“Siamo esseri del profondo abisso”. Saggio sulla “Montagna magica” di Thomas Mann

Pangea - Saturday, August 23, 2025

Il primo colpo di tosse sembra niente. Poi mano a mano il corpo si agita, sente un’occlusione dei canali respiratori. Il fiato si fa corto, l’esofago si stringe, come una mano che schiaccia la gola. Le contrazioni toraciche diventano più insistenti, la tosse più grassa – reagisce a un’improvvisa pressione sui polmoni. Nella bocca un sapore di ruggine, ferroso. La temperatura del corpo sale: una costante febbre che dà spossatezza, perdita d’appetito, veloce dimagrimento. Un bacillo potrebbe aver attaccato il sistema immunitario. Ma che sia tubercolosi non è affatto detto. Potrebbe essere un’influenza più aggressiva del normale, forse addirittura una polmonite. Solo che, stando alle statistiche, quasi due miliardi di persone è contagiata dal mycobacterium tuberculosis, ma soltanto il 5% svilupperà la malattia in maniera attiva nella propria vita. È la prima delle scoperte a cui giunge Hans Castorp andando a trovare in sanatorio suo cugino Joachim: la malattia non è una condizione di eccezionalità. Malati lo siamo tutti. La differenza è il modo in cui assecondiamo e accogliamo quella condizione; come dire, la nostra predisposizione a lasciare che la malattia agisca sul nostro sistema vitale.

Quando, l’8 maggio del 1936, Thomas Mann viene invitato a Vienna a tenere un discorso per l’ottantesimo compleanno del padre della psicanalisi, Sigmund Freud, a un certo punto afferma che quando incontrò la sua opera si accorse che due questioni significativamente lo legavano all’autore dell’Interpretazione dei sogni: l’amore per la verità e la malattia come mezzo di conoscenza. Tralasciando la prima questione, sulla seconda Mann sottolinea: 

«Ad ogni pagina sembra insegnarci che nessun profondo sapere è possibile senza quell’esperienza, premessa e condizione di ogni più alta salute. Anche questo senso potrebbe quindi ricondurre a Nietzsche, se non fosse piuttosto strettamente congiunto con l’essenza stessa dell’uomo spirituale in genere e del poeta in ispecie, anzi, con l’essenza stessa di tutta l’umanità, per quel che v’ha in essa di specificamente umano e di cui il poeta è l’espressione esagerata ed estrema. […] L’uomo è stato definito “animale malato” a causa delle tensioni e delle difficoltà, che sono il suo peso e il suo privilegio, a lui imposte dalla sua posizione stessa, intermedia fra natura e spirito, fra angelo e bestia».

Si colga, nel ragionamento, questa continua dualità che Mann estremizza. L’uomo è un “animale malato”, e quella malattia è un “peso” e al contempo un “privilegio”, perché la sua posizione è in continua tensione tra “natura” e “spirito”, tra “bene” e “male”. L’uomo è malato perché è tale nella sua essenza. Quello che si presenta come il sintomo di un improvviso disfunzionamento dell’organismo non fa che mettere in evidenza un difetto spirituale. È l’argomento della Montagna magica quello di comprendere quale sia il legame tra queste due forme di instabilità, in che modo coincidano una malattia del corpo e una della psiche, e come questa possibile coincidenza, o questo dissidio indissolubile e inscindibile, possano aprire le porte di quel mistero insolubile che è l’uomo in quanto tale.

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La genesi del romanzo è piuttosto nota. Dal 15 maggio al 13 giugno del 1912, Mann accompagna sua moglie in un sanatorio a Davos per farla curare da una sospetta tubercolosi. In quel periodo stava terminando La morte a Venezia. L’esperienza del sanatorio comincia a ispirarlo, ma per molto tempo quello che ha in mente è una novella, una sorta di appendice al romanzo di Aschenbach. Nel ’14 scoppia la guerra e l’attenzione di Mann si volge a questioni che reputa più urgenti per il destino dell’Europa intera. Solo alla fine del primo conflitto mondiale – che molto influì sulle pagine della Montagna – il lavoro riprende con costanza e si complica. In una pagina di diario del 1919 Mann scrive: 

«Penso frattanto che sia davvero questo il momento giusto per riprendere in mano lo Zbg [Montagna magica]. Durante la guerra sarebbe stato troppo presto, ho dovuto interrompere. La guerra doveva prima manifestarsi chiaramente come inizio della rivoluzione, il suo epilogo doveva non soltanto aver luogo ma anche mostrarsi come epilogo fittizio. Il conflitto tra reazione (simpatia per il Medioevo) e illuminismo umanistico è assolutamente storico e antecedente alla guerra. La sintesi sembra trovarsi nel futuro (comunista): il nuovo consiste sostanzialmente in una nuova concezione dell’uomo come sintesi di corpo e spirito (superamento del dualismo cristiano di anima e corpo, Chiesa e Stato, morte e vita), una concezione sorta anch’essa, del resto, prima della guerra. Si tratta della prospettiva riguardante il rinnovamento in chiave umanistica del regno di Dio cristiano, cioè di un regno di Dio in qualche modo umanamente compiuto e trascendente e, dunque, spirituale e corporeo: tanto Burge [il nome definitivo sarà Naptha nel romanzo], quanto Settembrini, con le loro tendenze, hanno allo stesso tempo ragione e torto. Il fatto che Hans Castorp venga dimesso per la guerra significa che è dimesso per partecipare all’inizio delle lotte per il nuovo, dopo che ha assaggiato pedagogicamente le sue componenti, quella cristiana e quella pagana».

