Il primo colpo di tosse sembra niente. Poi mano a mano il corpo si agita, sente
un’occlusione dei canali respiratori. Il fiato si fa corto, l’esofago si
stringe, come una mano che schiaccia la gola. Le contrazioni toraciche diventano
più insistenti, la tosse più grassa – reagisce a un’improvvisa pressione sui
polmoni. Nella bocca un sapore di ruggine, ferroso. La temperatura del corpo
sale: una costante febbre che dà spossatezza, perdita d’appetito, veloce
dimagrimento. Un bacillo potrebbe aver attaccato il sistema immunitario. Ma che
sia tubercolosi non è affatto detto. Potrebbe essere un’influenza più aggressiva
del normale, forse addirittura una polmonite. Solo che, stando alle statistiche,
quasi due miliardi di persone è contagiata dal mycobacterium tuberculosis, ma
soltanto il 5% svilupperà la malattia in maniera attiva nella propria vita. È la
prima delle scoperte a cui giunge Hans Castorp andando a trovare in sanatorio
suo cugino Joachim: la malattia non è una condizione di eccezionalità. Malati lo
siamo tutti. La differenza è il modo in cui assecondiamo e accogliamo quella
condizione; come dire, la nostra predisposizione a lasciare che la malattia
agisca sul nostro sistema vitale.
Quando, l’8 maggio del 1936, Thomas Mann viene invitato a Vienna a tenere un
discorso per l’ottantesimo compleanno del padre della psicanalisi, Sigmund
Freud, a un certo punto afferma che quando incontrò la sua opera si accorse che
due questioni significativamente lo legavano all’autore dell’Interpretazione dei
sogni: l’amore per la verità e la malattia come mezzo di
conoscenza. Tralasciando la prima questione, sulla seconda Mann sottolinea:
> «Ad ogni pagina sembra insegnarci che nessun profondo sapere è possibile senza
> quell’esperienza, premessa e condizione di ogni più alta salute. Anche questo
> senso potrebbe quindi ricondurre a Nietzsche, se non fosse piuttosto
> strettamente congiunto con l’essenza stessa dell’uomo spirituale in genere e
> del poeta in ispecie, anzi, con l’essenza stessa di tutta l’umanità, per quel
> che v’ha in essa di specificamente umano e di cui il poeta è l’espressione
> esagerata ed estrema. […] L’uomo è stato definito “animale malato” a causa
> delle tensioni e delle difficoltà, che sono il suo peso e il suo privilegio, a
> lui imposte dalla sua posizione stessa, intermedia fra natura e spirito, fra
> angelo e bestia».
Si colga, nel ragionamento, questa continua dualità che Mann estremizza. L’uomo
è un “animale malato”, e quella malattia è un “peso” e al contempo un
“privilegio”, perché la sua posizione è in continua tensione tra “natura” e
“spirito”, tra “bene” e “male”. L’uomo è malato perché è tale nella sua essenza.
Quello che si presenta come il sintomo di un improvviso disfunzionamento
dell’organismo non fa che mettere in evidenza un difetto spirituale. È
l’argomento della Montagna magica quello di comprendere quale sia il legame tra
queste due forme di instabilità, in che modo coincidano una malattia del corpo e
una della psiche, e come questa possibile coincidenza, o questo dissidio
indissolubile e inscindibile, possano aprire le porte di quel mistero insolubile
che è l’uomo in quanto tale.
*
La genesi del romanzo è piuttosto nota. Dal 15 maggio al 13 giugno del 1912,
Mann accompagna sua moglie in un sanatorio a Davos per farla curare da una
sospetta tubercolosi. In quel periodo stava terminando La morte a
Venezia. L’esperienza del sanatorio comincia a ispirarlo, ma per molto tempo
quello che ha in mente è una novella, una sorta di appendice al romanzo di
Aschenbach. Nel ’14 scoppia la guerra e l’attenzione di Mann si volge a
questioni che reputa più urgenti per il destino dell’Europa intera. Solo alla
fine del primo conflitto mondiale – che molto influì sulle pagine
della Montagna – il lavoro riprende con costanza e si complica. In una pagina di
diario del 1919 Mann scrive:
> «Penso frattanto che sia davvero questo il momento giusto per riprendere in
> mano lo Zbg [Montagna magica]. Durante la guerra sarebbe stato troppo presto,
> ho dovuto interrompere. La guerra doveva prima manifestarsi chiaramente come
> inizio della rivoluzione, il suo epilogo doveva non soltanto aver luogo ma
> anche mostrarsi come epilogo fittizio. Il conflitto tra reazione (simpatia per
> il Medioevo) e illuminismo umanistico è assolutamente storico e antecedente
> alla guerra. La sintesi sembra trovarsi nel futuro (comunista): il nuovo
> consiste sostanzialmente in una nuova concezione dell’uomo come sintesi di
> corpo e spirito (superamento del dualismo cristiano di anima e corpo, Chiesa e
> Stato, morte e vita), una concezione sorta anch’essa, del resto, prima della
> guerra. Si tratta della prospettiva riguardante il rinnovamento in chiave
> umanistica del regno di Dio cristiano, cioè di un regno di Dio in qualche modo
> umanamente compiuto e trascendente e, dunque, spirituale e corporeo: tanto
> Burge [il nome definitivo sarà Naptha nel romanzo], quanto Settembrini, con le
> loro tendenze, hanno allo stesso tempo ragione e torto. Il fatto che Hans
> Castorp venga dimesso per la guerra significa che è dimesso per partecipare
> all’inizio delle lotte per il nuovo, dopo che ha assaggiato pedagogicamente le
> sue componenti, quella cristiana e quella pagana».
