Se mi trovassi nella sala di un museo con cento quadri appesi alle pareti, sono
certo che l’occhio mi cadrebbe sull’unico Cézanne esposto tra tutti gli altri.
Non ho nessuna particolare qualità di sguardo, ma da quando, ai tempi
dell’università, ho cominciato ad accompagnare agli studi letterari quelli
sull’arte, ma senza segnarmi a nessun corso, seguendo percorsi assolutamente
personali, a Cézanne sono sempre tornato. E quando capitavo a una mostra o in un
museo che conteneva una sua opera, era sempre lì che mi sentivo spinto – come
attratto da un mistero. Così, venendo a sapere di una grande esposizione a lui
dedicata a Aix-en-Provence, ho deciso di approfittare dell’occasione e
raggiungere quella cittadina provenzale che gli aveva dato i natali e che
sognavo di visitare da molti anni.
La Aix odierna non è certamente quella vissuta da Cézanne. Oggi il nome del
pittore ricopre le strade in ogni dove. Cézanne è il nome di una strada, di un
cinema, di un caffè, di un negozio qualunque: Cézanne come logo di un enorme
merchandising. Lo stemma stesso della città, che si trova incastonato in ogni
marciapiede del centro storico, è accompagnato dal suo nome. Ma pronunciare
Cézanne ad Aix nella seconda metà dell’Ottocento, voleva dire nominare una
specie di pazzo che nessuno comprendeva né voleva comprendere. Dobbiamo togliere
alla provincia un po’ del romanticismo che siamo abituati ad attribuirgli. La
provincia può essere anche chiusa, feroce, spietata. Spietata specialmente con
le diversità, con le anomalie. E Cézanne, in quella cittadina, doveva sembrare
addirittura un clochard. La domenica era solito andare da casa alla cattedrale
gotica a pochi passi, coi pantaloni e la giacca imbrattati di pittura, e si
fermava lì a pregare, ma evitava di incontrare il prete, perché temeva che gli
rubasse la libertà. Era schivo, irascibile, poteva esplodere di rabbia se
qualcuno lo toccava, come colto di sorpresa, come volessero derubarlo di un
segreto. Non sorprende quindi che giovanissimo, animato da uno spirito artistico
che la comunità non capiva, volesse evadere da quel luogo, raggiungere Parigi,
la capitale dell’arte, perché la provincia, per chi appartiene solo a se stesso,
per chi sogna qualcosa di diverso, per chi sente che il mondo gli esplode
dentro, può diventare una prigione. E nella capitale, dopo i numerosi scontri
con suo padre, che lo credeva un inconcludente – pure se gli garantirà una
rendita a vita che gli permetterà di dipingere sempre –, riesce alla fine ad
arrivare, legandosi a un gruppo di pittori.
Capitava che Paul raggiungesse al caffè gli amici, tra cui Zola, suo amico fin
dall’infanzia e che sarà pure colui che lo stimolerà nella carriera di pittore
anche contro il volere del padre, che lo spingeva verso studi giuridici: «una
cosa o l’altra», lo esorterà lo scrittore, «sii davvero un avvocato, o sii
veramente un artista; ma non restare un essere senza nome, portante una toga
sporca di pittura». Tra quegli amici che incontrava a un caffè parigino c’erano,
tra gli altri, Monet, Pissarro, Degas, Renoir e Manet. Quest’ultimo era
considerato il padre indiscusso di tutti loro; girava per Parigi vestito di
tutto punto, portando, per vezzo, un bastone da passeggio. Monet racconta che
quando arrivava Cézanne, con la sua barba da semidio, burbero e sciatto, tirasse
sopra la vita i pantaloni calati e facesse il giro del tavolo stringendo la mano
ai compagni. Arrivato davanti a Manet, si toglieva il cappello in forma di
ironica reverenza e gli diceva: “Non mi permetto di stringerle la mano, signor
Manet, perché non la lavo da una settimana”.
È solo uno dei tanti episodi di vita che bene mettono in evidenza il carattere
del più importante pittore francese a cavallo tra Ottocento e Novecento. Si deve
a John Rewald, tra i maggiori storici dell’Impressionismo e biografo di Cézanne,
una riscoperta mondiale dell’artista, quando ancora larga parte della critica ne
diffidava, e pure nel suo paese d’origine, Aix-en-Provence, lo consideravano
appena un uomo stravagante. Solamente gli artisti a lui posteriori ne avevano
compreso l’importanza e raccolto l’eredità; artisti che, attraverso i suoi studi
sulla natura e la sua tecnica pittorica, arrivarono a pensare a forme d’arte
come il Cubismo (non sarà un caso che Picasso lo considerasse un maestro
indiscusso, addirittura un Dio). Se Cézanne abbracciò la novità impressionista,
immediatamente dopo comprese pure che occorreva superarla, perché, come scrive
al più giovane Émile Bernard, che lo sollecitava a teorizzare il suo lavoro,
> «per noi uomini la natura è più in profondità che in superficie, di qui la
> necessità di introdurre nelle nostre vibrazioni di luce, rappresentate dai
> rossi e dai gialli, una quantità sufficiente di azzurri, per far sentire la
> presenza dell’aria».
Ma nonostante le teorizzazioni estorte da Bernard, Cézanne non sarà mai
pienamente soddisfatto della sua arte. Sognava di giungere, con la pittura, a
una Terra promessa; diceva di aver fallito, ma non come credeva Zola, che gli
rimproverava di non essere riuscito a realizzare quanto aveva compreso, ma
perché niente in arte è finito. La Terra promessa è una visione, una
resurrezione nella mente. «Nel pittore esistono due cose», aveva
scritto, «l’occhio e il cervello, ambedue devono aiutarsi a vicenda; bisogna
lavorare al loro mutuo sviluppo». Il cervello organizza ciò che l’occhio vede.
Ma quello che si vede non è un dato oggettivo, pure se oggettuale, bensì già una
sensazione, già, pure, un’interpretazione. Ed è per questo che Cézanne si
stancherà anche di Parigi, nonostante fosse ormai divenuto il più importante
pittore sconosciuto di Francia – mai la gioia di un successo pubblico. Dopo aver
provato a risiedere in più occasioni nella capitale, dove passava il più del
tempo a dipingere o a osservare i capolavori del Louvre, capisce che
Aix-en-Provence è la sua vera patria. Proprio la città di provincia che pure lo
aveva spinto lontano, ora tornava a essere un luogo ideale e fuori da ogni posa,
dove in campagna incontrava contadini che spesso ritraeva. Contadini, diceva al
più giovane amico Gasquet, che gli pareva non avessero alcuna percezione del
paesaggio in cui abitavano: per loro un campo, un albero, un frutto erano reali
soltanto per il loro utilizzo. Ma era esattamente di questo spirito semplice che
Cézanne aveva bisogno, perché quello spirito era privo di sovrastrutture e
poneva l’essere umano davvero nel tutto, parte del paesaggio che abitava, pieno
dentro la pienezza della vita. Per questo è a Aix-en-Provence che trova
l’isolamento necessario, la calma e i “motivi” di cui si nutre la sua visione.
Così Cézanne in una lettera spiega il suo desiderio di solitudine:
> «Il dubbio di apparire inferiore a quanto ci si attende da una persona che si
> presume all’altezza di ogni situazione è senza dubbio la scusa che mi fa
> vivere in disparte».
*
Lo dicevamo, nessuno come Zola aveva stimolato l’estro artistico di Cézanne, fin
da quando adolescenti passavano i pomeriggi nella campagna di Aix-en-Provence,
leggendo poesie ad alta voce, immaginando un nuovo modo di scrivere e di
dipingere la natura. Nessuno come Zola credeva al genio artistico di Cézanne,
convinto fosse la migliore mente della sua generazione. Ed era stato sempre Zola
il portavoce di quella nuova pittura che nella seconda metà dell’Ottocento stava
nascendo a Parigi; lui che scriveva violenti articoli contro la vecchia pittura
da Salon in difesa di un’arte dal vero che esprimesse, sulle tele, tutta la
natura – una natura che esplodeva di vita: Manet, il capostipite, e poi Monet,
Pissarro, Renoir, e ovviamente Cézanne. Ma Paul già guardava altrove, i suoi
accostamenti cromatici («Il colore è il luogo in cui il nostro cervello e
l’universo si incontrano», diceva), la volumetria, l’uso del pennello e della
spatola erano già distanti da quell’impressione di realtà che avevano i suoi
compagni e lo stesso Zola capiva e non capiva quale fosse la sua ricerca.
Paul Cézanne, Le cabanon de Jourdan, 1906
Quando nel 1885 pubblicò il romanzo L’Opera, Zola e Cézanne si erano già
allontanati. Il primo aveva in una certa misura chiuso il suo rapporto con i
pittori, dedicandosi interamente alla letteratura. I vecchi amici, letto il
romanzo, si sentirono delusi nel non trovare in quelle pagine la vitalità di
quel momento rivoluzionario che avevano attraversato insieme. Credettero poi che
il protagonista del romanzo, il pittore Claude Lantier, si ispirasse a Manet,
che Zola aveva contribuito, anni prima, a decretarne il successo. Ma solo uno di
quei pittori si riconobbe davvero dietro quelle pagine, ed era proprio l’amico
d’infanzia, Cézanne. Ora Paul finalmente sapeva cosa Emile pensava della sua
arte. Lo credeva un pittore “abortito”. Uno che non era riuscito a realizzare
quanto di grande la sua mente riusciva a cogliere. Se il loro rapporto si era
già frantumato, con L’Opera non sarebbe stato più recuperabile. Quei due vecchi
amici, che avevano condiviso sogni e speranze, che si erano raccontati tutto,
che si conoscevano tanto a fondo, non si sarebbero mai più rivisti.