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Andiamo per gradi. Per Hans Castorp, un giovane studente di ingegneria navale, orfano di madre e di padre, rimasto sotto la tutela dello zio, quella montagna che raggiunge per andare a far visita al cugino Joachim, ospite del sanatorio da qualche tempo, è un mistero. Un mistero che egli pensa di risolvere in sole tre settimane. Eppure, fin dal suo arrivo, fin dalla prima sera, percepisce che il suo corpo sta reagendo a qualcosa, il volto gli va in fiamme, come se fosse stato sorpreso da un’improvvisa febbre. Una condizione che non lo mollerà per giorni, nonostante la strafottenza di negare qualsivoglia disturbo, quasi sentisse di vivere una doppia vita, una organica, che gli pare addirittura autonoma, l’altra di emozioni. 

«La cura del riposo mi sta bene, la faccio volentieri come tutti, ma misurarsi la febbre sarebbe un po’ troppo per un ospite in visita, lo lascio volentieri a voi di quassù. Se solo sapessi […] perché mai ho queste continue palpitazioni…. È un fatto inquietante, ci sto pensando da un bel po’. Le palpitazioni vengono di solito quando siamo in attesa di una particolare gioia o quando siamo in apprensione, insomma, quando sono in gioco le emozioni, non ti pare? Ma se il cuore ti comincia a battere da solo, senza motivo e senza scopo, per conto suo, diciamo, trovo che sia una cosa perturbante, comprendimi bene, è come se il corpo se ne andasse per la sua strada e non avesse più alcun rapporto con l’anima o fosse, per così dire, morto pur non essendo veramente morto… […] è, piuttosto, come se il corpo conducesse una vita molto intensa, ma totalmente autonoma».  

«Come se il corpo», dichiara Castorp, «non avesse più alcun rapporto con l’anima». Questo scollamento è il principio di un dualismo su cui Mann ragiona per tutto il corso del romanzo. È un dualismo stratificato, risultato di una condizione che prevede un processo conoscitivo. Un dualismo da cui Castorp sembra ossessionato, che sente di dover continuamente ricercare, scardinare, addirittura farsene sedurre. Il primo segno viene appunto dal corpo, da uno stato percepito fisicamente ma non ancora psichicamente. Quasi che il corpo vivesse una vita sua propria, quasi che la psiche percepisse un attimo dopo quello che il corpo suggerisce. 

Ora però ci sarebbe da capire se la malattia che il corpo suggerisce era qualcosa che preesisteva o è stata la montagna a scatenarla. O ancora, la malattia del corpo la montagna l’ha provocata o l’ha soltanto manifestata? La questione non è faccenda intellettualistica. Hans parte con un falso scopo, o con un pretesto, una visita di piacere a suo cugino. Non nutre coscientemente alcun bisogno di cura. Il suo problema, un problema che presto emergerà, è l’assenza stessa di uno scopo, di una ragione di vita. L’allontanamento da Amburgo, o dalle zone basse, verso “quelli di lassù”, verso la montagna, non è che un tentativo incosciente di allontanarsi da un problema esistenziale. Il primo segno che quello spostamento – quella ricerca – gli concede, è appunto il manifestarsi di un disagio fisico. Il corpo per primo, voglio dire, segnala un disagio di cui non si conosce la natura, o la causa. 

A sottolineare fin da subito la questione della malattia come qualcosa di fisico e psichico nello stesso tempo è nel romanzo il dottor Krokowski quando incontra per la prima volta il nuovo arrivato Castorp, il quale però dichiara di essere perfettamente sano. 

«Sul serio? Ma allora lei è un fenomeno più che degno di essere studiato! Perché una persona perfettamente sana io, finora, non l’ho mai incontrata. […] Dunque non intende approfittare qui di nessun trattamento medico, né fisico né psichico?».

Del resto è il dottor Krokowski che mensilmente tiene nel sanatorio delle conferenze di carattere psicanalitico, una sorta di Freud sceso nel regno dei morti a mostrare l’abisso in cui tutti gli ospiti del sanatorio si trovano, non solo per lo spazio che abitano – uno spazio definito spesso nel romanzo fuori dalla vita –, ma per come la malattia li abbia messi in relazione con quella parte dello spirito che è la zona d’ombra di ognuno, quella da cui scaturiscono tutti i dolori di cui si sente il peso ma di cui non si individua l’origine. Di discesa nel regno dei morti parla anche uno dei personaggi principali del romanzo, il letterato italiano allievo di Carducci, l’illuminista, il massone Settembrini, 

«lei non è dei nostri? È sano, ed è solo ospite qui, come Odisseo nel regno delle ombre? Che audacia, discendere nelle profondità dove dimorano i morti, privi di sensi, e le ombre degli uomini estinti […] Siamo esseri del profondo abisso». 