*
Andiamo per gradi. Per Hans Castorp, un giovane studente di ingegneria navale,
orfano di madre e di padre, rimasto sotto la tutela dello zio, quella montagna
che raggiunge per andare a far visita al cugino Joachim, ospite del sanatorio da
qualche tempo, è un mistero. Un mistero che egli pensa di risolvere in sole tre
settimane. Eppure, fin dal suo arrivo, fin dalla prima sera, percepisce che il
suo corpo sta reagendo a qualcosa, il volto gli va in fiamme, come se fosse
stato sorpreso da un’improvvisa febbre. Una condizione che non lo mollerà per
giorni, nonostante la strafottenza di negare qualsivoglia disturbo, quasi
sentisse di vivere una doppia vita, una organica, che gli pare addirittura
autonoma, l’altra di emozioni.
> «La cura del riposo mi sta bene, la faccio volentieri come tutti, ma misurarsi
> la febbre sarebbe un po’ troppo per un ospite in visita, lo lascio volentieri
> a voi di quassù. Se solo sapessi […] perché mai ho queste continue
> palpitazioni…. È un fatto inquietante, ci sto pensando da un bel po’. Le
> palpitazioni vengono di solito quando siamo in attesa di una particolare gioia
> o quando siamo in apprensione, insomma, quando sono in gioco le emozioni, non
> ti pare? Ma se il cuore ti comincia a battere da solo, senza motivo e senza
> scopo, per conto suo, diciamo, trovo che sia una cosa perturbante, comprendimi
> bene, è come se il corpo se ne andasse per la sua strada e non avesse più
> alcun rapporto con l’anima o fosse, per così dire, morto pur non essendo
> veramente morto… […] è, piuttosto, come se il corpo conducesse una vita molto
> intensa, ma totalmente autonoma».
«Come se il corpo», dichiara Castorp, «non avesse più alcun rapporto con
l’anima». Questo scollamento è il principio di un dualismo su cui Mann ragiona
per tutto il corso del romanzo. È un dualismo stratificato, risultato di una
condizione che prevede un processo conoscitivo. Un dualismo da cui Castorp
sembra ossessionato, che sente di dover continuamente ricercare, scardinare,
addirittura farsene sedurre. Il primo segno viene appunto dal corpo, da uno
stato percepito fisicamente ma non ancora psichicamente. Quasi che il corpo
vivesse una vita sua propria, quasi che la psiche percepisse un attimo dopo
quello che il corpo suggerisce.
Ora però ci sarebbe da capire se la malattia che il corpo suggerisce era
qualcosa che preesisteva o è stata la montagna a scatenarla. O ancora, la
malattia del corpo la montagna l’ha provocata o l’ha soltanto manifestata? La
questione non è faccenda intellettualistica. Hans parte con un falso scopo, o
con un pretesto, una visita di piacere a suo cugino. Non nutre coscientemente
alcun bisogno di cura. Il suo problema, un problema che presto emergerà, è
l’assenza stessa di uno scopo, di una ragione di vita. L’allontanamento da
Amburgo, o dalle zone basse, verso “quelli di lassù”, verso la montagna, non è
che un tentativo incosciente di allontanarsi da un problema esistenziale. Il
primo segno che quello spostamento – quella ricerca – gli concede, è appunto il
manifestarsi di un disagio fisico. Il corpo per primo, voglio dire, segnala un
disagio di cui non si conosce la natura, o la causa.
A sottolineare fin da subito la questione della malattia come qualcosa di fisico
e psichico nello stesso tempo è nel romanzo il dottor Krokowski quando incontra
per la prima volta il nuovo arrivato Castorp, il quale però dichiara di essere
perfettamente sano.
> «Sul serio? Ma allora lei è un fenomeno più che degno di essere studiato!
> Perché una persona perfettamente sana io, finora, non l’ho mai incontrata. […]
> Dunque non intende approfittare qui di nessun trattamento medico, né fisico né
> psichico?».
Del resto è il dottor Krokowski che mensilmente tiene nel sanatorio delle
conferenze di carattere psicanalitico, una sorta di Freud sceso nel regno dei
morti a mostrare l’abisso in cui tutti gli ospiti del sanatorio si trovano, non
solo per lo spazio che abitano – uno spazio definito spesso nel romanzo fuori
dalla vita –, ma per come la malattia li abbia messi in relazione con quella
parte dello spirito che è la zona d’ombra di ognuno, quella da cui scaturiscono
tutti i dolori di cui si sente il peso ma di cui non si individua l’origine. Di
discesa nel regno dei morti parla anche uno dei personaggi principali del
romanzo, il letterato italiano allievo di Carducci, l’illuminista, il massone
Settembrini,
> «lei non è dei nostri? È sano, ed è solo ospite qui, come Odisseo nel regno
> delle ombre? Che audacia, discendere nelle profondità dove dimorano i morti,
> privi di sensi, e le ombre degli uomini estinti […] Siamo esseri del profondo
> abisso».