Eppure, a leggere il romanzo, si comprende pure quanto Zola avesse compreso la
natura irrequieta di Cézanne, la sua perenne insoddisfazione, quella lotta con
la natura che poteva torturarlo, e quale sforzo l’amico dovesse compiere per
sentire sullo spazio bianco della tela la potenza della vita. Ed è questa lotta,
questo corpo a corpo con la realtà che Zola descrive così bene in certe pagine e
che molto rivelano di Cézanne:
> «Ah! lo sforzo creativo dell’opera d’arte, quello sforzo di sangue e lacrime
> di cui agonizzava per creare corpi, animarli di vita! Sempre in lotta con il
> reale e sempre vinto, la lotta contro l’Angelo! Si distruggeva nella
> impossibile impresa di fare entrare tutta la natura in una sola tela, spossato
> alla lunga dai perpetui dolori che gli tendevano i muscoli, senza che gli
> riuscisse mai di produrre l’opera del suo genio. Quello di cui altri si
> appagavano, l’approvazione della resa, la necessaria abilità, lo squassava di
> rimorsi, lo indignava come debole vigliaccheria: e ricominciava, e sciupava il
> buono in cerca di meglio, trovando che non ‘parlava’ (…). Ma che gli mancava
> per creare la vita? Un niente, di sicuro. Forse ne restava un poco al di qua,
> o andava un poco al di là. Un giorno, la parola “genio incompleto”, udita
> dietro le sue spalle, l’aveva lusingato e spaventato. Sì, doveva essere
> questo, il salto troppo corto o troppo lungo, lo squilibrio di nervi di cui
> soffriva, il guasto ereditario che, per qualche grammo di sostanza in più o in
> meno, produceva un pazzo invece che un uomo geniale. Quando la disperazione lo
> cacciava dallo studio, e fuggiva la sua opera, si portava sempre dietro questa
> idea di una fatale impotenza, l’udiva picchiare contro il suo cranio, come un
> rintocco di campana a morto».
A leggere certe pagine di L’Opera si ha l’impressione che nessuno si sia
avvicinato al moto creativo di Cézanne quanto Zola; che nessuno abbia capito
meglio di lui cosa significasse vivere dentro l’atto creativo, e quale fosse il
senso di insoddisfazione che il pittore sentisse non riuscendo mai a vedere
realizzato quanto la mente gli suggeriva. Ma Zola sembra pure, di contro, non
comprendere esattamente cosa sia quell’insoddisfazione, quasi rimproverasse
l’artigiano e non l’artista, cioè individuasse un difetto di senso pratico, di
realizzazione, e non d’ingegno. In realtà lo stesso Cézanne era consapevole che
nessuna “opera” potesse dirsi finita; che lo stesso principio di realtà aveva
una falla, un’assenza, una mancanza che l’occhio pure percepiva. Perché cercando
quella Terra promessa sapeva pure che questa in un’opera poteva essere suggerita
senza mai poterla affermare completamente.
*
Ogni mattina usciva dalla casa al centro di Aix, molto presto, per raggiungere
l’atelier che si era fatto costruire comprando un terreno in campagna, su
colline coltivate a ulivi. L’enorme vetrata dello stanzone faceva entrare molta
luce, assorbita dal grigio delle pareti, tinta scelta volontariamente per non
alterare la percezione dei colori sulla tela. A mezzogiorno, quando la luce
cambiava, usciva dallo studio con cavalletto, colori, pennelli e la tela che
stava realizzando, mettendosi di nuovo in cammino sulla collina per una ripida
salita. Raggiungeva così un punto panoramico dove in prospettiva l’azzurro
costone della montagna Sainte-Victoire dominava l’orizzonte. Passava tutto il
resto della giornata lì, ragionando su ogni pennellata, cercando in profondità
il contrasto tra i colori, misurando con l’occhio il rapporto tra la mente e il
paesaggio, non calcolando geometricamente la prospettiva, perché la matematica è
nemica della sensazione, e quello che l’occhio vede in prospettiva non è un
fascio di linee perpendicolari verso un punto all’orizzonte, ma un insieme di
colori che riempie ogni spazio, che è un tutto. Per questo nei suoi paesaggi le
prospettive sono tecnicamente sbagliate, eppure vere per come l’occhio
percepisce la profondità.
Non c’è niente di più teorico di un paesaggio. E Cézanne, per quanto non amasse
sprecare parole sulla pittura, preferendo il lavoro alla filosofia, immaginava
davvero la sua pittura come un atto critico, lavorando sulla percezione più che
sull’imitazione – ed è esattamente per questo che i suoi studi aprono al
pensiero del Novecento. Sapeva che lo sguardo, mentre osserva, interpreta, e
interpretando aggiunge le proprie sensazioni; sensazioni che si esprimevano
soprattutto con i colori. Se si trovano i giusti contrasti e le giuste relazioni
tra i colori che gli oggetti osservati esprimono – pensava –, il disegno sarebbe
emerso in conseguenza. È dal colore (dalla “sensazione coloristica” che si
riceve dagli oggetti osservati) che le forme emergono. E le forme sono presenze
con un loro volume, con un loro peso oggettivo. Si capisce così perché fosse
tanto lontano ormai da quell’impressione di realtà sperimentata dai suoi vecchi
compagni Monet, Renoir, e anche da Pissarro (a cui rimase però sempre legato).
La sua tavolozza non mischiava una tinta con l’altra. Ogni tono di blu, di ocra,
di rosso, di verde aveva un suo posto specifico. Cézanne lavorava per
sovrapposizione, anche per questo era lentissimo (gli ci volevano cento sedute
per un paesaggio così come per una natura morta o un ritratto, ed era
impossibile avere dei modelli che non fossero parenti e amici, che pure portava
allo sfinimento). E quelle che, avvicinandosi ai suoi quadri, sembrano macchie
di colore – macchie che di colori ne contengono molti –, sono il risultato di
una “sensazione coloristica” a cui chiedeva di perpetrarsi in quello spazio che,
solo, avrebbe restituito verità a quanto aveva visto.
Cézanne è un pittore della realtà nella misura in cui la realtà è qualcosa di
sacro, perché contiene il segreto delle cose nel loro stato nascente. La realtà,
nei quadri di Cézanne, sembra nascere in quel momento. Tutta la sua pittura è
qualcosa che torna alle origini del mondo per sprigionarne la natura
primordiale.
> «Per dipingere bene un paesaggio», dirà a Joachim Gasquet, «devo prima
> scoprire le forme geologiche. Rifletta che la storia del mondo ha inizio dal
> giorno in cui due atomi si incontrarono o due vortici, due danze chimiche si
> composero insieme. Quei grandi arcobaleni, quei prismi cosmici, quell’alba di
> noi stessi al di sopra del nulla, io li vedo crescere, io me ne sazio leggendo
> Lucrezio. Sotto quella pioggia sottile respiro la verginità del mondo. Un
> senso acuto delle sfumature mi tormenta. Mi sento colorato da tutte le
> sfumature dell’infinito».
Nel mio viaggio ad Aix, dopo aver visitato il suo atelier sono salito anche io
nel punto panoramico dove Cézanne si fermava a dipingere, e mano a mano che
facevo quella salita, immaginavo quanto fosse potente nella vita del pittore
compiere quel percorso ogni giorno. Si trattava di un rito, più che di un atto
di volontà o d’abitudine. Raggiungere il “motivo”, prima ancora che dipingere
quel “motivo”, era un gesto che doveva sentire come sacro. Mi sono fermato su
una panchina, ho fissato per molto tempo il paesaggio che avevo davanti,
puntando all’orizzonte la montagna Sainte-Victoire, il suo costone brullo, la
sua pietra calcarea che si colora di una luce calda che solo in Provenza ho
incontrato, una luce che emerge dagli stessi colori del paesaggio, che è dentro
ai colori stessi del paesaggio – quella montagna che si colora dell’azzurro del
cielo e di quello del mare alle sue spalle. Mi chiedevo cosa vedesse lui in
quella montagna per ritrarla così tante volte, farla divenire addirittura
un’ossessione, o il suo paesaggio ideale. Attraversando con lo sguardo l’intera
vallata, vedeva come la luce colorasse il volto della montagna, quel volto che
non si confondeva al cielo, ma ne era il suo riflesso speculare, come dire ciò
che del cielo restava solido allo sguardo, che acquistava colore e forma. E
la Sainte-Victoire non è ritratta più volte negli anni per vedere come sul suo
costone cambi di volta in volta la luce del giorno, come aveva fatto Monet con
la Cattedrale di Rouen. Per Cézanne quella montagna ha il volto azzurro di una
visione perpetrata – la visione di qualcosa che prendendo forma con gli anni
addirittura si scompone senza mai sgretolarsi. È quella visione che dà forma
allo sguardo, che ne sostanzia la sensazione che ne prova. La montagna è azzurra
e l’aria e le ombre causate dalla distanza tra l’occhio e l’oggetto osservato la
sfumano di rosa e di bianco. La montagna è già dentro lo sguardo. La
Sainte-Victoire, negli occhi e nella testa di Cézanne, è quel Paradiso che la
realtà ha perduto e che solo la pittura può farci definitivamente rivedere.
Paul Cézanne, Bagnanti, 1899-1904
*
Credo che la mia attrazione per Cézanne sia però nata da un quadro specifico che
sono andato a osservate molte volte, perché è conservato nella Galleria
Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Un quadro del 1906, Le Cabanon
de Jourdan, su cui mi sono interrogato spesso, non sapendo se sia mai riuscito a
capirlo davvero. Del resto a Cézanne si può arrivare armati di un’infinita
bibliografia e non sfiorare neppure per un attimo il suo segreto. Cézanne deve
risuonarti dentro, i suoi quadri vanno più sentiti che capiti, vissuti più che
spiegati.