Il fatto che la montagna e il sanatorio rappresentino il regno delle ombre, un abisso, un luogo frequentato da morti, o da quei vivi che abitando totalmente la malattia si sono posti fuori dalla vita, che vuol dire fuori da un tempo ordinario, pone tutta la “scena” del romanzo in una condizione onirica. Ma forse è ancora qualcosa di diverso. Se il corpo, in quello spazio onirico, manifesta un disagio, un disagio tale da rendere impossibile un ritorno tra “quelli di laggiù”, dove la vita continua, è perché la montagna ha ordito il suo incantesimo, il suo sortilegio. La malattia di cui tutti soffrono e per la quale muoiono, è reale e irreale nello stesso tempo; o meglio: è doppiamente reale. Da una parte il corpo, manifestando il proprio disagio respiratorio – manca l’aria, si tossisce, si sputa sangue –, rende impossibile una qualsiasi fuga. Il corpo malato è una sorta di trappola. Dall’altra, in quel particolare carcere che è la montagna, il corpo concede, con il suo disfunzionamento, con la sua malattia, di entrare in un’altra forma di malattia, quella per cui gli abissi divengono una condizione assolutamente soggettiva. Pare addirittura che nessuno degli ospiti di quel sanatorio voglia veramente curarsi. Ognuno sembra fare i conti con la propria malattia, diversa e uguale per tutti. Se la malattia del corpo di cui tutti soffrono è la tubercolosi, quella specifica malattia dei polmoni e del respiro, dall’altra, quella malattia del corpo ha aperto a ciascuno una crepa dentro la propria specifica malattia. Quando Castorp è costretto a riconoscere di essere anche lui malato, che non potrà quindi lasciare il sanatorio, dichiara di essere sorpreso e nello stesso tempo di non esserlo: 

«Che io sia un po’ malato è per me una sorpresa, certo per prima cosa dovrò adattarmi a questo, a sentirmi un paziente tale e quale a voi, e non, com’è stato finora, un semplice ospite. Al tempo stesso, però, la cosa quasi non mi sorprende, perché in verità non mi sono mai sentito magnificamente bene. […] Comunque sia, sto qui sdraiato da ieri e non faccio che riflettere su come mi sono sempre sentito, su quale è stato il mio rapporto con ogni cosa, con la vita e con le sue esigenze […] Ebbene tutto questo, penso, deriva dal fatto che anch’io ho una crepa e fin dall’inizio mi sono inteso con la malattia».

Gli studi che Hans Castorp compie per occupare il tempo del riposo, quelle ore che sono necessarie in sanatorio alla cura, quelle ore che sono pure uno dei modi per scandire un tempo sospeso dalla vita, non sono studi umanistici, né tantomeno riguardano la materia di cui è esperto, l’ingegneria. Si tratta di libri di anatomia, fisiologia, biologia. Castorp vuole comprendere il funzionamento del corpo umano. Non solo. Vuole capire cosa ci si nasconde dentro, di cosa sia composto, fino a dove la scienza può giungere a conoscere la più piccola parte del nostro organismo. E da cosa, questa parte infinitesimale di noi che ci abita,  sia nata. Castorp, attraverso la malattia, attraverso lo studio del corpo, attraverso la scienza anatomica, vuole comprendere cosa sia esattamente la vita e da cosa essa nasca. E ciò che arriva a comprendere è che la stessa scienza ammette che la vita nasca da una non vita, da qualcosa che non è possibile definire scientificamente. 

«L’idea che la vita fosse nata da ciò che non ha vita, era impossibile da respingere, e lo iato che nella natura esterna si cercava invano di chiudere, quello tra vita e assenza di vita, quello iato doveva essere colmato o superato in un qualche modo all’interno, un interno organico, dalla natura. A un certo momento la divisione doveva condurre a unità composte, sì ma non ancora organizzate, che mediavano tra vita e non vita, gruppi di molecole che costituivano il passaggio tra forma di vita e semplice chimica. Giunti però alla molecola chimica, ci si trovava in prossimità di un abisso che si spalancava assai più misterioso di quello posto tra natura organica e inorganica: un abisso vicino a quello che si apre tra realtà materiale e immateriale».

La questione è qui. Quello di cui la malattia ci informa attraverso il corpo è che l’elemento vitale che ci sostiene è qualcosa che faticheremo a chiamare vita. Proprio la sua impronunciabilità rende la nostra stessa vita un enigma. Quello che Castorp comprende è che la malattia del proprio corpo gli ha concesso di scendere in un territorio in cui non è più il corpo a gestire. Ovvero, la malattia del corpo gli ha fatto toccare quell’elemento inorganico e immateriale che la scienza non saprebbe definire se non come non vita ma che pure, misteriosamente, ci determina. Castorp tocca, con l’esperienza della malattia, il segreto che tutti possediamo. Lì, nascoso dentro di noi, tra materia organica e inorganica, dove la non vita genera vita, esiste un’energia segreta che lega il corpo allo spirito, la vita alla morte. Proprio lì, in quella “crepa”, dentro quel segreto, c’è la nostra psiche. È questo il momento in cui Castorp percepisce che ogni uomo custodisce e alimenta la propria follia.  

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Mi si conceda una digressione. Da un po’ di tempo ho questa cosa in testa. Penso a come sia nato il romanzo moderno, dico alle cause che hanno fatto in modo che le forme si spezzassero, che la voce cambiasse, che la lingua seguisse l’ellissi di una immaginazione che si costruisse dall’interno e non solo, o non più dall’esterno. Le cause, quindi. Quelle conclamate, la scoperta della psicanalisi e lo scoppio della Grande guerra. Due “eventi” talmente grandi da somigliare a una rivoluzione. Naturalmente a questi andrebbe aggiunta la “questione scientifica”, la relatività, la concezione del tempo e tutto quello che ne consegue in termini filosofici. Poi, leggendo Mann, ho cominciato a pensare alla malattia, a questa specifica malattia che è stata la tubercolosi, che si è scatenata tra la fine dell’Ottocento e il principio del Novecento. Una malattia, per così dire, democratica, che ha colpito chiunque, ricchi e poveri, e anche molti artisti (Kafka, Gozzano, Scipione, tanto per citarne alcuni). Ecco, pensavo, la tubercolosi come malattia dei polmoni, come disturbo del respiro. E il respiro è la voce. Ho pensato, voglio dire, che dovrà aver significato certo qualcosa il fatto che si morisse così diffusamente per assenza di respiro, per un difetto della voce. Avrà dovuto certo significare qualcosa in termini di immaginario collettivo, tanto da trasformare una malattia del respiro in un disturbo della psiche. Qualcosa che andava curato allontanandosi dalla vita, cercando uno spazio altro, creando di conseguenza il “mito” dell’isolamento. Quanti sanatori nella storia della letteratura moderna. Spazi fuori dalla vita. Luoghi di cura che scatenano l’immaginazione. Quella specifica immaginazione che moltiplica le possibilità dell’io, trasformando l’io in una molteplicità. Luoghi di cura come spazi mentali, in cui il tempo si deforma, si relativizza. Spazi in cui si fa esperienza della morte, in cui la morte si affaccia alla vita come un soffio, un respiro, una voce appunto. E non è la Montagna magica il risultato più alto di questa concezione romanzesca? 

