Scuola di poesia. Su una memorabile antologia di Ted Hughes e Seamus Heaney

Pangea - Monday, September 29, 2025

Benché abbia in sé, negli avvallamenti etimologici, qualcosa di irenico, di edenico, di maliziosamente leggiadro, la parola antologia ha a che fare con il rischio, l’azzardo, l’assurdo, quando non il pericolo. È vero, antologia significa ‘raccolta di fiori’: la mente va ai quadri della fratellanza preraffaellita – Waterhouse per dire –, di donne fatali infestate di boccioli, e al loro maestro, Botticelli. La raccolta dei fiori si realizza secondo un metodo antologico: non è possibile raccogliere i fiori più belli in assoluto, ma anche quelli che ci vengono offerti dal caso, quelli che il singolare capriccio del raccoglitore ritiene belli. I fiori si preparano per la festa – o perché quel giorno, senza che vi sia un qualche motivo, sia per noi giorno di festa. I fiori sono un dono – il loro dramma: sparire in poco tempo. I fiori insegnano che la festa è transitoria. Diversamente, l’erbario serba ciò che altrimenti è destino svanisca. L’erbario – arte in cui eccelleva Emily Dickinson, tra le poetesse più antologizzate di ogni tempo – cristallizza la festa, la fa museo, mausoleo. 

La nostra storia è costellata da antologie: dalla “Corona” di Meleagro alla “Palatina” compilata a Bisanzio; dalla “Raccolta Aragonese” voluta da Lorenzo il Magnifico all’antologia dei “Poeti futuristi” ideata da Marinetti al Man’yōshū, la “raccolta di diecimila foglie” approntata nell’VIII secolo in Giappone, l’antologia non raccoglie le poesie più belle ma quelle necessarie. Un’antologia, comunque, promuove una visione del mondo – è, cioè, un atto di lotta, una dichiarazione di intenti e, a volte, di guerra, più che un invito a nozze. Più spesso, un’antologia è compilata quando la casa brucia, quando occorre, in fuga, alle strettoie del pericolo, raccogliere soltanto gli oggetti più cari, i più cari affetti. Un’antologia è, allora, una zattera: è il minimo indispensabile per restare vivi. C’è, allora – prima ancora della festa e dell’assalto all’arma bianca – qualcosa del sopravvivere nell’antologia. Altro che fiori… l’antologia è il pane spezzato, il pane condiviso. È quell’ultimo, sopravvissuto libro grazie al quale riusciremo, dopo il disastro, a fondare una civiltà, a ricostruire il verbo. Proprio come una zattera, l’antologia ci porta altrove, in un luogo diverso da quello in cui è stata pensata. 

L’antologia non è un fiore: è un seme. Piantata in terra di squilibrio, se è buona, se è ben fatta, sboccerà nel futuro. In un futuro da cui tutti i protagonisti – poeti antologizzati e antologizzatori – sono esclusi. L’antologia esiste per chi verrà: agli eredi, alla nuova specie, il compito di fare il fuoco, di erigere torri o di creare teatri. 

Intorno a questi criteri – emergenza, allarme, ‘poesia come vita’ –, nel 1997, Ted Hughes e Seamus Heaney costruiscono per la Faber The School Bag, un’antologia – fin nel titolo – rivolta agli studenti – ergo: al futuro –, è vero, ma che pertiene anche a una rivolta interiore, per così dire. The School Bag mira, cioè, per spavalderia, a essere l’unico libro dello studente: che con il suo zaino, per principio di avventatezza, cominci ad esplorare il mondo, a perimetrarne lo splendore. Nell’introduzione, Heaney parla dell’antologia come di una “school of poetry” che assembla i versi dei contemporanei insieme ai “canti dei bardi”; una specie di “compendio di grandi esempi”. C’è qualcosa di epico nel dire di Heaney. L’antologia non è semplicemente un libro ‘di lettura’: è un addestramento. A cosa addestra la poesia? A conferire destrezza a ogni proprio gesto: senza un corpo ben raffinato, ‘marziale’, la voce non esce limpida, esatta – la poesia è prima di tutto ritmo, musica, voce. E poi, è palestra spirituale – la poesia non dice soltanto, non è soltanto musica, ‘significa’.

Heaney e Hughes hanno deciso di rappresentare ogni poeta con una poesia soltanto. “Le nostre scelte saranno oggetto di discussione: un ulteriore contributo al libro, alla formazione del lettore. Dopo tutto, quella che William Butler Yeats ha chiamato una volta singing school, è composta da tutti coloro che danno valore alla poesia e vogliono custodirla perché dà un senso alla nostra vita”.