Le Cabanon de Jourdan è un paesaggio con una casa in primo piano, a sinistra
della tela. Guardandolo siamo portati a riflettere su cosa significhi, nella
casa, l’azzurro della porta, quella porta che ha lo stesso colore del cielo, che
è una pennellata di cielo in uno spazio sbagliato, come un inciampo del
pennello, un errore, un attimo di cecità. Deve pure significare qualcosa, mi
sono sempre detto, se questo è uno degli ultimi dipinti a olio, realizzato pochi
mesi prima di morire. Cosa vuol dire quella casa, se quella porta è uno sbaglio
del cielo, o una distrazione dello sguardo. Quell’errore del pennello, quella
casa che è una casa che non può finire, perché la luce gli esplode dentro,
accende le pareti, è già colore, contiene tutto il cielo che solo lui, Cézanne,
vedeva – il cielo che è già qui: reale, materico, eterno.
Joachim Gasquet riporta una conversazione tra lui e Cézanne in cui quest’ultimo
afferma:
> «Tutto, più o meno, esseri e cose, non siamo altro che un po’ di calore solare
> immagazzinato, organizzato, un ricordo di sole, un po’ di fosforo che brucia
> nelle meningi del mondo (…). Ecco, io vorrei liberare questa essenza. La
> morale frammentata del mondo è forse lo sforzo ch’egli compie per ridiventare
> sole. Là si trova il suo concetto, il suo sentimento, il suo sogno di Dio.
> Dovunque, un raggio colpisce una porta oscura. Una linea, ovunque,
> circoscrive, tiene prigioniera una tonalità. I voglio liberarle».
*
Eppure paesaggi non sono solamente la campagna provenzale, o la visione
della Saint-Victoire così tante volte dipinta. Paesaggi sono anche la serie di
bagnanti, che forse meglio di ogni altro “motivo” restituisce l’immaginario di
Cézanne. Negli anni ne ho viste molte di sue opere con questo soggetto; e la
stessa mostra allestita ad Aix ne esponeva più di qualcuna. Quelle donne e
quegli uomini – quei volumi di donne e di uomini – sono in una relazione tanto
stretta con la natura che abitano che paiono i primi esseri a calpestare la
terra.
Mi sono fermato davanti a una in particolare che mi aveva
attratto, Bagnanti dipinte tra il 1899 e il 1905, conservata ora in un museo di
Chicago. In una figura umana un piede disteso a terra si confonde al verde
dell’erba, e un braccio si assorbe al tronco di un albero – e non stupisce che
il rosa di un incarnato sfumi in azzurro e che l’azzurro del cielo e dell’acqua
del fiume abbiano dato colore all’albero e alla stessa figura umana. I colori
delle cose non si mischiano impressionisticamente, contengono invece una luce
intrinseca che contamina. La realtà è per Cézanne una forma di coabitazione
armonica degli elementi; una coabitazione primordiale, originaria, in cui ogni
forma di vita è stata appena creata.
Ma sono convinto che questo “motivo” sia anche ciò che abbia ispirato Zola per
il romanzo L’Opera. Nella storia del romanzo il pittore Claude Lantier passa gli
ultimi anni della sua vita ossessionato da un solo quadro, che continuamente
corregge e disfa, sentendo di non arrivare mai a raggiungere quanto sente di
poter esprimere da quel soggetto. Il quadro è una veduta della Senna, ma in
primo piano un nudo di donna occupa gran parte dello spazio. La moglie del
pittore ne è addirittura gelosa, perché sente quanto Lantier ami più quel corpo
dipinto che il suo, che pure gli offre per interminabili sedute da modella; che
con quel corpo dipinto Lantier passi la gran parte del suo tempo, che occupi
ogni suo pensiero, che ci faccia addirittura l’amore, che lo osservi e lo studi
come fosse carne viva, come avesse un’anima e un nome. Ma nonostante l’amore,
nonostante l’ossessione, nonostante lo sforzo di finire quel soggetto, di
lasciarlo vivere di vita propria, Lantier non ne sarà mai totalmente
soddisfatto. Una notte, la stessa notte in cui sua moglie è riuscita finalmente
a strapparlo al suo lavoro, a farlo tornare da lei, alla vita reale, facendosi
possedere e illudendosi di possedere a propria volta suo marito, Lantier torna
di nuovo davanti al suo enorme quadro e riconosce il suo inesorabile fallimento,
compiendo il gesto estremo di impiccarsi davanti a quella donna che non ha mai
preso vita se non nella sua mente. Per Cézanne il “motivo” dei/delle bagnanti si
esprime fin dagli anni Settanta dell’Ottocento, si può addirittura dire che sia
sempre esistito, e forse proprio per questo Zola immagina quel particolare
soggetto per il quadro abortito che porta al suicidio il suo personaggio. Ma è
come se i due, uno attraverso il romanzo l’altro attraverso i quadri, stessero
dialogando attraverso l’arte senza riuscire a incontrarsi.
> «Claude, in maniche di camicia nonostante la rigida temperatura, nella fretta
> s’era infilato soltanto pantaloni e pantofole, era dritto sulla grande scala
> davanti al suo quadro. La tavolozza giaceva ai suoi piedi e con una mano
> reggeva la candela, mentre con l’altra dipingeva. Aveva gli occhi dilatati del
> sonnambulo, gesti precisi e rigidi, chinandosi ogni minuto per prendere il
> colore, rialzandosi, proiettando contro il muro una grande ombra fantastica,
> dai movimenti taglienti d’automa. E non un sospiro, niente altro, nell’immenso
> ambiente oscuro, che un tremendo silenzio. Rabbrividendo, Christine
> indovinava. Era l’ossessione, l’ora passata laggiù, sul ponte del
> Saints-Péres, che gli rendeva il sonno impossibile e che l’aveva riportato di
> fronte alla sua tela, divorato dal bisogno di rivederla, malgrado la notte.
> Senza dubbio, era salito sulla scala solo per empirsene gli occhi più da
> vicino. Poi, torturato da qualche nota falsa, malato di quella ossessione al
> punto di non poter attendere il giorno, aveva afferrato un pennello, dapprima
> nel desiderio di un semplice ritocco, poco a poco trascinato di correzione in
> correzione fino ad arrivare a dipingere come un allucinato, la candela in
> mano, in quella debole luce che i suoi gesti facevano oscillare. La sua smania
> impotente di creare lo aveva riafferrato, si macerava fuori del tempo, fuori
> del mondo, voleva soffiare la vita nella sua opera, subito!».
Zola non fa che battere il chiodo su quell’ossessione, su quel rapimento, su
quella vertigine da cui il suo personaggio è posseduto. Insiste appunto su
quell’atto creativo che non trova mai una capacità realizzativa, che mai si
concretizza. Ed è un’ossessione, un assedio che certamente Cézanne sentiva, ma
non era sufficiente a spiegare tutto.
Forse una risposta a Zola è un piccolo racconto di Balzac, Il capolavoro
sconosciuto, il cui protagonista, il pittore Frenhofer, è a sua volta un artista
che vuole svelare, attraverso l’osservazione della natura, il segreto della
vita. Lo stesso Cézanne, interrogato su quale fosse il personaggio letterario
che amasse di più, è proprio il protagonista del Capolavoro sconosciuto che
nomina. E a leggere alcune affermazioni sulla pittura di Frenhofer,
effettivamente sembra di ascoltare la voce stessa di Cézanne:
> «La missione dell’arte non è copiare la natura, ma esprimerla! Non sei un vile
> copista, ma un poeta! (…) Noi dobbiamo cogliere lo spirito, l’anima, la
> fisionomia degli oggetti e delle creature. Gli effetti, gli effetti! Ma gli
> effetti sono le casualità della vita, non sono la vita! Una mano, dato che ho
> fatto questo esempio, non è solo attaccata al corpo, ma esprime e continua un
> pensiero che bisogna cogliere e rendere. Né il pittore, né il poeta, né lo
> scultore devono separare l’effetto dalla causa, che sono indissolubilmente
> concatenati. (…) Voi disegnate una donna, ma non la vedete! Non è così che si
> svela il mistero della natura. La vostra mano riproduce, senza che voi vi
> accorgiate, il modello che avete copiato dal vostro maestro. Non penetrate
> abbastanza a fondo nell’intimo della forma, non la inseguite con sufficiente
> amore e perseveranza nei suoi sbandamenti e nelle sue fughe. La bellezza è
> qualcosa di severo e difficile che non si lascia conquistare senza sforzi:
> bisogna attendere il momento giusto, spiarla, starle alle costole e legarla
> bene per costringerla ad arrendersi. La forma è un Proteo ben più sfuggente e
> ingannevole del Proteo della storia. Solamente dopo un lungo combattimento la
> si può costringere a mostrarsi col suo vero aspetto. (…) Ogni figura è un
> mondo, un ritratto il cui modello è apparso in una visione sublime, inondato
> di luce, su indicazione di una voce interiore, spogliato da un dito celeste
> che ha mostrato, nel corso della sua vita, le fonti dell’espressione. (…) La
> natura comporta una serie di rotondità che si avvolgono le une nelle altre.
> Propriamente parlando, il disegno non esiste. (…) La linea è il mezzo con cui
> l’uomo comprende l’effetto della luce sugli oggetti, ma in natura non vi sono
> linee, tutto è pieno. È modellando che disegniamo, che stacchiamo gli oggetti
> dallo sfondo; solo la distribuzione della luce dà al corpo il suo vero
> aspetto».
Mettendo a confronto Zola e Balzac si ha come l’impressione che svelino il verso
e il recto di uno stesso personaggio. Balzac non poteva avere Cézanne come
modello per il suo Frenhofer, la prima apparizione di Il capolavoro
sconosciuto è infatti del 1831 – Cézanne era nato da appena otto anni. Ma lo
stesso quelle pagine ci raccontano di un sentimento creativo, una necessità di
coabitazione con il soggetto osservato, che è possibile attribuire allo stesso
Cézanne, il quale avrebbe potuto sottoscrivere frasi come:
> «La natura comporta una serie di rotondità che si avvolgono le une nelle
> altre. Propriamente parlando, il disegno non esiste. (…) La linea è il mezzo
> con cui l’uomo comprende l’effetto della luce sugli oggetti, ma in natura non
> vi sono linee, tutto è pieno».