Il fatto che la montagna e il sanatorio rappresentino il regno delle ombre, un
abisso, un luogo frequentato da morti, o da quei vivi che abitando totalmente la
malattia si sono posti fuori dalla vita, che vuol dire fuori da un tempo
ordinario, pone tutta la “scena” del romanzo in una condizione onirica. Ma forse
è ancora qualcosa di diverso. Se il corpo, in quello spazio onirico, manifesta
un disagio, un disagio tale da rendere impossibile un ritorno tra “quelli di
laggiù”, dove la vita continua, è perché la montagna ha ordito il suo
incantesimo, il suo sortilegio. La malattia di cui tutti soffrono e per la quale
muoiono, è reale e irreale nello stesso tempo; o meglio: è doppiamente reale. Da
una parte il corpo, manifestando il proprio disagio respiratorio – manca l’aria,
si tossisce, si sputa sangue –, rende impossibile una qualsiasi fuga. Il corpo
malato è una sorta di trappola. Dall’altra, in quel particolare carcere che è la
montagna, il corpo concede, con il suo disfunzionamento, con la sua malattia, di
entrare in un’altra forma di malattia, quella per cui gli abissi divengono una
condizione assolutamente soggettiva. Pare addirittura che nessuno degli ospiti
di quel sanatorio voglia veramente curarsi. Ognuno sembra fare i conti con la
propria malattia, diversa e uguale per tutti. Se la malattia del corpo di cui
tutti soffrono è la tubercolosi, quella specifica malattia dei polmoni e del
respiro, dall’altra, quella malattia del corpo ha aperto a ciascuno una crepa
dentro la propria specifica malattia. Quando Castorp è costretto a riconoscere
di essere anche lui malato, che non potrà quindi lasciare il sanatorio, dichiara
di essere sorpreso e nello stesso tempo di non esserlo:
> «Che io sia un po’ malato è per me una sorpresa, certo per prima cosa dovrò
> adattarmi a questo, a sentirmi un paziente tale e quale a voi, e non, com’è
> stato finora, un semplice ospite. Al tempo stesso, però, la cosa quasi non mi
> sorprende, perché in verità non mi sono mai sentito magnificamente bene. […]
> Comunque sia, sto qui sdraiato da ieri e non faccio che riflettere su come mi
> sono sempre sentito, su quale è stato il mio rapporto con ogni cosa, con la
> vita e con le sue esigenze […] Ebbene tutto questo, penso, deriva dal fatto
> che anch’io ho una crepa e fin dall’inizio mi sono inteso con la malattia».
Gli studi che Hans Castorp compie per occupare il tempo del riposo, quelle ore
che sono necessarie in sanatorio alla cura, quelle ore che sono pure uno dei
modi per scandire un tempo sospeso dalla vita, non sono studi umanistici, né
tantomeno riguardano la materia di cui è esperto, l’ingegneria. Si tratta di
libri di anatomia, fisiologia, biologia. Castorp vuole comprendere il
funzionamento del corpo umano. Non solo. Vuole capire cosa ci si nasconde
dentro, di cosa sia composto, fino a dove la scienza può giungere a conoscere la
più piccola parte del nostro organismo. E da cosa, questa parte infinitesimale
di noi che ci abita, sia nata. Castorp, attraverso la malattia, attraverso lo
studio del corpo, attraverso la scienza anatomica, vuole comprendere cosa sia
esattamente la vita e da cosa essa nasca. E ciò che arriva a comprendere è che
la stessa scienza ammette che la vita nasca da una non vita, da qualcosa che non
è possibile definire scientificamente.
> «L’idea che la vita fosse nata da ciò che non ha vita, era impossibile da
> respingere, e lo iato che nella natura esterna si cercava invano di chiudere,
> quello tra vita e assenza di vita, quello iato doveva essere colmato o
> superato in un qualche modo all’interno, un interno organico, dalla natura. A
> un certo momento la divisione doveva condurre a unità composte, sì ma non
> ancora organizzate, che mediavano tra vita e non vita, gruppi di molecole che
> costituivano il passaggio tra forma di vita e semplice chimica. Giunti però
> alla molecola chimica, ci si trovava in prossimità di un abisso che si
> spalancava assai più misterioso di quello posto tra natura organica e
> inorganica: un abisso vicino a quello che si apre tra realtà materiale e
> immateriale».
La questione è qui. Quello di cui la malattia ci informa attraverso il corpo è
che l’elemento vitale che ci sostiene è qualcosa che faticheremo a chiamare
vita. Proprio la sua impronunciabilità rende la nostra stessa vita un enigma.
Quello che Castorp comprende è che la malattia del proprio corpo gli ha concesso
di scendere in un territorio in cui non è più il corpo a gestire. Ovvero, la
malattia del corpo gli ha fatto toccare quell’elemento inorganico e immateriale
che la scienza non saprebbe definire se non come non vita ma che pure,
misteriosamente, ci determina. Castorp tocca, con l’esperienza della malattia,
il segreto che tutti possediamo. Lì, nascoso dentro di noi, tra materia organica
e inorganica, dove la non vita genera vita, esiste un’energia segreta che lega
il corpo allo spirito, la vita alla morte. Proprio lì, in quella “crepa”, dentro
quel segreto, c’è la nostra psiche. È questo il momento in cui Castorp
percepisce che ogni uomo custodisce e alimenta la propria follia.
*
Mi si conceda una digressione. Da un po’ di tempo ho questa cosa in testa.
Penso a come sia nato il romanzo moderno, dico alle cause che hanno fatto in
modo che le forme si spezzassero, che la voce cambiasse, che la lingua seguisse
l’ellissi di una immaginazione che si costruisse dall’interno e non solo, o non
più dall’esterno. Le cause, quindi. Quelle conclamate, la scoperta della
psicanalisi e lo scoppio della Grande guerra. Due “eventi” talmente grandi da
somigliare a una rivoluzione. Naturalmente a questi andrebbe aggiunta la
“questione scientifica”, la relatività, la concezione del tempo e tutto quello
che ne consegue in termini filosofici. Poi, leggendo Mann, ho cominciato a
pensare alla malattia, a questa specifica malattia che è stata la tubercolosi,
che si è scatenata tra la fine dell’Ottocento e il principio del Novecento. Una
malattia, per così dire, democratica, che ha colpito chiunque, ricchi e poveri,
e anche molti artisti (Kafka, Gozzano, Scipione, tanto per citarne alcuni).