In appendice, Ted Hughes firma un testo in cui spiega l’importanza di imparare a memoria le poesie. Lo leggete in calce all’articolo. Hughes si ribella all’apprendimento mnemonico in uso nelle scuole – un apprendimento, dice, che riguarda il cieco obbedire a un ordine imposto – riferendosi all’antica pratica medioevale. A un imparare, cioè, secondo l’uso di immagini, assecondando la propria creatività. Finché la poesia non diventa parte del nostro essere, carne&sangue. E possiamo fare a meno dei libri, diabolico supporto…

Ostinato sciamano dall’esistenza sciamannata, Ted Hughes – forse il più estremo tra i poeti del secondo Novecento, il più lucidamente ‘druido’ –, all’epoca era Poet Laureate del regno, sarebbe morto poco dopo, sessantottenne, nell’ottobre del 1998, poco dopo aver pubblicato la sua più nota – ma non la più bella – raccolta, Birthday Letters, in memoria della moglie, Sylvia Plath. Seamus Heaney, più giovane di Hughes – e per certi versi un suo ‘allievo’ – era stato proclamato Nobel per la letteratura nel ’95; l’ultima edizione di The School Bag esce vent’anni fa. 

Antologia tra le più autorevoli e al contempo spiazzanti mai realizzate in area anglofona – merito dei due ‘mostruosi’ antologizzatori – The School Bag attacca con una formidabile poesia di Yeats (il sapiente assoluto), Long-legged Fly:

“Perché la civiltà non sprofondi,
Perduta la grande battaglia,
Acquieta il cane, lega il puledro
A un palo lontano;
Il nostro grande Cesare è nella tenda
Dove le carte sono spiegate,
Gli occhi fissi nel vuoto,
Una mano sotto il mento.
Come un insetto dalle lunghe zampe sopra il fiume
La sua mente muove sul silenzio”.

L’ultima poesia, di John Dryden, da The Secular Masque, non chiude le danze, ma le rinnova – una antologia è autentica, in effetti, quando, rotti i sigilli, continua a vivere e a vibrare: soltanto i brutti libri restano supini nella stalla della libreria, al giogo del padrone. Fa così:

“Tutto, dopo tutto, non è stato che questo:
la tua caccia mirava alla grande belva
le tue guerre non hanno portato nulla
gli amori si sono rivelati fasulli:
è tempo di ricominciare tutto, ancora, ancora.
Danze di cacciatori, ninfe, guerrieri e amanti)”

Nel mezzo, insieme a poeti ben installati nel canone – Coleridge, Wordsworth, Shakespeare, Shelley, Keats, Blake, Whitman… –, una sfilza di ballate gaeliche e di bardi d’Irlanda, tante misconosciute donne (Emilia Lanier, ad esempio, nobildonna veneziana, cresciuta alla corte di Elisabetta I; Carolina Oliphant; l’australiana Eve Langley e la micidiale Laura Riding, tra le altre), tantissimi poeti ‘difficili’ (Elizabeth Bishop e Gerard Manley Hopkins, Basil Bunting e Robert Penn Warren, Hart Crane, Hugh MacDiarmid, George Barker…), a dilatare il canone in esiti fino ad allora inusitati, a fare della scuola, davvero, uno spazio ‘esplosivo’ di esplorazione dell’io, di indagine all’erta. C’è Allen Ginsberg, padre dei beat, come John Crowe Ransom paladino dei sudisti americani, dei nuovi conservatori. Di Ezra Pound è antologizzato il primo dei Cantos, di T.S. Eliot The Hollow Men, di Dylan Thomas Fern Hill. Naturalmente, non mancano Auden e Frost, Lewis Carroll e D.H. Lawrence, Robert Graves e Rudyard Kipling, Oscar Wilde e Philip Larkin. C’è una mirabile poesia di David Gascoyne, The Cubical Domes, con alcuni bellissimi versi:

“Ma la luce delle stelle è attratta dai fiori trasparenti
e alla fine gli uomini e le bestie, gli argani 
e gli elmi e le mesmerizzate suore la dimenticano
perché i confini del mio regno sono sconosciuti”. 

Quando l’ha scritta, Gascoyne aveva trent’anni, Hughes ne aveva sei e Heaney non era ancora nato. Si parla, in quella poesia, anche di “flotte di marinai cristiani/ i cui cuori ardono nella neve”. 

C’è anche Robinson Jeffers, un poeta che amo molto: nella poesia antologizzata – Fawn’s Foster-mother, la tradurrò, un giorno – si dice di una donna che allatta un cerbiatto, “mio marito l’ha trovato nascosto in un bosco di felci/ gli misi il muso al seno/ piuttosto che farlo morire/ avevo latte a sufficienza per tre bambini”. 

Che bello andare a scuola così – anzi, fare della poesia la propria scuola di vita. 

