricoverato ad Arco di Trento, rivelato a se stesso dal male, letale. 

“Tutto è stato mantenuto, ma io non posso godere dell’adempimento: ho fatto del tutto perché questo non avvenisse. Mi sono adoperato per precipitare”. 

Si sale a precipizio – si ascende per precipitare. 

*

La vertigine è cosa diversa dalla vetta: la poesia di Georg Trakl scritta a Grodek, in Galizia, è vertiginosa.

“A sera risuonano i boschi autunnali
di mortali armi, e le pianure d’oro
e i laghi azzurri dove sprofonda
un cupo sole; la notte abbraccia
guerrieri agonizzanti, il pianto selvaggio
di bocche fracassate”. 

Per i Greci il punto di vertigine è il mare in cui Ulisse vaga in sapienziale pellegrinaggio; è Delfi, seicento metri sul mare, ai piedi del Parnaso, dove la Pizia ulula – Apollo-Lupo – e sibila – Pizia-Pitone – parole inaudite, d’incomprensibile vello; per i cristiani è la Croce, conficcata sul “monte Calvario”, il Golgota, fuori le mura di Gerusalemme: è quella la vera ‘salita’, la ‘scalata’. Il cristiano, per fede, smuove le montagne. 

*

In Estremo Oriente il monaco-poeta si spinge tra baratri e barbarie, in desolati luoghi: non ha meta, il suo monito è perdersi. Spopolarsi, questo è il carisma della poesia di tali erranti monaci. Nessuna cima li alletta, nessun record, nessun Polo: chi perde in profondità, compensa in statistiche, accumula cifre e vette, come se la montagna fosse una bestia da macello.  

Del più noto di questi poeti, Hanshan, “Montagna fredda”, vissuto, forse, nel VII secolo, non sappiamo nulla. Anonimato, anemia del sé, annientarsi è ciò che tenta il vagabondo nel suo nottivago andare: essere il fiore sul ciglio, abbagliare per riservatezza – e a tratti, ridere di se stessi. 

“Contento della via semplice che ho scelto,
tra nebbie e rampicanti e grotte nella roccia,
senso di libertà nella natura selvaggia,
le nuvole bianche in ozio per compagne,
c’è la strada ma non raggiunge il mondo,
solo chi ha assopito i pensieri può arrivare qui,
siedo a notte da solo sul letto di pietra,
la luna piena sulla Montagna Fredda”.

Gli eremiti conficcati nelle grotte del Ladakh, al di là del linguaggio, fanno dell’Himalaya la loro grande arpa:

“Non aver paura di meditare da solo in una grotta.
Non aver paura di meditare da solo in una grotta, con pochissimo cibo, né di ammalarti.
Non aver paura di meditare da solo in una grotta né di morire lì.
Non aver paura di meditare da solo in una grotta, né di morire lì senza che nessuno conosca neppure il tuo nome”.

*

René Daumal scrive il suo trattato di mistica dell’alpinismo, Il Monte Analogo, per “il principiante”. L’esperto ha già esperito: ma a noi preme inoltrarci nel principio, nostro premio – principiare il principio. 

Di fronte alla montagna si è sempre al principio; ascendere: rientrare nel ventre. Ascendere: sfigurare dio. 

“Ognuno faceva il suo inventario, e di giorno in giorno ognuno si sentiva più povero, non vedendo niente intorno o dentro di sé che gli appartenesse realmente”. La pratica comincia dalla povertà. 

Alla massa preferire la comunità degli affini; al lavoro meccanico la creatività individuale; all’ambizione la dedizione; alla delazione la devozione; allo sciaguattare dell’io, lo scempio dell’io; alla classifica il fuori legge; al rancore e all’invidia – eccitazioni metropolitane – l’ira, energia dinamica; all’ego l’epos, all’ethos l’eros; al poetico, la poesia. 

*

Emily Dickinson amava i vulcani; nel giardino di Amherst, 88 metri sul livello del mare, scorgeva un Everest. 

“…Ritrosa Montagna!
Porpore di Ere – sostano per te –

Il Tramonto – passa in rassegna il suo Reggimento di Zaffiro –
Il Giorno – fa cadere su di te il suo Rosso Addio!

Immobile – Ricoperta dalla tua Maglia di ghiacci – 
Coscia di Granito – e muscolo – d’Acciaio –
Incurante – in egual misura – di pompa – o commiato”.

A misura dell’altezza d’amare, Emily – poesia 452 del suo intrepido canzoniere – indossa il Chimborazo, titanica vetta dell’Ecuador, scalata qualche decennio prima da Alexander von Humboldt, “il punto più distante dal centro della Terra”, i cancelli del cielo. 

“Amore – tu sei alto –
Non posso scalarti –
Ma, si fosse in Due –
Chissà che noi –
Alternandoci – al Chimborazo –
Ducali – alla fine – non si arrivi a starti accanto –”

*

A simile altitudine è educato chi va per deserti, ancestrali montagne sbriciolate, fatte sabbia. Duna, demonio del vento, mio indovino, indovinami. 

Sahara, che un tempo fosti Everest…

*

In montagna: code di umani come al supermercato. Se la montagna diventa accessibile, che ne è delle forze che la abitano, dell’eco che sconfigge ogni tentativo di io, di mio? 

“Ho la sensazione di aver conosciuto un miracolo, e forse non avrei potuto vederlo questo miracolo se la sua scomparsa non ne facesse parte”, ha scritto il poeta svizzero Maurice Chappaz. Ai suoi occhi, il Vallese era apparentato al Tibet, “Si entra nell’Eternità senza accorgersene”. Ai suoi occhi, i morti “e il loro infimo lampo azzurro”, sgattaiolavano dai ghiacciai: “i loro passi come singhiozzi”. 

Di questo attracco all’altro mondo, ora, cosa resta?

Via i morti, architravi del ghiacciaio, e tutto si smonta in palude. 

*

Voglio vedere le mie montagne, sussurrava Segantini, morendo – le montagne, con dote di dieci ali, già lo stavano sollevando. Altezza, in questo caso, è un modo di accarezzare. 

Svettare, cioè: abbassarsi per caricare in spalla chi ha libellule gambe. 

*In copertina: Leonardo Roda, Il Cervino, parete Nord

L'articolo Svettare: per una poetica della montagna proviene da Pangea.