È quel tutto pieno che desidera esprimere Cézanne. Far vivere insieme,
attraverso i colori, tutta la natura – esseri e cose. È quella la Terra
promessa. È quello il Paradiso tanto agognato, perché nell’espressione di quella
coabitazione è possibile rivivere il primo atto creativo, la nascita della prima
forma di vita sulla terra, il mistero raccontato in Genesi.
Si rilegga invece l’ultima frase di Zola:
> «La sua smania impotente di creare lo aveva riafferrato, si macerava fuori del
> tempo, fuori del mondo, voleva soffiare la vita nella sua opera, subito!».
Forse è realmente questo che ha ferito Cézanne di quel romanzo. Certo,
l’impotenza, l’incapacità di realizzazione, il fallimento. Ma a scapito di cosa?
Zola aveva colto qualcosa di più profondo che riguardava la persona di Cézanne.
Zola aveva capito quanto Paul, per esprimere la vita, avesse dovuto rinunciare
alla vita. Aveva capito che l’ossessione di esprimere la natura, l’ossessione di
cogliere, della natura, il fuoco che la rende viva, avesse di conseguenza reciso
ogni suo legame; che l’arte, in Cézanne, aveva inghiottito tutto: l’amore,
l’amicizia, i legami di sangue – si racconta che non partecipò neppure al
funerale di sua madre (la donna che per tutta la vita incoraggiò la sua
vocazione) per correre al suo “motivo”. Ma sarebbe un errore troppo grave
ridurre Cézanne a un’interpretazione psicologica carpita da qualche aneddoto.
Da una parte (la lezione di Balzac) il mistero della creazione. Dall’altra
(l’interpretazione di Zola) l’ossessione creativa che distrugge la vita. In
Cézanne convivono questi poli che non possono essere separati, che pur
collimando sono necessari l’uno all’altro.
> «È certo», scrive Merleau-Ponty in un saggio che dedica a Cézanne, «che la
> vita non spiega l’opera, ma è altrettanto certo che esse comunicano. La verità
> è che quell’opera da fare esigeva quella vita. Sin dall’inizio, la vita di
> Cézanne non trovava equilibrio se non appoggiandosi all’opera ancora futura,
> di cui era il progetto, e l’opera si annunciava mediante segni premonitori che
> avremmo torto a ritenere cause, ma che rendono vita e opera una sola
> avventura. Non ci sono più qui cause ed effetti, le une e gli altri si
> raccolgono nella simultaneità d’un Cézanne eterno che è la formula di quel che
> ha voluto essere e, ad un tempo, di quel che ha voluto fare».
*
Lasciando l’elegante e affollata via principale di Aix, una cittadina di
provincia oggi vitalissima, piena di giovani universitari, di locali, di turisti
da ogni parte del mondo, mi sono infilato in alcuni vicoli più stretti, cercando
la salita che mi avrebbe fatto raggiungere il cimitero di Saint-Pierre. Amo la
pace dei cimiteri di provincia, non vi è città che visiti in cui non cerchi il
luogo in cui la memoria è seppellita. Eppure mi stupiva accorgermi che via via
che mi avvicinavo al cimitero, quella folla che avevo visto in città, la stessa
che aveva riempito anche le sale della grande mostra dedicata a Cézanne e
addirittura la sua casa e il suo atelier, fosse improvvisamente scomparsa. Tra
le tombe più nessuno, soltanto un gatto rosso dormiva al sole sdraiato su una
lastra di marmo.
Presso la tomba di Cézanne; photo Andrea Caterini
La tomba di Cézanne, il cui nome inciso sulla pietra viva si era un poco
levigato, era a pochi passi dall’ingresso. Ecco, diventare una lapide da cui si
è cancellato anche il nome, soffiato via dal tempo; scomparire diventando
pietra, elemento, memoria organica di un luogo, non essere niente stando nel
tutto. È il pensiero che ho avuto salutando Cézanne un’ultima volta prima di
partire. «Ho giurato a me stesso di morire dipingendo», aveva scritto in una
lettera a Émile Bernard nel settembre del 1906. Sarebbe morto un mese dopo.
Alzando lo sguardo dopo una preghiera, scorgevo in lontananza, tra le punte di
due cipressi che facevano da cornice, il volto impenetrabile della
Sainte-Victoire, ancora lì davanti a lui: eternamente.
Andrea Caterini
*In copertina: Paul Cézanne, Portrait de l’artiste au chapeau de paille, 1875
ca.
L'articolo “Mi sento colorato da tutte le sfumature dell’infinito”. La Terra
promessa di Cézanne proviene da Pangea.
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Il primo colpo di tosse sembra niente. Poi mano a mano il corpo si agita, sente
un’occlusione dei canali respiratori. Il fiato si fa corto, l’esofago si
stringe, come una mano che schiaccia la gola. Le contrazioni toraciche diventano
più insistenti, la tosse più grassa – reagisce a un’improvvisa pressione sui
polmoni. Nella bocca un sapore di ruggine, ferroso. La temperatura del corpo
sale: una costante febbre che dà spossatezza, perdita d’appetito, veloce
dimagrimento. Un bacillo potrebbe aver attaccato il sistema immunitario. Ma che
sia tubercolosi non è affatto detto. Potrebbe essere un’influenza più aggressiva
del normale, forse addirittura una polmonite. Solo che, stando alle statistiche,
quasi due miliardi di persone è contagiata dal mycobacterium tuberculosis, ma
soltanto il 5% svilupperà la malattia in maniera attiva nella propria vita. È la
prima delle scoperte a cui giunge Hans Castorp andando a trovare in sanatorio
suo cugino Joachim: la malattia non è una condizione di eccezionalità. Malati lo
siamo tutti. La differenza è il modo in cui assecondiamo e accogliamo quella
condizione; come dire, la nostra predisposizione a lasciare che la malattia
agisca sul nostro sistema vitale.
Quando, l’8 maggio del 1936, Thomas Mann viene invitato a Vienna a tenere un
discorso per l’ottantesimo compleanno del padre della psicanalisi, Sigmund
Freud, a un certo punto afferma che quando incontrò la sua opera si accorse che
due questioni significativamente lo legavano all’autore dell’Interpretazione dei
sogni: l’amore per la verità e la malattia come mezzo di
conoscenza. Tralasciando la prima questione, sulla seconda Mann sottolinea:
> «Ad ogni pagina sembra insegnarci che nessun profondo sapere è possibile senza
> quell’esperienza, premessa e condizione di ogni più alta salute. Anche questo
> senso potrebbe quindi ricondurre a Nietzsche, se non fosse piuttosto
> strettamente congiunto con l’essenza stessa dell’uomo spirituale in genere e
> del poeta in ispecie, anzi, con l’essenza stessa di tutta l’umanità, per quel
> che v’ha in essa di specificamente umano e di cui il poeta è l’espressione
> esagerata ed estrema. […] L’uomo è stato definito “animale malato” a causa
> delle tensioni e delle difficoltà, che sono il suo peso e il suo privilegio, a
> lui imposte dalla sua posizione stessa, intermedia fra natura e spirito, fra
> angelo e bestia».
Si colga, nel ragionamento, questa continua dualità che Mann estremizza. L’uomo
è un “animale malato”, e quella malattia è un “peso” e al contempo un
“privilegio”, perché la sua posizione è in continua tensione tra “natura” e
“spirito”, tra “bene” e “male”. L’uomo è malato perché è tale nella sua essenza.
Quello che si presenta come il sintomo di un improvviso disfunzionamento
dell’organismo non fa che mettere in evidenza un difetto spirituale. È
l’argomento della Montagna magica quello di comprendere quale sia il legame tra
queste due forme di instabilità, in che modo coincidano una malattia del corpo e
una della psiche, e come questa possibile coincidenza, o questo dissidio
indissolubile e inscindibile, possano aprire le porte di quel mistero insolubile
che è l’uomo in quanto tale.
*
La genesi del romanzo è piuttosto nota. Dal 15 maggio al 13 giugno del 1912,
Mann accompagna sua moglie in un sanatorio a Davos per farla curare da una
sospetta tubercolosi. In quel periodo stava terminando La morte a
Venezia. L’esperienza del sanatorio comincia a ispirarlo, ma per molto tempo
quello che ha in mente è una novella, una sorta di appendice al romanzo di
Aschenbach. Nel ’14 scoppia la guerra e l’attenzione di Mann si volge a
questioni che reputa più urgenti per il destino dell’Europa intera. Solo alla
fine del primo conflitto mondiale – che molto influì sulle pagine
della Montagna – il lavoro riprende con costanza e si complica. In una pagina di
diario del 1919 Mann scrive:
> «Penso frattanto che sia davvero questo il momento giusto per riprendere in
> mano lo Zbg [Montagna magica]. Durante la guerra sarebbe stato troppo presto,
> ho dovuto interrompere. La guerra doveva prima manifestarsi chiaramente come
> inizio della rivoluzione, il suo epilogo doveva non soltanto aver luogo ma
> anche mostrarsi come epilogo fittizio. Il conflitto tra reazione (simpatia per
> il Medioevo) e illuminismo umanistico è assolutamente storico e antecedente
> alla guerra. La sintesi sembra trovarsi nel futuro (comunista): il nuovo
> consiste sostanzialmente in una nuova concezione dell’uomo come sintesi di
> corpo e spirito (superamento del dualismo cristiano di anima e corpo, Chiesa e
> Stato, morte e vita), una concezione sorta anch’essa, del resto, prima della
> guerra. Si tratta della prospettiva riguardante il rinnovamento in chiave
> umanistica del regno di Dio cristiano, cioè di un regno di Dio in qualche modo
> umanamente compiuto e trascendente e, dunque, spirituale e corporeo: tanto
> Burge [il nome definitivo sarà Naptha nel romanzo], quanto Settembrini, con le
> loro tendenze, hanno allo stesso tempo ragione e torto. Il fatto che Hans
> Castorp venga dimesso per la guerra significa che è dimesso per partecipare
> all’inizio delle lotte per il nuovo, dopo che ha assaggiato pedagogicamente le
> sue componenti, quella cristiana e quella pagana».