Ecco, pensavo, la tubercolosi come malattia dei polmoni, come disturbo del
respiro. E il respiro è la voce. Ho pensato, voglio dire, che dovrà aver
significato certo qualcosa il fatto che si morisse così diffusamente per assenza
di respiro, per un difetto della voce. Avrà dovuto certo significare qualcosa in
termini di immaginario collettivo, tanto da trasformare una malattia del respiro
in un disturbo della psiche. Qualcosa che andava curato allontanandosi dalla
vita, cercando uno spazio altro, creando di conseguenza il “mito”
dell’isolamento. Quanti sanatori nella storia della letteratura moderna. Spazi
fuori dalla vita. Luoghi di cura che scatenano l’immaginazione. Quella specifica
immaginazione che moltiplica le possibilità dell’io, trasformando l’io in una
molteplicità. Luoghi di cura come spazi mentali, in cui il tempo si deforma, si
relativizza. Spazi in cui si fa esperienza della morte, in cui la morte si
affaccia alla vita come un soffio, un respiro, una voce appunto. E non è
la Montagna magica il risultato più alto di questa concezione romanzesca?
Thomas Mann (1875-1955)
*
Sappiamo che la stesura della Montagna magica fu interrotta per un certo periodo
da Mann per la scrittura di una conferenza che darà vita a un saggio
particolarmente significativo, quello che avrà come titolo Goethe e Tolstoj. È
chiaro che Mann fosse pienamente dentro l’oggetto di indagine
della Montagna anche mentre scriveva di altro, e infatti troviamo una pagina che
molto dice anche del romanzo, proprio a proposito della malattia:
> «La malattia ha un doppio volto e un doppio rapporto con ciò che è umano e con
> la sua dignità. Da un lato essa è nemica di questa dignità in quanto accentua
> troppo fortemente l’elemento corporeo e, col respingere e rigettare l’uomo nei
> confini del corpo, lo disumana e abbassa al semplice corpo. D’altro lato
> tuttavia è possibile pensare e sentire la malattia come qualche cosa di
> altamente degno dell’uomo. Se infatti sarebbe troppo arrischiato dire che la
> malattia è spirito e più ancora […] che lo spirito è malattia, tuttavia questi
> concetti hanno molto di comune fra loro. Spirito infatti è orgoglio,
> un’opposizione […] alla natura, che tende a emanciparsi, sciogliersi,
> allontanarsi, estraniarsi da essa; spirito è ciò che contraddistingue l’uomo,
> questo essere che si sente in alto grado sciolto dalla natura, a lei opposto,
> diverso da tutti gli altri esseri organici. Il problema quindi, il problema
> aristocratico è di sapere se l’uomo sia tanto più altamente uomo quanto più è
> sciolto dalla natura, cioè quanto più è malato. Infatti, che cosa sarebbe la
> malattia se non separazione dalla natura?».
Si è detto di una dualità che Mann ossessivamente sottolinea per tutta la
narrazione; una dualità che per Hans Castorp è prima di tutto ricerca; una
dualità che nel romanzo è personificata dai due pedagoghi ospiti del sanatorio,
che Castorp avvicina stringendo con loro un legame, come volesse vivere
esternamente un conflitto che lo abita, come avesse bisogno della loro
dialettica per risolvere una crisi a cui non sa ancora dare una lingua, una
voce: il letterato compagno del progresso Settembrini, che immagina un
rinascimento umanistico illuminato, razionale, e il gesuita Naphta, il quale ha
in disprezzo il corpo e, si direbbe, la stessa vita sulla terra per un’idea di
vita più alta, totalmente spirituale. In una delle loro infinite discussioni –
discussioni insopportabilmente lunghe alle volte, su cui Mann calca pesantemente
il ragionamento, mostrando un eccesso di intenzione – leggiamo delle pagine che
mettono in evidenza, quasi con le stesse parole, quanto aveva pronunciato nella
conferenza su Goethe e Tolstoj.
> «Il signor Settembrini, disse, l’aveva completamente conquistato con quella
> sua plastica teoria. Perché si poteva dire quello che si voleva… e qualcosa da
> dire c’era, ad esempio che la malattia costituiva una condizione esistenziale
> di ordine superiore e dunque aveva in sé un che di solenne… ma certo è che la
> malattia, disse, enfatizza il corpo in modo eccessivo, per così dire rimanda e
> rinvia l’uomo al suo corpo in tutto e per tutto, tanto da nuocere alla sua
> dignità fino ad annientarla, in quanto, appunto, degrada l’uomo a semplice
> corpo. La malattia è perciò disumana. Naphta ribatté subito che la malattia,
> invece, era sommamente umana; giacché essere uomo significava essere malato.
> L’uomo è, in verità, essenzialmente malato, proprio la sua malattia lo rende
> umano, e chi lo vuole guarire, chi vuole indurlo a fare pace con la natura, a
> ritornare alla natura (quando, invece, mai egli è stato naturale), tutti quei
> fanatici della rigenerazione, quei consumatori di cibi crudi, quei naturisti,
> quei fanatici dei bagni di sole e così via che se ne vanno in giro come
> profeti, tutti quei tipi alla Rousseau ad altro non mirano che a
> disumanizzarlo e abbrutirlo… Umanità? Nobiltà? È lo spirito a distinguere
> l’uomo, questo essere in sommo grado separato dalla natura, il quale sente se
> stesso radicalmente antitetico a tutto il resto della vita organica. Nello
> spirito, nella malattia è riposta la dignità dell’essere umano, la sua
> nobiltà: egli è, in una parola, tanto più uomo quanto più è malato, e il
> genius della malattia è più umano di quello della salute. […] Il signor
> Settembrini ha sempre la parola “progresso” sulle labbra. Come se il
> progresso, ammesso che una cosa del genere esista, non dovesse la sua
> esistenza unicamente alla malattia e cioè: al genio… e in quanto tale altro
> non fosse, appunto, che malattia! Come se i sani di ogni tempo non avessero
> vissuto delle conquiste dalla malattia! Ci sono state persone che
> consapevolmente e volontariamente si sono abbandonate alla malattia e alla
> follia per guadagnare all’umanità conoscenze che divennero preziose per la
> salute dopo esser state acquisite attraverso la follia, e il cui possesso e
> godimento, dopo quell’eroico sacrificio, non è più stato condizionato né dalla
> malattia né dalla follia. È questa la vera morte sulla croce…».