Thomas Mann (1875-1955)

Sappiamo che la stesura della Montagna magica fu interrotta per un certo periodo da Mann per la scrittura di una conferenza che darà vita a un saggio particolarmente significativo, quello che avrà come titolo Goethe e Tolstoj. È chiaro che Mann fosse pienamente dentro l’oggetto di indagine della Montagna anche mentre scriveva di altro, e infatti troviamo una pagina che molto dice anche del romanzo, proprio a proposito della malattia: 

«La malattia ha un doppio volto e un doppio rapporto con ciò che è umano e con la sua dignità. Da un lato essa è nemica di questa dignità in quanto accentua troppo fortemente l’elemento corporeo e, col respingere e rigettare l’uomo nei confini del corpo, lo disumana e abbassa al semplice corpo. D’altro lato tuttavia è possibile pensare e sentire la malattia come qualche cosa di altamente degno dell’uomo. Se infatti sarebbe troppo arrischiato dire che la malattia è spirito e più ancora […] che lo spirito è malattia, tuttavia questi concetti hanno molto di comune fra loro. Spirito infatti è orgoglio, un’opposizione […] alla natura, che tende a emanciparsi, sciogliersi, allontanarsi, estraniarsi da essa; spirito è ciò che contraddistingue l’uomo, questo essere che si sente in alto grado sciolto dalla natura, a lei opposto, diverso da tutti gli altri esseri organici. Il problema quindi, il problema aristocratico è di sapere se l’uomo sia tanto più altamente uomo quanto più è sciolto dalla natura, cioè quanto più è malato. Infatti, che cosa sarebbe la malattia se non separazione dalla natura?».

Si è detto di una dualità che Mann ossessivamente sottolinea per tutta la narrazione; una dualità che per Hans Castorp è prima di tutto ricerca; una dualità che nel romanzo è personificata dai due pedagoghi ospiti del sanatorio, che Castorp avvicina stringendo con loro un legame, come volesse vivere esternamente un conflitto che lo abita, come avesse bisogno della loro dialettica per risolvere una crisi a cui non sa ancora dare una lingua, una voce: il letterato compagno del progresso Settembrini, che immagina un rinascimento umanistico illuminato, razionale, e il gesuita Naphta, il quale ha in disprezzo il corpo e, si direbbe, la stessa vita sulla terra per un’idea di vita più alta, totalmente spirituale. In una delle loro infinite discussioni – discussioni insopportabilmente lunghe alle volte, su cui Mann calca pesantemente il ragionamento, mostrando un eccesso di intenzione – leggiamo delle pagine che mettono in evidenza, quasi con le stesse parole, quanto aveva pronunciato nella conferenza su Goethe e Tolstoj.

«Il signor Settembrini, disse, l’aveva completamente conquistato con quella sua plastica teoria. Perché si poteva dire quello che si voleva… e qualcosa da dire c’era, ad esempio che la malattia costituiva una condizione esistenziale di ordine superiore e dunque aveva in sé un che di solenne… ma certo è che la malattia, disse, enfatizza il corpo in modo eccessivo, per così dire rimanda e rinvia l’uomo al suo corpo in tutto e per tutto, tanto da nuocere alla sua dignità fino ad annientarla, in quanto, appunto, degrada l’uomo a semplice corpo. La malattia è perciò disumana. Naphta ribatté subito che la malattia, invece, era sommamente umana; giacché essere uomo significava essere malato. L’uomo è, in verità, essenzialmente malato, proprio la sua malattia lo rende umano, e chi lo vuole guarire, chi vuole indurlo a fare pace con la natura, a ritornare alla natura (quando, invece, mai egli è stato naturale), tutti quei fanatici della rigenerazione, quei consumatori di cibi crudi, quei naturisti, quei fanatici dei bagni di sole e così via che se ne vanno in giro come profeti, tutti quei tipi alla Rousseau ad altro non mirano che a disumanizzarlo e abbrutirlo… Umanità? Nobiltà? È lo spirito a distinguere l’uomo, questo essere in sommo grado separato dalla natura, il quale sente se stesso radicalmente antitetico a tutto il resto della vita organica. Nello spirito, nella malattia è riposta la dignità dell’essere umano, la sua nobiltà: egli è, in una parola, tanto più uomo quanto più è malato, e il genius della malattia è più umano di quello della salute. […] Il signor Settembrini ha sempre la parola “progresso” sulle labbra. Come se il progresso, ammesso che una cosa del genere esista, non dovesse la sua esistenza unicamente alla malattia e cioè: al genio… e in quanto tale altro non fosse, appunto, che malattia! Come se i sani di ogni tempo non avessero vissuto delle conquiste dalla malattia! Ci sono state persone che consapevolmente e volontariamente si sono abbandonate alla malattia e alla follia per guadagnare all’umanità conoscenze che divennero preziose per la salute dopo esser state acquisite attraverso la follia, e il cui possesso e godimento, dopo quell’eroico sacrificio, non è più stato condizionato né dalla malattia né dalla follia. È questa la vera morte sulla croce…».