*
Andiamo per gradi. Per Hans Castorp, un giovane studente di ingegneria navale,
orfano di madre e di padre, rimasto sotto la tutela dello zio, quella montagna
che raggiunge per andare a far visita al cugino Joachim, ospite del sanatorio da
qualche tempo, è un mistero. Un mistero che egli pensa di risolvere in sole tre
settimane. Eppure, fin dal suo arrivo, fin dalla prima sera, percepisce che il
suo corpo sta reagendo a qualcosa, il volto gli va in fiamme, come se fosse
stato sorpreso da un’improvvisa febbre. Una condizione che non lo mollerà per
giorni, nonostante la strafottenza di negare qualsivoglia disturbo, quasi
sentisse di vivere una doppia vita, una organica, che gli pare addirittura
autonoma, l’altra di emozioni.
> «La cura del riposo mi sta bene, la faccio volentieri come tutti, ma misurarsi
> la febbre sarebbe un po’ troppo per un ospite in visita, lo lascio volentieri
> a voi di quassù. Se solo sapessi […] perché mai ho queste continue
> palpitazioni…. È un fatto inquietante, ci sto pensando da un bel po’. Le
> palpitazioni vengono di solito quando siamo in attesa di una particolare gioia
> o quando siamo in apprensione, insomma, quando sono in gioco le emozioni, non
> ti pare? Ma se il cuore ti comincia a battere da solo, senza motivo e senza
> scopo, per conto suo, diciamo, trovo che sia una cosa perturbante, comprendimi
> bene, è come se il corpo se ne andasse per la sua strada e non avesse più
> alcun rapporto con l’anima o fosse, per così dire, morto pur non essendo
> veramente morto… […] è, piuttosto, come se il corpo conducesse una vita molto
> intensa, ma totalmente autonoma».
«Come se il corpo», dichiara Castorp, «non avesse più alcun rapporto con
l’anima». Questo scollamento è il principio di un dualismo su cui Mann ragiona
per tutto il corso del romanzo. È un dualismo stratificato, risultato di una
condizione che prevede un processo conoscitivo. Un dualismo da cui Castorp
sembra ossessionato, che sente di dover continuamente ricercare, scardinare,
addirittura farsene sedurre. Il primo segno viene appunto dal corpo, da uno
stato percepito fisicamente ma non ancora psichicamente. Quasi che il corpo
vivesse una vita sua propria, quasi che la psiche percepisse un attimo dopo
quello che il corpo suggerisce.
Ora però ci sarebbe da capire se la malattia che il corpo suggerisce era
qualcosa che preesisteva o è stata la montagna a scatenarla. O ancora, la
malattia del corpo la montagna l’ha provocata o l’ha soltanto manifestata? La
questione non è faccenda intellettualistica. Hans parte con un falso scopo, o
con un pretesto, una visita di piacere a suo cugino. Non nutre coscientemente
alcun bisogno di cura. Il suo problema, un problema che presto emergerà, è
l’assenza stessa di uno scopo, di una ragione di vita. L’allontanamento da
Amburgo, o dalle zone basse, verso “quelli di lassù”, verso la montagna, non è
che un tentativo incosciente di allontanarsi da un problema esistenziale. Il
primo segno che quello spostamento – quella ricerca – gli concede, è appunto il
manifestarsi di un disagio fisico. Il corpo per primo, voglio dire, segnala un
disagio di cui non si conosce la natura, o la causa.
A sottolineare fin da subito la questione della malattia come qualcosa di fisico
e psichico nello stesso tempo è nel romanzo il dottor Krokowski quando incontra
per la prima volta il nuovo arrivato Castorp, il quale però dichiara di essere
perfettamente sano.
> «Sul serio? Ma allora lei è un fenomeno più che degno di essere studiato!
> Perché una persona perfettamente sana io, finora, non l’ho mai incontrata. […]
> Dunque non intende approfittare qui di nessun trattamento medico, né fisico né
> psichico?».
Del resto è il dottor Krokowski che mensilmente tiene nel sanatorio delle
conferenze di carattere psicanalitico, una sorta di Freud sceso nel regno dei
morti a mostrare l’abisso in cui tutti gli ospiti del sanatorio si trovano, non
solo per lo spazio che abitano – uno spazio definito spesso nel romanzo fuori
dalla vita –, ma per come la malattia li abbia messi in relazione con quella
parte dello spirito che è la zona d’ombra di ognuno, quella da cui scaturiscono
tutti i dolori di cui si sente il peso ma di cui non si individua l’origine. Di
discesa nel regno dei morti parla anche uno dei personaggi principali del
romanzo, il letterato italiano allievo di Carducci, l’illuminista, il massone
Settembrini,
> «lei non è dei nostri? È sano, ed è solo ospite qui, come Odisseo nel regno
> delle ombre? Che audacia, discendere nelle profondità dove dimorano i morti,
> privi di sensi, e le ombre degli uomini estinti […] Siamo esseri del profondo
> abisso».
Il fatto che la montagna e il sanatorio rappresentino il regno delle ombre, un
abisso, un luogo frequentato da morti, o da quei vivi che abitando totalmente la
malattia si sono posti fuori dalla vita, che vuol dire fuori da un tempo
ordinario, pone tutta la “scena” del romanzo in una condizione onirica. Ma forse
è ancora qualcosa di diverso. Se il corpo, in quello spazio onirico, manifesta
un disagio, un disagio tale da rendere impossibile un ritorno tra “quelli di
laggiù”, dove la vita continua, è perché la montagna ha ordito il suo
incantesimo, il suo sortilegio. La malattia di cui tutti soffrono e per la quale
muoiono, è reale e irreale nello stesso tempo; o meglio: è doppiamente reale. Da
una parte il corpo, manifestando il proprio disagio respiratorio – manca l’aria,
si tossisce, si sputa sangue –, rende impossibile una qualsiasi fuga. Il corpo
malato è una sorta di trappola. Dall’altra, in quel particolare carcere che è la
montagna, il corpo concede, con il suo disfunzionamento, con la sua malattia, di
entrare in un’altra forma di malattia, quella per cui gli abissi divengono una
condizione assolutamente soggettiva. Pare addirittura che nessuno degli ospiti
di quel sanatorio voglia veramente curarsi. Ognuno sembra fare i conti con la
propria malattia, diversa e uguale per tutti. Se la malattia del corpo di cui
tutti soffrono è la tubercolosi, quella specifica malattia dei polmoni e del
respiro, dall’altra, quella malattia del corpo ha aperto a ciascuno una crepa
dentro la propria specifica malattia. Quando Castorp è costretto a riconoscere
di essere anche lui malato, che non potrà quindi lasciare il sanatorio, dichiara
di essere sorpreso e nello stesso tempo di non esserlo:
> «Che io sia un po’ malato è per me una sorpresa, certo per prima cosa dovrò
> adattarmi a questo, a sentirmi un paziente tale e quale a voi, e non, com’è
> stato finora, un semplice ospite. Al tempo stesso, però, la cosa quasi non mi
> sorprende, perché in verità non mi sono mai sentito magnificamente bene. […]
> Comunque sia, sto qui sdraiato da ieri e non faccio che riflettere su come mi
> sono sempre sentito, su quale è stato il mio rapporto con ogni cosa, con la
> vita e con le sue esigenze […] Ebbene tutto questo, penso, deriva dal fatto
> che anch’io ho una crepa e fin dall’inizio mi sono inteso con la malattia».
Gli studi che Hans Castorp compie per occupare il tempo del riposo, quelle ore
che sono necessarie in sanatorio alla cura, quelle ore che sono pure uno dei
modi per scandire un tempo sospeso dalla vita, non sono studi umanistici, né
tantomeno riguardano la materia di cui è esperto, l’ingegneria. Si tratta di
libri di anatomia, fisiologia, biologia. Castorp vuole comprendere il
funzionamento del corpo umano. Non solo. Vuole capire cosa ci si nasconde
dentro, di cosa sia composto, fino a dove la scienza può giungere a conoscere la
più piccola parte del nostro organismo. E da cosa, questa parte infinitesimale
di noi che ci abita, sia nata. Castorp, attraverso la malattia, attraverso lo
studio del corpo, attraverso la scienza anatomica, vuole comprendere cosa sia
esattamente la vita e da cosa essa nasca. E ciò che arriva a comprendere è che
la stessa scienza ammette che la vita nasca da una non vita, da qualcosa che non
è possibile definire scientificamente.
> «L’idea che la vita fosse nata da ciò che non ha vita, era impossibile da
> respingere, e lo iato che nella natura esterna si cercava invano di chiudere,
> quello tra vita e assenza di vita, quello iato doveva essere colmato o
> superato in un qualche modo all’interno, un interno organico, dalla natura. A
> un certo momento la divisione doveva condurre a unità composte, sì ma non
> ancora organizzate, che mediavano tra vita e non vita, gruppi di molecole che
> costituivano il passaggio tra forma di vita e semplice chimica. Giunti però
> alla molecola chimica, ci si trovava in prossimità di un abisso che si
> spalancava assai più misterioso di quello posto tra natura organica e
> inorganica: un abisso vicino a quello che si apre tra realtà materiale e
> immateriale».
La questione è qui. Quello di cui la malattia ci informa attraverso il corpo è
che l’elemento vitale che ci sostiene è qualcosa che faticheremo a chiamare
vita. Proprio la sua impronunciabilità rende la nostra stessa vita un enigma.
Quello che Castorp comprende è che la malattia del proprio corpo gli ha concesso
di scendere in un territorio in cui non è più il corpo a gestire. Ovvero, la
malattia del corpo gli ha fatto toccare quell’elemento inorganico e immateriale
che la scienza non saprebbe definire se non come non vita ma che pure,
misteriosamente, ci determina. Castorp tocca, con l’esperienza della malattia,
il segreto che tutti possediamo. Lì, nascoso dentro di noi, tra materia organica
e inorganica, dove la non vita genera vita, esiste un’energia segreta che lega
il corpo allo spirito, la vita alla morte. Proprio lì, in quella “crepa”, dentro
quel segreto, c’è la nostra psiche. È questo il momento in cui Castorp
percepisce che ogni uomo custodisce e alimenta la propria follia.