Siamo nell’abisso del romanzo, nel suo conflitto. La malattia come regressione
dell’umano a puro corpo o come sintomo della sua superiorità rispetto a tutti
gli elementi organici? Malattia come regressione allo stato naturale o come
elevazione spirituale? La malattia, in definitiva, come seduzione della morte o
come sorgente di una vita più elevata, fuori dai canoni ordinari (quella vita
ordinata e borghese da cui Castorp – e lo stesso Mann – proviene)? È chiaro che
questo dualismo che nel romanzo si presenta in forma tanto netta, addirittura
personificata nelle figure di Settembrini e Naphta, non troverà,
dialetticamente, cioè filosoficamente, alcuna sintesi, alcuna soluzione
condivisa. Settembrini e Naphta non discutono veramente, piuttosto monologano,
esponendo la loro granitica posizione, la loro specifica filosofia. Questo li
rende tanto insopportabili. Castorp è una spugna, si fa sedurre da entrambi, non
ha un’idea sua propria, somiglia a una pagina bianca ancora da scrivere, è un
uomo che si forma e che per formarsi ha accettato di liberarsi dalla vita
ordinaria che conduceva, di scendere negli abissi della montagna, di riconoscere
dentro di sé questo principio di malattia per cui ancora non è in grado di dire
se si regredisca o ci si elevi. Ma finché ascolterà discutere, finché lui stesso
discuterà di malattia, di natura e di spirito, di vita e di morte in termini
puramente intellettuali, non sarà in grado di conoscere la realtà di quanto egli
stesso sta facendo esperienza – l’istinto alla vita unito all’istinto di morte
–: non entrerà mai nella verità della sua stessa follia.
*
È la quinta parte del romanzo quella in cui Mann fa vivere al suo Hans Castorp
un’esperienza di reale abbandono. Anche se per fargliela vivere sembra metterlo
prima alla prova, quasi facendogli toccare con mano il rischio in cui incorre. È
l’esperienza della morte quella che Castorp, prima di abbandonarsi alla propria
follia, deve conoscere, per questo, nel paragrafo intitolato “Danza macabra”,
sentirà il desiderio di accudire gli ospiti del sanatorio che non hanno più
speranza di vivere. «Ti rivelerò un mio proposito», confessa Hans a suo cugino
Joachim,
> «Qui viviamo porta a porta con gente che muore, con dolori e sofferenze
> strazianti, e non solo ci comportiamo come se la cosa non ci riguardasse
> affatto, ma veniamo protetti e risparmiati proprio per far sì che non entriamo
> in contatto con queste cose e non vediamo nulla […] Ebbene, quel che mi
> propongo per l’avvenire è di occuparmi un po’ di più dei malati gravi e dei
> moribondi che si trovano in sanatorio, mi farà bene…».
Mann crea una sorta di ambiguità. Proprio in quello che chiama il luogo delle
ombre, l’abisso, il regno dei morti, insomma la montagna e il suo sanatorio, la
morte viene celata, nascosta, occultata. Non è un’ambiguità priva di senso. Se i
vivi fossero consapevoli della propria morte imminente non riuscirebbero a
immaginare qualcosa che li tenga in vita, o a credere che quello spazio fuori
dal tempo che li ospita somigli alla vita di “quelli di laggiù”. Ma c’è altro.
Vale, come nel caso degli studi scientifici che Castorp ha compiuto (e proprio
nel paragrafo precedente, intitolato “Ricerche”), lo stesso principio per cui la
vita nasce da una non vita, da quell’abisso che non si è in grado di riconoscere
e di spiegare.
La morte, in sanatorio, è occultata ai vivi affinché essi non vedano cosa li
tiene in vita; li tiene in vita proprio perché è qualcosa di sottratto alla
vista. I vivi restano in vita perché altri, nelle loro stesse condizioni, non
muoiono, ma scompaiono. I morti, nel sanatorio, sono la rimozione stessa di chi
ancora vive. È dentro questa rimozione che Hans ha necessità di scendere; solo
vivendo l’abisso di ciò che è occultato può conoscere la vertigine che gli
spalanca la doppia realtà della malattia. Non è un caso che dopo la “Danza
macabra” quell’esperienza finalmente avvenga nella “Notte di Valpurga”, con
riferimento a una tradizione dell’Europa del Nord nella quale si festeggiava la
Santa Valpurga, protettrice delle streghe e della magia.
Nel romanzo siamo nella sera del martedì grasso, è carnevale, e nel sanatorio si
entra in un’atmosfera di festa e di magia, tanto che Mann cita dei versi
del Faust di Goethe: «Ma pensate che il monte è pazzo di magia/, Oggi, e se un
fuoco fatuo vi indica la via/ Non dovete aver troppe pretese». Quasi che Mann
stesse avvertendo i suoi lettori di uno stravolgimento delle leggi della vita;
che il contesto che sta per raccontare non può seguire le stesse regole a cui
siamo abituati, e a cui sono abituati gli ospiti del sanatorio. Il primo segno
di questo stravolgimento è linguistico. Tra i malati è concesso, per via di
quella festa, per via della magia che stanno vivendo, di darsi del “tu” anziché
del consueto “lei”, quasi che le distanze, in virtù delle maschere che tutti
indossano, possano essere annullate. Annullate, s’intende, ancora con una forma
di occultamento, perché a parlarsi l’un l’altro non sono gli stessi individui
che ogni giorno si incontrano nella sala da pranzo o in quella da gioco, ma
appunto le maschere che ognuno di loro indossa.