Siamo nell’abisso del romanzo, nel suo conflitto. La malattia come regressione dell’umano a puro corpo o come sintomo della sua superiorità rispetto a tutti gli elementi organici? Malattia come regressione allo stato naturale o come elevazione spirituale? La malattia, in definitiva, come seduzione della morte o come sorgente di una vita più elevata, fuori dai canoni ordinari (quella vita ordinata e borghese da cui Castorp – e lo stesso Mann – proviene)? È chiaro che questo dualismo che nel romanzo si presenta in forma tanto netta, addirittura personificata nelle figure di Settembrini e Naphta, non troverà, dialetticamente, cioè filosoficamente, alcuna sintesi, alcuna soluzione condivisa. Settembrini e Naphta non discutono veramente, piuttosto monologano, esponendo la loro granitica posizione, la loro specifica filosofia. Questo li rende tanto insopportabili. Castorp è una spugna, si fa sedurre da entrambi, non ha un’idea sua propria, somiglia a una pagina bianca ancora da scrivere, è un uomo che si forma e che per formarsi ha accettato di liberarsi dalla vita ordinaria che conduceva, di scendere negli abissi della montagna, di riconoscere dentro di sé questo principio di malattia per cui ancora non è in grado di dire se si regredisca o ci si elevi. Ma finché ascolterà discutere, finché lui stesso discuterà di malattia, di natura e di spirito, di vita e di morte in termini puramente intellettuali, non sarà in grado di conoscere la realtà di quanto egli stesso sta facendo esperienza – l’istinto alla vita unito all’istinto di morte –: non entrerà mai nella verità della sua stessa follia.

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È la quinta parte del romanzo quella in cui Mann fa vivere al suo Hans Castorp un’esperienza di reale abbandono. Anche se per fargliela vivere sembra metterlo prima alla prova, quasi facendogli toccare con mano il rischio in cui incorre. È l’esperienza della morte quella che Castorp, prima di abbandonarsi alla propria follia, deve conoscere, per questo, nel paragrafo intitolato “Danza macabra”, sentirà il desiderio di accudire gli ospiti del sanatorio che non hanno più speranza di vivere. «Ti rivelerò un mio proposito», confessa Hans a suo cugino Joachim, 

«Qui viviamo porta a porta con gente che muore, con dolori e sofferenze strazianti, e non solo ci comportiamo come se la cosa non ci riguardasse affatto, ma veniamo protetti e risparmiati proprio per far sì che non entriamo in contatto con queste cose e non vediamo nulla […] Ebbene, quel che mi propongo per l’avvenire è di occuparmi un po’ di più dei malati gravi e dei moribondi che si trovano in sanatorio, mi farà bene…». 

Mann crea una sorta di ambiguità. Proprio in quello che chiama il luogo delle ombre, l’abisso, il regno dei morti, insomma la montagna e il suo sanatorio, la morte viene celata, nascosta, occultata. Non è un’ambiguità priva di senso. Se i vivi fossero consapevoli della propria morte imminente non riuscirebbero a immaginare qualcosa che li tenga in vita, o a credere che quello spazio fuori dal tempo che li ospita somigli alla vita di “quelli di laggiù”. Ma c’è altro. Vale, come nel caso degli studi scientifici che Castorp ha compiuto (e proprio nel paragrafo precedente, intitolato “Ricerche”), lo stesso principio per cui la vita nasce da una non vita, da quell’abisso che non si è in grado di riconoscere e di spiegare. 

La morte, in sanatorio, è occultata ai vivi affinché essi non vedano cosa li tiene in vita; li tiene in vita proprio perché è qualcosa di sottratto alla vista. I vivi restano in vita perché altri, nelle loro stesse condizioni, non muoiono, ma scompaiono. I morti, nel sanatorio, sono la rimozione stessa di chi ancora vive. È dentro questa rimozione che Hans ha necessità di scendere; solo vivendo l’abisso di ciò che è occultato può conoscere la vertigine che gli spalanca la doppia realtà della malattia. Non è un caso che dopo la “Danza macabra” quell’esperienza finalmente avvenga nella “Notte di Valpurga”, con riferimento a una tradizione dell’Europa del Nord nella quale si festeggiava la Santa Valpurga, protettrice delle streghe e della magia. 

Nel romanzo siamo nella sera del martedì grasso, è carnevale, e nel sanatorio si entra in un’atmosfera di festa e di magia, tanto che Mann cita dei versi del Faust di Goethe: «Ma pensate che il monte è pazzo di magia/, Oggi, e se un fuoco fatuo vi indica la via/ Non dovete aver troppe pretese». Quasi che Mann stesse avvertendo i suoi lettori di uno stravolgimento delle leggi della vita; che il contesto che sta per raccontare non può seguire le stesse regole a cui siamo abituati, e a cui sono abituati gli ospiti del sanatorio. Il primo segno di questo stravolgimento è linguistico. Tra i malati è concesso, per via di quella festa, per via della magia che stanno vivendo, di darsi del “tu” anziché del consueto “lei”, quasi che le distanze, in virtù delle maschere che tutti indossano, possano essere annullate. Annullate, s’intende, ancora con una forma di occultamento, perché a parlarsi l’un l’altro non sono gli stessi individui che ogni giorno si incontrano nella sala da pranzo o in quella da gioco, ma appunto le maschere che ognuno di loro indossa. 