*
Mi si conceda una digressione. Da un po’ di tempo ho questa cosa in testa.
Penso a come sia nato il romanzo moderno, dico alle cause che hanno fatto in
modo che le forme si spezzassero, che la voce cambiasse, che la lingua seguisse
l’ellissi di una immaginazione che si costruisse dall’interno e non solo, o non
più dall’esterno. Le cause, quindi. Quelle conclamate, la scoperta della
psicanalisi e lo scoppio della Grande guerra. Due “eventi” talmente grandi da
somigliare a una rivoluzione. Naturalmente a questi andrebbe aggiunta la
“questione scientifica”, la relatività, la concezione del tempo e tutto quello
che ne consegue in termini filosofici. Poi, leggendo Mann, ho cominciato a
pensare alla malattia, a questa specifica malattia che è stata la tubercolosi,
che si è scatenata tra la fine dell’Ottocento e il principio del Novecento. Una
malattia, per così dire, democratica, che ha colpito chiunque, ricchi e poveri,
e anche molti artisti (Kafka, Gozzano, Scipione, tanto per citarne alcuni).
Ecco, pensavo, la tubercolosi come malattia dei polmoni, come disturbo del
respiro. E il respiro è la voce. Ho pensato, voglio dire, che dovrà aver
significato certo qualcosa il fatto che si morisse così diffusamente per assenza
di respiro, per un difetto della voce. Avrà dovuto certo significare qualcosa in
termini di immaginario collettivo, tanto da trasformare una malattia del respiro
in un disturbo della psiche. Qualcosa che andava curato allontanandosi dalla
vita, cercando uno spazio altro, creando di conseguenza il “mito”
dell’isolamento. Quanti sanatori nella storia della letteratura moderna. Spazi
fuori dalla vita. Luoghi di cura che scatenano l’immaginazione. Quella specifica
immaginazione che moltiplica le possibilità dell’io, trasformando l’io in una
molteplicità. Luoghi di cura come spazi mentali, in cui il tempo si deforma, si
relativizza. Spazi in cui si fa esperienza della morte, in cui la morte si
affaccia alla vita come un soffio, un respiro, una voce appunto. E non è
la Montagna magica il risultato più alto di questa concezione romanzesca?
Thomas Mann (1875-1955)
*
Sappiamo che la stesura della Montagna magica fu interrotta per un certo periodo
da Mann per la scrittura di una conferenza che darà vita a un saggio
particolarmente significativo, quello che avrà come titolo Goethe e Tolstoj. È
chiaro che Mann fosse pienamente dentro l’oggetto di indagine
della Montagna anche mentre scriveva di altro, e infatti troviamo una pagina che
molto dice anche del romanzo, proprio a proposito della malattia:
> «La malattia ha un doppio volto e un doppio rapporto con ciò che è umano e con
> la sua dignità. Da un lato essa è nemica di questa dignità in quanto accentua
> troppo fortemente l’elemento corporeo e, col respingere e rigettare l’uomo nei
> confini del corpo, lo disumana e abbassa al semplice corpo. D’altro lato
> tuttavia è possibile pensare e sentire la malattia come qualche cosa di
> altamente degno dell’uomo. Se infatti sarebbe troppo arrischiato dire che la
> malattia è spirito e più ancora […] che lo spirito è malattia, tuttavia questi
> concetti hanno molto di comune fra loro. Spirito infatti è orgoglio,
> un’opposizione […] alla natura, che tende a emanciparsi, sciogliersi,
> allontanarsi, estraniarsi da essa; spirito è ciò che contraddistingue l’uomo,
> questo essere che si sente in alto grado sciolto dalla natura, a lei opposto,
> diverso da tutti gli altri esseri organici. Il problema quindi, il problema
> aristocratico è di sapere se l’uomo sia tanto più altamente uomo quanto più è
> sciolto dalla natura, cioè quanto più è malato. Infatti, che cosa sarebbe la
> malattia se non separazione dalla natura?».
Si è detto di una dualità che Mann ossessivamente sottolinea per tutta la
narrazione; una dualità che per Hans Castorp è prima di tutto ricerca; una
dualità che nel romanzo è personificata dai due pedagoghi ospiti del sanatorio,
che Castorp avvicina stringendo con loro un legame, come volesse vivere
esternamente un conflitto che lo abita, come avesse bisogno della loro
dialettica per risolvere una crisi a cui non sa ancora dare una lingua, una
voce: il letterato compagno del progresso Settembrini, che immagina un
rinascimento umanistico illuminato, razionale, e il gesuita Naphta, il quale ha
in disprezzo il corpo e, si direbbe, la stessa vita sulla terra per un’idea di
vita più alta, totalmente spirituale. In una delle loro infinite discussioni –
discussioni insopportabilmente lunghe alle volte, su cui Mann calca pesantemente
il ragionamento, mostrando un eccesso di intenzione – leggiamo delle pagine che
mettono in evidenza, quasi con le stesse parole, quanto aveva pronunciato nella
conferenza su Goethe e Tolstoj.
> «Il signor Settembrini, disse, l’aveva completamente conquistato con quella
> sua plastica teoria. Perché si poteva dire quello che si voleva… e qualcosa da
> dire c’era, ad esempio che la malattia costituiva una condizione esistenziale
> di ordine superiore e dunque aveva in sé un che di solenne… ma certo è che la
> malattia, disse, enfatizza il corpo in modo eccessivo, per così dire rimanda e
> rinvia l’uomo al suo corpo in tutto e per tutto, tanto da nuocere alla sua
> dignità fino ad annientarla, in quanto, appunto, degrada l’uomo a semplice
> corpo. La malattia è perciò disumana. Naphta ribatté subito che la malattia,
> invece, era sommamente umana; giacché essere uomo significava essere malato.
> L’uomo è, in verità, essenzialmente malato, proprio la sua malattia lo rende
> umano, e chi lo vuole guarire, chi vuole indurlo a fare pace con la natura, a
> ritornare alla natura (quando, invece, mai egli è stato naturale), tutti quei
> fanatici della rigenerazione, quei consumatori di cibi crudi, quei naturisti,
> quei fanatici dei bagni di sole e così via che se ne vanno in giro come
> profeti, tutti quei tipi alla Rousseau ad altro non mirano che a
> disumanizzarlo e abbrutirlo… Umanità? Nobiltà? È lo spirito a distinguere
> l’uomo, questo essere in sommo grado separato dalla natura, il quale sente se
> stesso radicalmente antitetico a tutto il resto della vita organica. Nello
> spirito, nella malattia è riposta la dignità dell’essere umano, la sua
> nobiltà: egli è, in una parola, tanto più uomo quanto più è malato, e il
> genius della malattia è più umano di quello della salute. […] Il signor
> Settembrini ha sempre la parola “progresso” sulle labbra. Come se il
> progresso, ammesso che una cosa del genere esista, non dovesse la sua
> esistenza unicamente alla malattia e cioè: al genio… e in quanto tale altro
> non fosse, appunto, che malattia! Come se i sani di ogni tempo non avessero
> vissuto delle conquiste dalla malattia! Ci sono state persone che
> consapevolmente e volontariamente si sono abbandonate alla malattia e alla
> follia per guadagnare all’umanità conoscenze che divennero preziose per la
> salute dopo esser state acquisite attraverso la follia, e il cui possesso e
> godimento, dopo quell’eroico sacrificio, non è più stato condizionato né dalla
> malattia né dalla follia. È questa la vera morte sulla croce…».
Siamo nell’abisso del romanzo, nel suo conflitto. La malattia come regressione
dell’umano a puro corpo o come sintomo della sua superiorità rispetto a tutti
gli elementi organici? Malattia come regressione allo stato naturale o come
elevazione spirituale? La malattia, in definitiva, come seduzione della morte o
come sorgente di una vita più elevata, fuori dai canoni ordinari (quella vita
ordinata e borghese da cui Castorp – e lo stesso Mann – proviene)? È chiaro che
questo dualismo che nel romanzo si presenta in forma tanto netta, addirittura
personificata nelle figure di Settembrini e Naphta, non troverà,
dialetticamente, cioè filosoficamente, alcuna sintesi, alcuna soluzione
condivisa. Settembrini e Naphta non discutono veramente, piuttosto monologano,
esponendo la loro granitica posizione, la loro specifica filosofia. Questo li
rende tanto insopportabili. Castorp è una spugna, si fa sedurre da entrambi, non
ha un’idea sua propria, somiglia a una pagina bianca ancora da scrivere, è un
uomo che si forma e che per formarsi ha accettato di liberarsi dalla vita
ordinaria che conduceva, di scendere negli abissi della montagna, di riconoscere
dentro di sé questo principio di malattia per cui ancora non è in grado di dire
se si regredisca o ci si elevi. Ma finché ascolterà discutere, finché lui stesso
discuterà di malattia, di natura e di spirito, di vita e di morte in termini
puramente intellettuali, non sarà in grado di conoscere la realtà di quanto egli
stesso sta facendo esperienza – l’istinto alla vita unito all’istinto di morte
–: non entrerà mai nella verità della sua stessa follia.
*
È la quinta parte del romanzo quella in cui Mann fa vivere al suo Hans Castorp
un’esperienza di reale abbandono. Anche se per fargliela vivere sembra metterlo
prima alla prova, quasi facendogli toccare con mano il rischio in cui incorre. È
l’esperienza della morte quella che Castorp, prima di abbandonarsi alla propria
follia, deve conoscere, per questo, nel paragrafo intitolato “Danza macabra”,
sentirà il desiderio di accudire gli ospiti del sanatorio che non hanno più
speranza di vivere. «Ti rivelerò un mio proposito», confessa Hans a suo cugino
Joachim,
> «Qui viviamo porta a porta con gente che muore, con dolori e sofferenze
> strazianti, e non solo ci comportiamo come se la cosa non ci riguardasse
> affatto, ma veniamo protetti e risparmiati proprio per far sì che non entriamo
> in contatto con queste cose e non vediamo nulla […] Ebbene, quel che mi
> propongo per l’avvenire è di occuparmi un po’ di più dei malati gravi e dei
> moribondi che si trovano in sanatorio, mi farà bene…».