È in virtù di quelle maschere che Hans riesce ad avvicinare, dopo sette mesi di
desiderio muto e palpitazioni, la donna che segretamente ama, la russa Clawdia
Chauchat, ospite del sanatorio già per la terza volta e in procinto di tornare
alle terre basse il giorno successivo alla festa. La stessa Clawdia che
annunciava la sua presenza nella sala mensa facendo sbattere la porta
d’ingresso. E non si tratta di un gesto, di un segno di poco conto.
Quell’incuranza era una rottura delle leggi del decoro e del buon comportamento.
Se Castorp odiava sentire sbattere le porte ora è costretto ad ammettere che
quel segno di rottura era una possibilità di liberazione e di abbandono; quasi
che solo accettando quella “crepa” nell’ordinario fosse possibile aprirsi a una
conoscenza più profonda.
Quando la ragazza entra nella sala, in quel mondo carnevalesco capovolto, la
cosa che Castorp nota sono prima di tutto le parti del corpo che il vestito
lascia scoperte:
> «La completa, accentuata e abbacinante nudità delle splendide membra di
> quell’organismo intossicato era un evento che si dimostrava assai più potente
> della trasfigurazione di allora, un’apparizione alla quale non si poteva
> reagire altrimenti che chinando il capo e ripetendo a mezza voce: “Dio
> mio!”».
È ancora il corpo a segnalare la malattia. Ma quell’«organismo intossicato»
questa volta non è una regressione alla materia ma un’apparizione. Il corpo
desiderato mette ora in evidenza l’abisso al quale Castorp è sottomesso.
> «Era pallido come un morto, pallido come allora, quando era giunto imbrattato
> di sangue alla conferenza, rientrando dalla sua solitaria passeggiata».
L’accostamento che Mann fa sullo stato di Castorp non è assolutamente casuale.
Non dice soltanto che Hans è «pallido come un morto», quasi volesse farlo
entrare in relazione con l’«organismo intossicato» di Clawdia, nella sua sfera
abissale, nella sua psiche, ma paragona quello stato a uno vissuto qualche tempo
prima, il giorno in cui, durante una passeggiata, comincia a sputare sangue.
Insomma, il giorno in cui deve ammettere a se stesso di essere anche lui, come
tutti, malato. Ma c’è altro. Il giorno di quella rivelazione, della rivelazione
della propria malattia, entrando con quel pallore di morte nella sala
conferenze, sente parlare per la prima volta il dottor Krokowski. Un’esposizione
pubblica che ha come tema l’amore e la malattia.
> «I due gruppi di forze, la spinta amorosa e gli impulsi a essa ostili – tra i
> quali vanno citati in particolare il pudore e il disgusto – si caratterizzano
> per una straordinaria intensità e passionalità che sopravanza la misura
> borghese consueta, e la lotta tra i due gruppi, condotta negli abissi della
> psiche, impedisce quella recinzione, protezione e incivilimento delle pulsioni
> devianti che conduce all’usuale armonia e alla vita amorosa conforme alla
> norma. Ma questo conflitto tra le forze della castità e quelle dell’amore – di
> questo infatti si tratta – come si conclude? In apparenza con la vittoria
> della castità. Timore, senso della decenza, pudibonda ripugnanza, trepidante
> bisogno di purezza hanno represso l’amore, lo hanno costretto nell’ombra, gli
> hanno permesso tutt’al più di affiorare parzialmente alla coscienza e
> all’atto, ma in una misura di gran lunga inferiore alla sua forza e
> complessità. Se non che questa vittoria della castità è solo apparente, è una
> vittoria di Pirro, perché l’imperio dell’amore non si lascia né imbavagliare
> né strattonare, l’amore represso non è morto, invece, e tenta, anche
> nell’ombra e nel segreto più profondo, di appagarsi, spezza la barriera della
> castità e riappare, seppure in forma mutata e irriconoscibile… E sotto quale
> forma, sotto quale maschera ricompare l’amore represso e inammissibile? […]
> Sotto forma di malattia. Il sintomo della malattia è attività amorosa
> camuffata e la malattia non è altro che amore trasformato».
La stessa Clawdia, ora che finalmente la malattia ha svelato il suo
travestimento, ora che, proprio perché il momento di magia ha calato entrambi in
una vertigine, in uno stato di sogno, la vita e la morte si toccano nell’abisso
della loro psiche, può rimproverare bonariamente Castorp di amare l’ordine più
della libertà. È qui che Castorp comincia a dialogare con l’amata in francese,
in una lingua che non è la sua, che conosce a malapena, ma se riesce a
utilizzarla è perché Mann vuole sottolineare che il contesto, quella festa in
maschera, è in realtà un sogno, che lo stesso Hans riconosce di vivere,
> «Devi sapere che per me è come un sogno stare qui seduto insieme a te… come un
> sogno particolarmente profondo».