È in virtù di quelle maschere che Hans riesce ad avvicinare, dopo sette mesi di desiderio muto e palpitazioni, la donna che segretamente ama, la russa Clawdia Chauchat, ospite del sanatorio già per la terza volta e in procinto di tornare alle terre basse il giorno successivo alla festa. La stessa Clawdia che annunciava la sua presenza nella sala mensa facendo sbattere la porta d’ingresso. E non si tratta di un gesto, di un segno di poco conto. Quell’incuranza era una rottura delle leggi del decoro e del buon comportamento. Se Castorp odiava sentire sbattere le porte ora è costretto ad ammettere che quel segno di rottura era una possibilità di liberazione e di abbandono; quasi che solo accettando quella “crepa” nell’ordinario fosse possibile aprirsi a una conoscenza più profonda. 

Quando la ragazza entra nella sala, in quel mondo carnevalesco capovolto, la cosa che Castorp nota sono prima di tutto le parti del corpo che il vestito lascia scoperte: 

«La completa, accentuata e abbacinante nudità delle splendide membra di quell’organismo intossicato era un evento che si dimostrava assai più potente della trasfigurazione di allora, un’apparizione alla quale non si poteva reagire altrimenti che chinando il capo e ripetendo a mezza voce: “Dio mio!”». 

È ancora il corpo a segnalare la malattia. Ma quell’«organismo intossicato» questa volta non è una regressione alla materia ma un’apparizione. Il corpo desiderato mette ora in evidenza l’abisso al quale Castorp è sottomesso. 

«Era pallido come un morto, pallido come allora, quando era giunto imbrattato di sangue alla conferenza, rientrando dalla sua solitaria passeggiata».

L’accostamento che Mann fa sullo stato di Castorp non è assolutamente casuale. Non dice soltanto che Hans è «pallido come un morto», quasi volesse farlo entrare in relazione con l’«organismo intossicato» di Clawdia, nella sua sfera abissale, nella sua psiche, ma paragona quello stato a uno vissuto qualche tempo prima, il giorno in cui, durante una passeggiata, comincia a sputare sangue. Insomma, il giorno in cui deve ammettere a se stesso di essere anche lui, come tutti, malato. Ma c’è altro. Il giorno di quella rivelazione, della rivelazione della propria malattia, entrando con quel pallore di morte nella sala conferenze, sente parlare per la prima volta il dottor Krokowski. Un’esposizione pubblica che ha come tema l’amore e la malattia. 

«I due gruppi di forze, la spinta amorosa e gli impulsi a essa ostili – tra i quali vanno citati in particolare il pudore e il disgusto – si caratterizzano per una straordinaria intensità e passionalità che sopravanza la misura borghese consueta, e la lotta tra i due gruppi, condotta negli abissi della psiche, impedisce quella recinzione, protezione e incivilimento delle pulsioni devianti che conduce all’usuale armonia e alla vita amorosa conforme alla norma. Ma questo conflitto tra le forze della castità e quelle dell’amore – di questo infatti si tratta – come si conclude? In apparenza con la vittoria della castità. Timore, senso della decenza, pudibonda ripugnanza, trepidante bisogno di purezza hanno represso l’amore, lo hanno costretto nell’ombra, gli hanno permesso tutt’al più di affiorare parzialmente alla coscienza e all’atto, ma in una misura di gran lunga inferiore alla sua forza e complessità. Se non che questa vittoria della castità è solo apparente, è una vittoria di Pirro, perché l’imperio dell’amore non si lascia né imbavagliare né strattonare, l’amore represso non è morto, invece, e tenta, anche nell’ombra e nel segreto più profondo, di appagarsi, spezza la barriera della castità e riappare, seppure in forma mutata e irriconoscibile… E sotto quale forma, sotto quale maschera ricompare l’amore represso e inammissibile? […] Sotto forma di malattia. Il sintomo della malattia è attività amorosa camuffata e la malattia non è altro che amore trasformato». 

La stessa Clawdia, ora che finalmente la malattia ha svelato il suo travestimento, ora che, proprio perché il momento di magia ha calato entrambi in una vertigine, in uno stato di sogno, la vita e la morte si toccano nell’abisso della loro psiche, può rimproverare bonariamente Castorp di amare l’ordine più della libertà. È qui che Castorp comincia a dialogare con l’amata in francese, in una lingua che non è la sua, che conosce a malapena, ma se riesce a utilizzarla è perché Mann vuole sottolineare che il contesto, quella festa in maschera, è in realtà un sogno, che lo stesso Hans riconosce di vivere, 

«Devi sapere che per me è come un sogno stare qui seduto insieme a te… come un sogno particolarmente profondo». 