Mann crea una sorta di ambiguità. Proprio in quello che chiama il luogo delle
ombre, l’abisso, il regno dei morti, insomma la montagna e il suo sanatorio, la
morte viene celata, nascosta, occultata. Non è un’ambiguità priva di senso. Se i
vivi fossero consapevoli della propria morte imminente non riuscirebbero a
immaginare qualcosa che li tenga in vita, o a credere che quello spazio fuori
dal tempo che li ospita somigli alla vita di “quelli di laggiù”. Ma c’è altro.
Vale, come nel caso degli studi scientifici che Castorp ha compiuto (e proprio
nel paragrafo precedente, intitolato “Ricerche”), lo stesso principio per cui la
vita nasce da una non vita, da quell’abisso che non si è in grado di riconoscere
e di spiegare.
La morte, in sanatorio, è occultata ai vivi affinché essi non vedano cosa li
tiene in vita; li tiene in vita proprio perché è qualcosa di sottratto alla
vista. I vivi restano in vita perché altri, nelle loro stesse condizioni, non
muoiono, ma scompaiono. I morti, nel sanatorio, sono la rimozione stessa di chi
ancora vive. È dentro questa rimozione che Hans ha necessità di scendere; solo
vivendo l’abisso di ciò che è occultato può conoscere la vertigine che gli
spalanca la doppia realtà della malattia. Non è un caso che dopo la “Danza
macabra” quell’esperienza finalmente avvenga nella “Notte di Valpurga”, con
riferimento a una tradizione dell’Europa del Nord nella quale si festeggiava la
Santa Valpurga, protettrice delle streghe e della magia.
Nel romanzo siamo nella sera del martedì grasso, è carnevale, e nel sanatorio si
entra in un’atmosfera di festa e di magia, tanto che Mann cita dei versi
del Faust di Goethe: «Ma pensate che il monte è pazzo di magia/, Oggi, e se un
fuoco fatuo vi indica la via/ Non dovete aver troppe pretese». Quasi che Mann
stesse avvertendo i suoi lettori di uno stravolgimento delle leggi della vita;
che il contesto che sta per raccontare non può seguire le stesse regole a cui
siamo abituati, e a cui sono abituati gli ospiti del sanatorio. Il primo segno
di questo stravolgimento è linguistico. Tra i malati è concesso, per via di
quella festa, per via della magia che stanno vivendo, di darsi del “tu” anziché
del consueto “lei”, quasi che le distanze, in virtù delle maschere che tutti
indossano, possano essere annullate. Annullate, s’intende, ancora con una forma
di occultamento, perché a parlarsi l’un l’altro non sono gli stessi individui
che ogni giorno si incontrano nella sala da pranzo o in quella da gioco, ma
appunto le maschere che ognuno di loro indossa.
È in virtù di quelle maschere che Hans riesce ad avvicinare, dopo sette mesi di
desiderio muto e palpitazioni, la donna che segretamente ama, la russa Clawdia
Chauchat, ospite del sanatorio già per la terza volta e in procinto di tornare
alle terre basse il giorno successivo alla festa. La stessa Clawdia che
annunciava la sua presenza nella sala mensa facendo sbattere la porta
d’ingresso. E non si tratta di un gesto, di un segno di poco conto.
Quell’incuranza era una rottura delle leggi del decoro e del buon comportamento.
Se Castorp odiava sentire sbattere le porte ora è costretto ad ammettere che
quel segno di rottura era una possibilità di liberazione e di abbandono; quasi
che solo accettando quella “crepa” nell’ordinario fosse possibile aprirsi a una
conoscenza più profonda.
Quando la ragazza entra nella sala, in quel mondo carnevalesco capovolto, la
cosa che Castorp nota sono prima di tutto le parti del corpo che il vestito
lascia scoperte:
> «La completa, accentuata e abbacinante nudità delle splendide membra di
> quell’organismo intossicato era un evento che si dimostrava assai più potente
> della trasfigurazione di allora, un’apparizione alla quale non si poteva
> reagire altrimenti che chinando il capo e ripetendo a mezza voce: “Dio
> mio!”».
È ancora il corpo a segnalare la malattia. Ma quell’«organismo intossicato»
questa volta non è una regressione alla materia ma un’apparizione. Il corpo
desiderato mette ora in evidenza l’abisso al quale Castorp è sottomesso.
> «Era pallido come un morto, pallido come allora, quando era giunto imbrattato
> di sangue alla conferenza, rientrando dalla sua solitaria passeggiata».
L’accostamento che Mann fa sullo stato di Castorp non è assolutamente casuale.
Non dice soltanto che Hans è «pallido come un morto», quasi volesse farlo
entrare in relazione con l’«organismo intossicato» di Clawdia, nella sua sfera
abissale, nella sua psiche, ma paragona quello stato a uno vissuto qualche tempo
prima, il giorno in cui, durante una passeggiata, comincia a sputare sangue.
Insomma, il giorno in cui deve ammettere a se stesso di essere anche lui, come
tutti, malato. Ma c’è altro. Il giorno di quella rivelazione, della rivelazione
della propria malattia, entrando con quel pallore di morte nella sala
conferenze, sente parlare per la prima volta il dottor Krokowski. Un’esposizione
pubblica che ha come tema l’amore e la malattia.
> «I due gruppi di forze, la spinta amorosa e gli impulsi a essa ostili – tra i
> quali vanno citati in particolare il pudore e il disgusto – si caratterizzano
> per una straordinaria intensità e passionalità che sopravanza la misura
> borghese consueta, e la lotta tra i due gruppi, condotta negli abissi della
> psiche, impedisce quella recinzione, protezione e incivilimento delle pulsioni
> devianti che conduce all’usuale armonia e alla vita amorosa conforme alla
> norma. Ma questo conflitto tra le forze della castità e quelle dell’amore – di
> questo infatti si tratta – come si conclude? In apparenza con la vittoria
> della castità. Timore, senso della decenza, pudibonda ripugnanza, trepidante
> bisogno di purezza hanno represso l’amore, lo hanno costretto nell’ombra, gli
> hanno permesso tutt’al più di affiorare parzialmente alla coscienza e
> all’atto, ma in una misura di gran lunga inferiore alla sua forza e
> complessità. Se non che questa vittoria della castità è solo apparente, è una
> vittoria di Pirro, perché l’imperio dell’amore non si lascia né imbavagliare
> né strattonare, l’amore represso non è morto, invece, e tenta, anche
> nell’ombra e nel segreto più profondo, di appagarsi, spezza la barriera della
> castità e riappare, seppure in forma mutata e irriconoscibile… E sotto quale
> forma, sotto quale maschera ricompare l’amore represso e inammissibile? […]
> Sotto forma di malattia. Il sintomo della malattia è attività amorosa
> camuffata e la malattia non è altro che amore trasformato».
La stessa Clawdia, ora che finalmente la malattia ha svelato il suo
travestimento, ora che, proprio perché il momento di magia ha calato entrambi in
una vertigine, in uno stato di sogno, la vita e la morte si toccano nell’abisso
della loro psiche, può rimproverare bonariamente Castorp di amare l’ordine più
della libertà. È qui che Castorp comincia a dialogare con l’amata in francese,
in una lingua che non è la sua, che conosce a malapena, ma se riesce a
utilizzarla è perché Mann vuole sottolineare che il contesto, quella festa in
maschera, è in realtà un sogno, che lo stesso Hans riconosce di vivere,
> «Devi sapere che per me è come un sogno stare qui seduto insieme a te… come un
> sogno particolarmente profondo».
Quella lingua a lui sconosciuta ma che pure lo fa esprimere liberamente è un
nuovo occultamento della verità, una nuova maschera; una maschera però che ha la
specifica funzione di farlo abbandonare:
> «Oh, l’amore non è niente se non è follia, se non è una cosa insensata,
> proibita, un’avventura del male […] Il corpo, l’amore, la morte, son tre cose
> che ne fanno una sola. Poiché il corpo, il corpo è malattia e voluttà, ed è
> lui che fa la morte, sì, sono entrambi carnali, l’amore e la morte, ed è
> questo il loro spavento e la loro grande magia! Ma la morte, capisci, è da un
> lato una faccenda malfamata e impudente che fa arrossire di vergogna;
> dall’altro, però, è una potenza quanto mai maestosa… assai più elevata della
> vita che se la ride guadagnando quattrini e riempendosi la pancia… assai più
> venerabile del progresso che da un tempo all’altro non fa che blaterare…
> perché la morte è la storia e la nobiltà e la pietà e l’eternità e il sacro
> che ci fa togliere il cappello e camminare in punta dei piedi… E comunque il
> corpo, anch’esso, e l’amore del corpo sono una cosa indecente e incresciosa, e
> il corpo sulla sua superficie arrossisce e impallidisce per imbarazzo e
> vergogna di se stesso. Ma al contempo è una gloria immensa, degna di essere
> adorata, immagine miracolosa della vita organica, sacra magnificenza della
> forma e della bellezza, e l’amore per lui, per il corpo umano, è altresì una
> inclinazione estremamente umanitaria e una potenza più capace di educare di
> tutta la pedagogia della terra!… Oh, incantevole bellezza organica che non è
> fatta né di pietra né di colori a olio, bensì di materia vivente e
> corruttibile, colma del segreto febbrile della vita e della decomposizione!».
C’è qualcosa che valga davvero di più, nella vita, dell’amare? Del perdersi,
sprofondare, vivere pienamente per quel sentimento sorgivo a cui non sappiamo
trovare un ordine concettuale che lo spieghi definitivamente? È come se Castorp,
con la lingua sconosciuta con la quale si esprime, con una lingua impossibile
perché non la conosce se non dentro lo spazio di un sogno, o di una visione,
volesse abbracciare la totalità della vita, accoglierne l’estasi e la ferita, la
felicità e la disperazione.