Quella lingua a lui sconosciuta ma che pure lo fa esprimere liberamente è un
nuovo occultamento della verità, una nuova maschera; una maschera però che ha la
specifica funzione di farlo abbandonare:
> «Oh, l’amore non è niente se non è follia, se non è una cosa insensata,
> proibita, un’avventura del male […] Il corpo, l’amore, la morte, son tre cose
> che ne fanno una sola. Poiché il corpo, il corpo è malattia e voluttà, ed è
> lui che fa la morte, sì, sono entrambi carnali, l’amore e la morte, ed è
> questo il loro spavento e la loro grande magia! Ma la morte, capisci, è da un
> lato una faccenda malfamata e impudente che fa arrossire di vergogna;
> dall’altro, però, è una potenza quanto mai maestosa… assai più elevata della
> vita che se la ride guadagnando quattrini e riempendosi la pancia… assai più
> venerabile del progresso che da un tempo all’altro non fa che blaterare…
> perché la morte è la storia e la nobiltà e la pietà e l’eternità e il sacro
> che ci fa togliere il cappello e camminare in punta dei piedi… E comunque il
> corpo, anch’esso, e l’amore del corpo sono una cosa indecente e incresciosa, e
> il corpo sulla sua superficie arrossisce e impallidisce per imbarazzo e
> vergogna di se stesso. Ma al contempo è una gloria immensa, degna di essere
> adorata, immagine miracolosa della vita organica, sacra magnificenza della
> forma e della bellezza, e l’amore per lui, per il corpo umano, è altresì una
> inclinazione estremamente umanitaria e una potenza più capace di educare di
> tutta la pedagogia della terra!… Oh, incantevole bellezza organica che non è
> fatta né di pietra né di colori a olio, bensì di materia vivente e
> corruttibile, colma del segreto febbrile della vita e della decomposizione!».
C’è qualcosa che valga davvero di più, nella vita, dell’amare? Del perdersi,
sprofondare, vivere pienamente per quel sentimento sorgivo a cui non sappiamo
trovare un ordine concettuale che lo spieghi definitivamente? È come se Castorp,
con la lingua sconosciuta con la quale si esprime, con una lingua impossibile
perché non la conosce se non dentro lo spazio di un sogno, o di una visione,
volesse abbracciare la totalità della vita, accoglierne l’estasi e la ferita, la
felicità e la disperazione.
Castorp è talmente dentro l’abisso di sé, talmente dentro la sua malattia, da
non essere più nemmeno se stesso, o è totalmente se stesso proprio perché non sa
chi è, quale lingua parli, come fosse nato di nuovo in un corpo suo e altro,
come se l’altro corpo, la psiche di Clawdia, gli avesse dato un’altra vita, o la
sola vita che valesse la pena conoscere, in cui tutto è chiaro e oscuro al
contempo, tutto è vita e morte in un solo flusso, in una sola immagine. Castorp
è dentro la propria psiche e dentro quella di Clawdia, dentro la sua malattia e
dentro la malattia di lei. È un essere umano di carne e di spirito; un essere
umano che ora conosce tutto il male e tutto il bene. E, proprio perché malato,
proprio perché se stesso e altro da sé, è vivo e morto contemporaneamente.
Non deve stupire che Castorp, innamorandosi, anzi, esprimendo il suo amore,
somigli a una sorta di dio greco, un novello Dioniso. Del resto la cultura
pagana della classicità, tra Otto e Novecento, e proprio nel mondo germanofono,
era vissuta come un modello di interpretazione del presente. Si pensi alla
filosofia del Nietzsche nella Nascita della tragedia, o agli studi di Rodhe
sull’idea di aldilà nella Grecia antica, o a scrittori e poeti come Hofmannsthal
e Rilke, e ancora, ovviamente, alla psicanalisi di Freud. Il punto è che gli dèi
sono pur sempre archetipi con cui l’essere umano spiega o rappresenta le proprie
contraddizioni, le forze contrastanti che in lui agiscono. Mann aveva
interiorizzato la lezione di Nietzsche. Sapeva che nell’uomo convivono Apollineo
e Dionisiaco, che nell’uomo coabitano furia e ragione, buio e luce, istinto alla
vita e desiderio di morte, ed è per questo che nessuna vita è mai soddisfatta di
quello che ha; in ogni vita manca sempre qualcosa – si direbbe risieda in essa
un vuoto che non si colma, che non può colmarsi, e non c’è scelta, o cambiamento
che possa realmente risolvere questo errore d’esistenza, questo inciampo del
destino, e non c’è essere umano che non arrivi, nel mezzo della vita, a
osservare quella voragine, a calarsi dentro quel buio che lo riguarda, perdendo
l’orientamento e ogni punto di riferimento, perché in ognuno di noi convive una
molteplicità in conflitto, un io con cui ci sembra di essere più a nostro agio –
malgrado ci sfugga continuamente la ragione per cui ne proviamo anche paura, a
volte orrore – e un altro che tiene in piedi l’esistenza. Certo questo conflitto
ci destina a un inevitabile sentimento di solitudine. Ma è un sentimento da cui
nessuno riesce mai a fuggire, che a volte crea incomprensioni, distanze,
lacerazioni.
L’amore di Castorp per Clawdia non è un amore irrisolto, nel senso che non può
consumarsi, è piuttosto un amore impossibile, cioè vissuto totalmente dentro una
“crepa”, dentro il buio della malattia; un amore vero proprio nella sua
impossibilità, che si maschera perché la luce della conoscenza e della ragione
lo annienterebbero, come nel mito di Amore e Psiche, caduti nella tragedia per
violazione di un segreto, di un mistero che, svelandosi, ha perduto ogni potere
numinoso, trasformando un legame sacro in un sacrilegio, perché le cose divine
si rivelano restando taciute. Ma, dice il mito, è necessario perdersi, essere
disposti addirittura al sacrificio di sé affinché quell’amore sia sacro; sacro
proprio in virtù della sua natura di perdizione, di oscurità, di follia, di
morte.
Castorp alla distanza e alla separazione è destinato, perché Clawdia si
allontanerà dal sanatorio il giorno successivo a quel momento di follia divina.