Quella lingua a lui sconosciuta ma che pure lo fa esprimere liberamente è un nuovo occultamento della verità, una nuova maschera; una maschera però che ha la specifica funzione di farlo abbandonare: 

«Oh, l’amore non è niente se non è follia, se non è una cosa insensata, proibita, un’avventura del male […] Il corpo, l’amore, la morte, son tre cose che ne fanno una sola. Poiché il corpo, il corpo è malattia e voluttà, ed è lui che fa la morte, sì, sono entrambi carnali, l’amore e la morte, ed è questo il loro spavento e la loro grande magia! Ma la morte, capisci, è da un lato una faccenda malfamata e impudente che fa arrossire di vergogna; dall’altro, però, è una potenza quanto mai maestosa… assai più elevata della vita che se la ride guadagnando quattrini e riempendosi la pancia… assai più venerabile del progresso che da un tempo all’altro non fa che blaterare… perché la morte è la storia e la nobiltà e la pietà e l’eternità e il sacro che ci fa togliere il cappello e camminare in punta dei piedi… E comunque il corpo, anch’esso, e l’amore del corpo sono una cosa indecente e incresciosa, e il corpo sulla sua superficie arrossisce e impallidisce per imbarazzo e vergogna di se stesso. Ma al contempo è una gloria immensa, degna di essere adorata, immagine miracolosa della vita organica, sacra magnificenza della forma e della bellezza, e l’amore per lui, per il corpo umano, è altresì una inclinazione estremamente umanitaria e una potenza più capace di educare di tutta la pedagogia della terra!… Oh, incantevole bellezza organica che non è fatta né di pietra né di colori a olio, bensì di materia vivente e corruttibile, colma del segreto febbrile della vita e della decomposizione!».

C’è qualcosa che valga davvero di più, nella vita, dell’amare? Del perdersi, sprofondare, vivere pienamente per quel sentimento sorgivo a cui non sappiamo trovare un ordine concettuale che lo spieghi definitivamente? È come se Castorp, con la lingua sconosciuta con la quale si esprime, con una lingua impossibile perché non la conosce se non dentro lo spazio di un sogno, o di una visione, volesse abbracciare la totalità della vita, accoglierne l’estasi e la ferita, la felicità e la disperazione. 

Castorp è talmente dentro l’abisso di sé, talmente dentro la sua malattia, da non essere più nemmeno se stesso, o è totalmente se stesso proprio perché non sa chi è, quale lingua parli, come fosse nato di nuovo in un corpo suo e altro, come se l’altro corpo, la psiche di Clawdia, gli avesse dato un’altra vita, o la sola vita che valesse la pena conoscere, in cui tutto è chiaro e oscuro al contempo, tutto è vita e morte in un solo flusso, in una sola immagine. Castorp è dentro la propria psiche e dentro quella di Clawdia, dentro la sua malattia e dentro la malattia di lei. È un essere umano di carne e di spirito; un essere umano che ora conosce tutto il male e tutto il bene. E, proprio perché malato, proprio perché se stesso e altro da sé, è vivo e morto contemporaneamente.  

Non deve stupire che Castorp, innamorandosi, anzi, esprimendo il suo amore, somigli a una sorta di dio greco, un novello Dioniso. Del resto la cultura pagana della classicità, tra Otto e Novecento, e proprio nel mondo germanofono, era vissuta come un modello di interpretazione del presente. Si pensi alla filosofia del Nietzsche nella Nascita della tragedia, o agli studi di Rodhe sull’idea di aldilà nella Grecia antica, o a scrittori e poeti come Hofmannsthal e Rilke, e ancora, ovviamente, alla psicanalisi di Freud. Il punto è che gli dèi sono pur sempre archetipi con cui l’essere umano spiega o rappresenta le proprie contraddizioni, le forze contrastanti che in lui agiscono. Mann aveva interiorizzato la lezione di Nietzsche. Sapeva che nell’uomo convivono Apollineo e Dionisiaco, che nell’uomo coabitano furia e ragione, buio e luce, istinto alla vita e desiderio di morte, ed è per questo che nessuna vita è mai soddisfatta di quello che ha; in ogni vita manca sempre qualcosa – si direbbe risieda in essa un vuoto che non si colma, che non può colmarsi, e non c’è scelta, o cambiamento che possa realmente risolvere questo errore d’esistenza, questo inciampo del destino, e non c’è essere umano che non arrivi, nel mezzo della vita, a osservare quella voragine, a calarsi dentro quel buio che lo riguarda, perdendo l’orientamento e ogni punto di riferimento, perché in ognuno di noi convive una molteplicità in conflitto, un io con cui ci sembra di essere più a nostro agio – malgrado ci sfugga continuamente la ragione per cui ne proviamo anche paura, a volte orrore – e un altro che tiene in piedi l’esistenza. Certo questo conflitto ci destina a un inevitabile sentimento di solitudine. Ma è un sentimento da cui nessuno riesce mai a fuggire, che a volte crea incomprensioni, distanze, lacerazioni. 

L’amore di Castorp per Clawdia non è un amore irrisolto, nel senso che non può consumarsi, è piuttosto un amore impossibile, cioè vissuto totalmente dentro una “crepa”, dentro il buio della malattia; un amore vero proprio nella sua impossibilità, che si maschera perché la luce della conoscenza e della ragione lo annienterebbero, come nel mito di Amore e Psiche, caduti nella tragedia per violazione di un segreto, di un mistero che, svelandosi, ha perduto ogni potere numinoso, trasformando un legame sacro in un sacrilegio, perché le cose divine si rivelano restando taciute. Ma, dice il mito, è necessario perdersi, essere disposti addirittura al sacrificio di sé affinché quell’amore sia sacro; sacro proprio in virtù della sua natura di perdizione, di oscurità, di follia, di morte.