Castorp è talmente dentro l’abisso di sé, talmente dentro la sua malattia, da
non essere più nemmeno se stesso, o è totalmente se stesso proprio perché non sa
chi è, quale lingua parli, come fosse nato di nuovo in un corpo suo e altro,
come se l’altro corpo, la psiche di Clawdia, gli avesse dato un’altra vita, o la
sola vita che valesse la pena conoscere, in cui tutto è chiaro e oscuro al
contempo, tutto è vita e morte in un solo flusso, in una sola immagine. Castorp
è dentro la propria psiche e dentro quella di Clawdia, dentro la sua malattia e
dentro la malattia di lei. È un essere umano di carne e di spirito; un essere
umano che ora conosce tutto il male e tutto il bene. E, proprio perché malato,
proprio perché se stesso e altro da sé, è vivo e morto contemporaneamente.
Non deve stupire che Castorp, innamorandosi, anzi, esprimendo il suo amore,
somigli a una sorta di dio greco, un novello Dioniso. Del resto la cultura
pagana della classicità, tra Otto e Novecento, e proprio nel mondo germanofono,
era vissuta come un modello di interpretazione del presente. Si pensi alla
filosofia del Nietzsche nella Nascita della tragedia, o agli studi di Rodhe
sull’idea di aldilà nella Grecia antica, o a scrittori e poeti come Hofmannsthal
e Rilke, e ancora, ovviamente, alla psicanalisi di Freud. Il punto è che gli dèi
sono pur sempre archetipi con cui l’essere umano spiega o rappresenta le proprie
contraddizioni, le forze contrastanti che in lui agiscono. Mann aveva
interiorizzato la lezione di Nietzsche. Sapeva che nell’uomo convivono Apollineo
e Dionisiaco, che nell’uomo coabitano furia e ragione, buio e luce, istinto alla
vita e desiderio di morte, ed è per questo che nessuna vita è mai soddisfatta di
quello che ha; in ogni vita manca sempre qualcosa – si direbbe risieda in essa
un vuoto che non si colma, che non può colmarsi, e non c’è scelta, o cambiamento
che possa realmente risolvere questo errore d’esistenza, questo inciampo del
destino, e non c’è essere umano che non arrivi, nel mezzo della vita, a
osservare quella voragine, a calarsi dentro quel buio che lo riguarda, perdendo
l’orientamento e ogni punto di riferimento, perché in ognuno di noi convive una
molteplicità in conflitto, un io con cui ci sembra di essere più a nostro agio –
malgrado ci sfugga continuamente la ragione per cui ne proviamo anche paura, a
volte orrore – e un altro che tiene in piedi l’esistenza. Certo questo conflitto
ci destina a un inevitabile sentimento di solitudine. Ma è un sentimento da cui
nessuno riesce mai a fuggire, che a volte crea incomprensioni, distanze,
lacerazioni.
L’amore di Castorp per Clawdia non è un amore irrisolto, nel senso che non può
consumarsi, è piuttosto un amore impossibile, cioè vissuto totalmente dentro una
“crepa”, dentro il buio della malattia; un amore vero proprio nella sua
impossibilità, che si maschera perché la luce della conoscenza e della ragione
lo annienterebbero, come nel mito di Amore e Psiche, caduti nella tragedia per
violazione di un segreto, di un mistero che, svelandosi, ha perduto ogni potere
numinoso, trasformando un legame sacro in un sacrilegio, perché le cose divine
si rivelano restando taciute. Ma, dice il mito, è necessario perdersi, essere
disposti addirittura al sacrificio di sé affinché quell’amore sia sacro; sacro
proprio in virtù della sua natura di perdizione, di oscurità, di follia, di
morte.
Castorp alla distanza e alla separazione è destinato, perché Clawdia si
allontanerà dal sanatorio il giorno successivo a quel momento di follia divina.
Ma è come se quella maschera, quella lingua sconosciuta con cui Hans ha
pronunciato l’impronunciabile, gli avesse appunto dato modo di aprire una
finestra sul buio che lo abita, per questa ragione è pronto, ora, e proprio in
virtù dell’assenza dell’amata, a perdersi, finanche a morire. Lo testimonia quel
paragrafo cruciale nel sesto capitolo intitolato “Neve”, dove Hans compie un
gesto di insensatezza, ancora di follia, facendo in solitudine una gita in
montagna con gli sci. Ma presto un vento contrario mozza il respiro, la nebbia
cala sulla parete della montagna addensandosi tra gli alberi, non si distingue
più quale sia l’alto o il basso, la destra e la sinistra, e anche il tempo pare
si sia dilatato enormemente, pochi minuti sono un’eternità; sembra Hans stia
percorrendo davvero il regno dei morti o uno spazio di sogno, riconosce quanto
la natura sia terribile e nella sua autonomia totalmente priva di cortesia per
l’essere umano. I punti di orientamento si perdono mentre una tormenta di neve
lo sorprende. Si rifugia sotto la tettoia di una casa dentro cui non abita
nessuno, attaccato con la schiena alle pareti esterne della baita disabitata per
provare a difendersi da quella pioggia bianca che lo stordisce. L’inferno non è
caldo, è invece gelido. Castorp sta per morire, forse è morto davvero, come
Psiche quando scende tra i morti, quando solo nella morte trova una possibilità
di mettere termine al tormento che la devasta, esclusivamente nella morte
immagina di ritrovare la sola vita a cui attribuisce un senso, quella
dell’amore. Castorp si addormenta – sogna. Ora è in un luogo pieno di luce,
mediterraneo, tutto gli sembra meraviglioso, vede ragazzi giocare, una madre
allattare suo figlio, giovani donne danzare e suonare, e percepisce di essere un
estraneo in quel contesto, perché è tornato lì dove non era mai stato prima,
alle origini della civiltà. Ma l’atmosfera cambia improvvisamente. Quel mondo di
luce nasconde le sue brutalità. Arriva in un tempio, vi entra gonfio di
spavento, e si accorge che due donne dall’aspetto di streghe stanno compiendo un
sacrificio, dilaniano con le loro stesse mani il corpo di un bambino. Si sta
compiendo un vero e proprio rito. E il rito non è che un modo per accedere al
mistero del mondo, per evocarlo ed esserne partecipi, per rivelarlo continuando
a tacerlo.
Quando rinviene, Hans capisce che attraverso di lui l’anima del mondo sogna la
sua bellezza e la sua terribile oscenità, che proprio perdendosi è entrato in
contatto con lo spirito originario di tutte le cose, e che nel profondo della
propria crepa il bene e il male convivono, così come la pace e il sangue, che
l’istinto alla vita di ogni essere umano maschera qualcosa di delittuoso, la
terribile oscenità della morte. Eppure non è alla morte che l’essere umano
tende, pure partecipando, nel fondo di se stesso, alla sua oscenità. L’uomo,
pensa Castorp, è alla vita che dona il suo maggiore interesse, opponendo tutto
se stesso per respingere quel desiderio luttuoso che pure lo abita. Un desiderio
che però deve attraversare per sentire quanto il dominio dell’amore sia quella
forza capace di attraversare ogni rischio, capace di mettere in pericolo ogni
sostanza vitale. È in questo paradosso la “magia” del romanzo di Mann, che
scrive, ed è significativamente la sola frase interamente in corsivo di tutto il
libro, «In nome della bontà e dell’amore, l’uomo non deve concedere alla morte
il dominio dei suoi pensieri». Una frase che fa eco alla domanda con cui si
conclude il romanzo,
> «Forse che da questa sagra mondiale della morte, da questa voluttà smaniosa e
> maligna che incendia tutt’intorno il piovoso cielo della sera, potrà un giorno
> innalzarsi l’amore?».
Quando Hans Castorp, dopo sette lunghi anni, lascerà il sanatorio e la montagna
che lo ha accolto, che lo ha rivelato a se stesso, il mondo di “quelli di
laggiù” lo travolge vestendolo da soldato, perché nel frattempo è scoppiata la
grande guerra. Non sapremo, da questo momento, più nulla di Castorp, lo vedremo
appena avanzare in battaglia, una granata gli esplode davanti ma non lo uccide;
si rialza e continua a camminare, mentre assurdamente canta il Der Lindenbaum di
Schubert. I versi citati da Mann sono questi: «Nella corteccia incidevo/ tante
parole dolci […] E i suoi rami mormoravano/ come per dirmi…». Mann allude,
lascia in sospeso ciò che la composizione di Schubert esprime. C’è un tiglio
alla fonte dove chi scrive faceva «sogni d’oro». Quel tiglio, quella fonte, non
sono che il luogo dell’origine, quello da cui la morte ci allontana. «Il vento
freddo/ mi soffiava in faccia», dice la canzone, «mi volò il cappello dalla
testa;/ non mi voltai./ Ora, varie ore di cammino/ mi separano; e ancora lo
sento mormorare:/ là troverai la pace».
Hans Castorp, questo «riottoso figlio della vita», come lo aveva soprannominato
Settembrini, capisce, andando incontro alla malattia del mondo, alla follia
degli uomini che hanno lasciato che il dominio della morte prendesse il
sopravvento, che la vita è il tormento di questa distanza che ci separa dai
nostri «sogni d’oro», lì dove sarebbe possibile trovare «pace», dove si nasconde
il segreto di ciò che siamo, e che quello che non possiamo dire, il mistero
divino che si rivela tacendo, lo possiamo però cantare.
Andrea Caterini
*L’edizione consultata per la scrittura di questo saggio è: Thomas Mann, La
montagna magica, cura e introduzione di Luca Crescenzi, traduzione di Renata
Colorni, Mondadori, I Meridiani, 2011.
L'articolo “Siamo esseri del profondo abisso”. Saggio sulla “Montagna magica” di
Thomas Mann proviene da Pangea.