Ma è come se quella maschera, quella lingua sconosciuta con cui Hans ha
pronunciato l’impronunciabile, gli avesse appunto dato modo di aprire una
finestra sul buio che lo abita, per questa ragione è pronto, ora, e proprio in
virtù dell’assenza dell’amata, a perdersi, finanche a morire. Lo testimonia quel
paragrafo cruciale nel sesto capitolo intitolato “Neve”, dove Hans compie un
gesto di insensatezza, ancora di follia, facendo in solitudine una gita in
montagna con gli sci. Ma presto un vento contrario mozza il respiro, la nebbia
cala sulla parete della montagna addensandosi tra gli alberi, non si distingue
più quale sia l’alto o il basso, la destra e la sinistra, e anche il tempo pare
si sia dilatato enormemente, pochi minuti sono un’eternità; sembra Hans stia
percorrendo davvero il regno dei morti o uno spazio di sogno, riconosce quanto
la natura sia terribile e nella sua autonomia totalmente priva di cortesia per
l’essere umano. I punti di orientamento si perdono mentre una tormenta di neve
lo sorprende. Si rifugia sotto la tettoia di una casa dentro cui non abita
nessuno, attaccato con la schiena alle pareti esterne della baita disabitata per
provare a difendersi da quella pioggia bianca che lo stordisce. L’inferno non è
caldo, è invece gelido. Castorp sta per morire, forse è morto davvero, come
Psiche quando scende tra i morti, quando solo nella morte trova una possibilità
di mettere termine al tormento che la devasta, esclusivamente nella morte
immagina di ritrovare la sola vita a cui attribuisce un senso, quella
dell’amore. Castorp si addormenta – sogna. Ora è in un luogo pieno di luce,
mediterraneo, tutto gli sembra meraviglioso, vede ragazzi giocare, una madre
allattare suo figlio, giovani donne danzare e suonare, e percepisce di essere un
estraneo in quel contesto, perché è tornato lì dove non era mai stato prima,
alle origini della civiltà. Ma l’atmosfera cambia improvvisamente. Quel mondo di
luce nasconde le sue brutalità. Arriva in un tempio, vi entra gonfio di
spavento, e si accorge che due donne dall’aspetto di streghe stanno compiendo un
sacrificio, dilaniano con le loro stesse mani il corpo di un bambino. Si sta
compiendo un vero e proprio rito. E il rito non è che un modo per accedere al
mistero del mondo, per evocarlo ed esserne partecipi, per rivelarlo continuando
a tacerlo.
Quando rinviene, Hans capisce che attraverso di lui l’anima del mondo sogna la
sua bellezza e la sua terribile oscenità, che proprio perdendosi è entrato in
contatto con lo spirito originario di tutte le cose, e che nel profondo della
propria crepa il bene e il male convivono, così come la pace e il sangue, che
l’istinto alla vita di ogni essere umano maschera qualcosa di delittuoso, la
terribile oscenità della morte. Eppure non è alla morte che l’essere umano
tende, pure partecipando, nel fondo di se stesso, alla sua oscenità. L’uomo,
pensa Castorp, è alla vita che dona il suo maggiore interesse, opponendo tutto
se stesso per respingere quel desiderio luttuoso che pure lo abita. Un desiderio
che però deve attraversare per sentire quanto il dominio dell’amore sia quella
forza capace di attraversare ogni rischio, capace di mettere in pericolo ogni
sostanza vitale. È in questo paradosso la “magia” del romanzo di Mann, che
scrive, ed è significativamente la sola frase interamente in corsivo di tutto il
libro, «In nome della bontà e dell’amore, l’uomo non deve concedere alla morte
il dominio dei suoi pensieri». Una frase che fa eco alla domanda con cui si
conclude il romanzo,
> «Forse che da questa sagra mondiale della morte, da questa voluttà smaniosa e
> maligna che incendia tutt’intorno il piovoso cielo della sera, potrà un giorno
> innalzarsi l’amore?».
Quando Hans Castorp, dopo sette lunghi anni, lascerà il sanatorio e la montagna
che lo ha accolto, che lo ha rivelato a se stesso, il mondo di “quelli di
laggiù” lo travolge vestendolo da soldato, perché nel frattempo è scoppiata la
grande guerra. Non sapremo, da questo momento, più nulla di Castorp, lo vedremo
appena avanzare in battaglia, una granata gli esplode davanti ma non lo uccide;
si rialza e continua a camminare, mentre assurdamente canta il Der Lindenbaum di
Schubert. I versi citati da Mann sono questi: «Nella corteccia incidevo/ tante
parole dolci […] E i suoi rami mormoravano/ come per dirmi…». Mann allude,
lascia in sospeso ciò che la composizione di Schubert esprime. C’è un tiglio
alla fonte dove chi scrive faceva «sogni d’oro». Quel tiglio, quella fonte, non
sono che il luogo dell’origine, quello da cui la morte ci allontana. «Il vento
freddo/ mi soffiava in faccia», dice la canzone, «mi volò il cappello dalla
testa;/ non mi voltai./ Ora, varie ore di cammino/ mi separano; e ancora lo
sento mormorare:/ là troverai la pace».
Hans Castorp, questo «riottoso figlio della vita», come lo aveva soprannominato
Settembrini, capisce, andando incontro alla malattia del mondo, alla follia
degli uomini che hanno lasciato che il dominio della morte prendesse il
sopravvento, che la vita è il tormento di questa distanza che ci separa dai
nostri «sogni d’oro», lì dove sarebbe possibile trovare «pace», dove si nasconde
il segreto di ciò che siamo, e che quello che non possiamo dire, il mistero
divino che si rivela tacendo, lo possiamo però cantare.
Andrea Caterini
*L’edizione consultata per la scrittura di questo saggio è: Thomas Mann, La
montagna magica, cura e introduzione di Luca Crescenzi, traduzione di Renata
Colorni, Mondadori, I Meridiani, 2011.
L'articolo “Siamo esseri del profondo abisso”. Saggio sulla “Montagna magica” di
Thomas Mann proviene da Pangea.