Castorp alla distanza e alla separazione è destinato, perché Clawdia si allontanerà dal sanatorio il giorno successivo a quel momento di follia divina. Ma è come se quella maschera, quella lingua sconosciuta con cui Hans ha pronunciato l’impronunciabile, gli avesse appunto dato modo di aprire una finestra sul buio che lo abita, per questa ragione è pronto, ora, e proprio in virtù dell’assenza dell’amata, a perdersi, finanche a morire. Lo testimonia quel paragrafo cruciale nel sesto capitolo intitolato “Neve”, dove Hans compie un gesto di insensatezza, ancora di follia, facendo in solitudine una gita in montagna con gli sci. Ma presto un vento contrario mozza il respiro, la nebbia cala sulla parete della montagna addensandosi tra gli alberi, non si distingue più quale sia l’alto o il basso, la destra e la sinistra, e anche il tempo pare si sia dilatato enormemente, pochi minuti sono un’eternità; sembra Hans stia percorrendo davvero il regno dei morti o uno spazio di sogno, riconosce quanto la natura sia terribile e nella sua autonomia totalmente priva di cortesia per l’essere umano. I punti di orientamento si perdono mentre una tormenta di neve lo sorprende. Si rifugia sotto la tettoia di una casa dentro cui non abita nessuno, attaccato con la schiena alle pareti esterne della baita disabitata per provare a difendersi da quella pioggia bianca che lo stordisce. L’inferno non è caldo, è invece gelido. Castorp sta per morire, forse è morto davvero, come Psiche quando scende tra i morti, quando solo nella morte trova una possibilità di mettere termine al tormento che la devasta, esclusivamente nella morte immagina di ritrovare la sola vita a cui attribuisce un senso, quella dell’amore. Castorp si addormenta – sogna. Ora è in un luogo pieno di luce, mediterraneo, tutto gli sembra meraviglioso, vede ragazzi giocare, una madre allattare suo figlio, giovani donne danzare e suonare, e percepisce di essere un estraneo in quel contesto, perché è tornato lì dove non era mai stato prima, alle origini della civiltà. Ma l’atmosfera cambia improvvisamente. Quel mondo di luce nasconde le sue brutalità. Arriva in un tempio, vi entra gonfio di spavento, e si accorge che due donne dall’aspetto di streghe stanno compiendo un sacrificio, dilaniano con le loro stesse mani il corpo di un bambino. Si sta compiendo un vero e proprio rito. E il rito non è che un modo per accedere al mistero del mondo, per evocarlo ed esserne partecipi, per rivelarlo continuando a tacerlo. 

Quando rinviene, Hans capisce che attraverso di lui l’anima del mondo sogna la sua bellezza e la sua terribile oscenità, che proprio perdendosi è entrato in contatto con lo spirito originario di tutte le cose, e che nel profondo della propria crepa il bene e il male convivono, così come la pace e il sangue, che l’istinto alla vita di ogni essere umano maschera qualcosa di delittuoso, la terribile oscenità della morte. Eppure non è alla morte che l’essere umano tende, pure partecipando, nel fondo di se stesso, alla sua oscenità. L’uomo, pensa Castorp, è alla vita che dona il suo maggiore interesse, opponendo tutto se stesso per respingere quel desiderio luttuoso che pure lo abita. Un desiderio che però deve attraversare per sentire quanto il dominio dell’amore sia quella forza capace di attraversare ogni rischio, capace di mettere in pericolo ogni sostanza vitale. È in questo paradosso la “magia” del romanzo di Mann, che scrive, ed è significativamente la sola frase interamente in corsivo di tutto il libro, «In nome della bontà e dell’amore, l’uomo non deve concedere alla morte il dominio dei suoi pensieri».  Una frase che fa eco alla domanda con cui si conclude il romanzo, 

«Forse che da questa sagra mondiale della morte, da questa voluttà smaniosa e maligna che incendia tutt’intorno il piovoso cielo della sera, potrà un giorno innalzarsi l’amore?». 

Quando Hans Castorp, dopo sette lunghi anni, lascerà il sanatorio e la montagna che lo ha accolto, che lo ha rivelato a se stesso, il mondo di “quelli di laggiù” lo travolge vestendolo da soldato, perché nel frattempo è scoppiata la grande guerra. Non sapremo, da questo momento, più nulla di Castorp, lo vedremo appena avanzare in battaglia, una granata gli esplode davanti ma non lo uccide; si rialza e continua a camminare, mentre assurdamente canta il Der Lindenbaum di Schubert. I versi citati da Mann sono questi: «Nella corteccia incidevo/ tante parole dolci […] E i suoi rami mormoravano/ come per dirmi…». Mann allude, lascia in sospeso ciò che la composizione di Schubert esprime. C’è un tiglio alla fonte dove chi scrive faceva «sogni d’oro». Quel tiglio, quella fonte, non sono che il luogo dell’origine, quello da cui la morte ci allontana. «Il vento freddo/ mi soffiava in faccia», dice la canzone, «mi volò il cappello dalla testa;/ non mi voltai./ Ora, varie ore di cammino/ mi separano; e ancora lo sento mormorare:/ là troverai la pace». 

Hans Castorp, questo «riottoso figlio della vita», come lo aveva soprannominato Settembrini, capisce, andando incontro alla malattia del mondo, alla follia degli uomini che hanno lasciato che il dominio della morte prendesse il sopravvento, che la vita è il tormento di questa distanza che ci separa dai nostri «sogni d’oro», lì dove sarebbe possibile trovare «pace», dove si nasconde il segreto di ciò che siamo, e che quello che non possiamo dire, il mistero divino che si rivela tacendo, lo possiamo però cantare.

Andrea Caterini

*L’edizione consultata per la scrittura di questo saggio è: Thomas Mann, La montagna magica, cura e introduzione di Luca Crescenzi, traduzione di Renata Colorni, Mondadori, I Meridiani, 2011.

L'articolo “Siamo esseri del profondo abisso”. Saggio sulla “Montagna magica” di Thomas Mann proviene da Pangea.