***

Imparare le poesie a memoria

Ci sono molti buoni motivi per imparare una poesia a memoria. Memorizzare dovrebbe essere un gioco. Un piacere. Per chi di noi ha bisogno di aiuto (in sostanza: tutti), il metodo più comune usato nelle scuole è l’apprendimento mnemonico. Ma questa è soltanto una tra le numerose tecniche di memorizzazione. Per la maggior parte delle persone, è la meno efficace. La noia che ci avvinghia nell’imparare a memoria un testo è stata considerata a lungo una variabile positiva nelle aule inglesi: disciplinava e forgiava il carattere. Il costo tuttavia è elevato: può creare un’avversione radicale per la poesia. 

Chi non ama imparare pedissequamente a memoria, ma desidera acquisire i numerosi poteri che derivano dalla sua conoscenza, può scegliere tra diverse altre tecniche, meno faticose, più produttive e divertenti. Queste tecniche sfruttano le strategie naturali che il cervello adotta per ricordare qualcosa. Di recente, ho sentito un tecnico del suono, a teatro, che chiedeva a un altro cosa significassero le lettere CSB che ricorrevano nella scaletta di uno show. Gli fu detto che CSB era il nome dell’attore principale. Poiché il tecnico interpellato non riusciva a ricordare il suo nome, gli aveva affibbiato un nomignolo, Capelli Spumeggianti come Birra.

Questo è il genere di cose che capita a tutti senza che ce ne accorgiamo. Perché il tecnico non riusciva proprio a ricordarsi il nome dell’attore mentre pensare alla sua testa piena di “Capelli Spumeggianti come Birra” lo rendeva indimenticabile? Semplice. Una delle tecniche spontanee del cervello per fissare qualcosa nella memoria cosciente è collegarla a un’immagine visiva. Più assurda, esagerata e grottesca è l’immagine, più indimenticabile è la cosa a cui è collegata. 

Questa tecnica è superba nel ricordare le liste. Di solito, se ogni immagine viene “fotografata” mentalmente, come su uno schermo, non la dimenticheremo facilmente. E ogni immagine richiama la successiva, ad essa collegata, e poi via, di seguito. Così, da un leone si passa al pollaio e dal pollaio al pettine. È importante che ogni immagine abbia dei legami, per quanto paradossali, con la seguente. Questa è la tecnica che usa anche chi deve imparare una poesia a memoria per professione. 

Alcuni potrebbero avere qualche difficoltà nello sbrigliare l’immaginazione. Ci vuole pratica. Il libero sfogo di una immaginazione propensa al gioco, aiuta il cervello a liberarsi di ogni giogo. Alcuni potrebbero essere riluttanti a incardinare le sacre parole di una poesia in un arbitrario e ‘volgare’ accompagnamento dell’immaginazione. Il punto è far entrare la poesia, con ogni mezzo, lecito o illecito, nella propria testa. Dopo un po’, saranno le parole stesse della poesia a stagliarsi in noi: le immagini – il film che ci siamo costruiti – svanirà da sé.

Ciò che è essenziale, comunque, è mantenere una facoltà uditiva aperta. Le parole vanno ‘guardate’, ma soprattutto ascoltate – ascoltandone il suono più profondo, saggiando ogni sussurro nell’aria, valutando come quei versi risuonano nel nostro corpo, proprio il nostro, mentre ci impegniamo a costruire per loro un maniero di immagini. 

Tecniche mnemoniche di questo tipo, che utilizzano la visualizzazione, sono state inventate nel mondo antico, sono state la base dell’apprendimento nel Medioevo cristiano, quando i libri erano rari. Furono considerate essenziali e ulteriormente sviluppate da alcuni giganti del sapere come Tommaso d’Aquino, che pronunciò questa indimenticabile affermazione: “L’uomo non può comprendere senza immaginare”. 

In Inghilterra, l’ascesa puritana/protestante in seguito alla Guerra Civile, nel XVII secolo, ha scardinato le immagini da ogni aspetto della vita comune, distruggendo metodicamente le icone religiose dalle chiese, proibendo quel gioco dell’immaginario che è il teatro. Uno spirito analogo ha bandito dalle scuole le antiche tecniche di memorizzazione che usavano le immagini, sostituendole d’ufficio con l’apprendimento meccanico. I metodi precedenti, associati al paganesimo e al cattolicesimo, furono presto dimenticati. Quando si è tentato di reintrodurli, li hanno bollati come “trucchi” o “sortilegi”, quando non “illusioni”. Così, “imparare a memoria” è diventata la norma. 

Ted Hughes

*In copertina: Ted Hughes e Sylvia Plath

L'articolo Scuola di poesia. Su una memorabile antologia di Ted Hughes e Seamus Heaney proviene da Pangea.