Qualche tempo fa, nell’ormai leggendaria Libreria Scaldasole di Milano, ho
comprato L’antologia dei poeti italiani dell’ultimo secolo. Pubblicata da Aldo
Martello nel 1963 è un repertorio impressionante: quasi mille e quattrocento
pagine per 152 poeti antologizzati; il più giovane è Roberto Sanesi, nato nel
1930. L’idea critica che la galvanizza è enciclopedica: s’intendono radunare i
massimi poeti del secolo, al di là delle “scuole” e delle “etichette”
(crepuscolari e decadenti, futuristi e neorelisti, sperimentalisti ed
ermetici).
Il progetto – un ‘mostruoso’ gesto di devozione – parte da Carducci, ritenuto
“il primo iniziatore della poesia che verrà dopo”. Così, bene incapsulati in
efficaci cammei biografici, ci sono già tutti i poeti che ci attendiamo, pur in
bocciolo: Mario Luzi e Andrea Zanzotto, Pier Paolo Pasolini (“è poeta autentico
laddove l’elemento ideologico-storico è dominato, e liberato da una concreta,
corposa visione lirica”) e Giorgio Caproni, Vittorio Sereni (su cui si
scommette, scrivendo che reca “accenti capaci di significare una nuova realtà
della poesia italiana, dopo la stagione di Montale”) e Attilio Bertolucci. Per
elogiare Margherita Guidacci si usano planimetrie critiche che oggi faticheremmo
ad accettare (quando si dice di “Una poesia che ha un’apertura morale, una
chiarezza intima, una presa umana da non confondersi con altre poesie di donne,
bruciate dall’effimero. E magari da una femminile vanità”: attributi
– effimero, vanità – rintracciabili, invero, in molta poesia ‘maschile’); le
donne hanno una qualche concreta rappresentanza: non ricordavo Biagia Marniti,
poetessa apprezzata da Ungaretti (“Vi invidio farfalle/ in danze acrobate e
festose/ sulle siepi, su sassi in bilico/ presso margherite gialle/ e camomille
in fiore”); ci sono, naturalmente, Sibilla Aleramo (detta “di natura
indipendente”…) e Vittoria Aganoor Pompilj, Luisa Giaconi e Ada Negri; c’è la
“isolatissima” poesia di Maria Barbara Tosatti (“ben poco pubblicò durante la
sua vita, nonostante gl’incitamenti di molti amici”), manca, tra le altre,
quella di Amalia Guglielminetti.
L’antologia non sposta l’asse delle nostre certezze: Giovanni Pascoli è il vero
poeta-titano del Novecento; Gabriele D’Annunzio l’euforico pioniere del
linguaggio, l’autentico Apollo. Tra le moltissime poesie del ‘Vate’
preferisco Il cervo, con quell’attacco all’assalto:
> Non odi cupi bràmiti interrotti
> di là del Serchio? Il cervo d’unghia nera
> si sépara dal branco delle femmine
> e si rinselva. Dormirà fra breve
> nel letto verde, entro la macchia folta,
> soffiando dalle crespe froge il fiato
> violento che di mentastro odora.
Dietro ai due seguono, con diversa foga, gli altri – Giuseppe Ungaretti e
Eugenio Montale su tutti.
Mi sorprende la presenza di Lorenzo Calogero: segno che se ne parlava molto,
all’epoca, prima di perderlo tra le brume dell’inedia e dell’invidia – era morto
due anni prima della pubblicazione dell’antologia; nel 1962, per Lerici,
Giuseppe Tedeschi aveva curato il primo volume delle Opere poetiche. Si dice di
un’“esistenza assai disgraziata, tra ossessioni e tentativi di suicidio”, di un
“temperamento ondeggiante e scontroso” e di “una sua confusa e allucinata
poetica”. Non sono ancora buoni i tempi per comprendere appieno l’eccentricità
di Calogero – esistenziale, dunque lirica –, l’assoluto eroe di un canone
‘avverso’ della poesia italiana. Comunque, Calogero c’è.
C’è anche Bartolo Cattafi, assai dimenticato in repertori antologici analoghi;
memorabile l’agiografica biografia che lo centra (e che c’entra, forse, con la
concretezza dell’amicizia):
> “Laureato in giurisprudenza, mai è stato in uno studio d’avvocato. Vive a
> Milano, lavorando presso un’industria; e di sera s’occupa di poesia e di
> letteratura; vivendo però nel giro di pochi amici, e non intruppandosi nelle
> varie ‘gang’ letterarie. Certo è che la poesia di Cattafi vive fuori da ogni
> schema; ed è la sua fortuna”.
Di Dino Campana – molto ben antologizzato – non si comprende la dionisiaca
centralità nel nostro canone (proprio per la sua sfasatura, per il suo sbandare
da belva del linguaggio): sarebbe troppo; resta il poeta stretto “tra tradizione
e rivoluzione”. È chiaro, invece – oggi lo è meno – il ruolo ‘profetico’ e
miliare – “per il suo tono di mistica solitudine” – di Clemente Rebora.
L’assenza di Giovanni Boine è per me un mistero: preso, forse, per prosatore, il
suo artigianato lirico, all’arma bianca, è ancora per lo più incompreso.
In un’antologia che ha nella quantità il proprio genio, il gioco è quello di
scovare i dimenticati, che testimoniano, in fondo, i molti sentieri interrotti
della nostra poesia. Tra i tanti, ricordo Guglielmo Petroni – farà fortuna come
romanziere, vincendo uno Strega nel ’74 con La morte del fiume, superando
Achille Campanile che si presentava con una raccolta di racconti dal titolo
folgorante, Gli asparagi e l’immortalità dell’anima. Non mi dispiace la
sua Autobiografia in pezzi:
I
Ho il fiuto del cane randagio,
ho il volto deserto,
ho il disagio di essere nato,
di rimanere impalato
dinnanzi a questa antica
necessità di amore, di pietà.
Ma un lutto non è necessario;
la vita stessa è l’ossario
di tutte le illusioni.
II
………………………………..
………………………………..
Placida sera senza riposo
tra poco sarà notte:
c’è tanta luce che se ne va.
Sono ricco di sangue,
carico di umano tempo:
parola mia stasera
agirò senza pietà.
È vero: tanti dimenticati è giusto dimenticarli; fatto salvo un misericordioso
lavoro da filologi, le poesie di Adriano Grande e di Carlo Saggio, di Vincenzo
Guarnaccia e di Renzo Laurano, di Enrico Somarè e di Mario Venditti e di Lino
Curci (almeno, quelle antologizzate) sono insalvabili se non come ‘specchio dei
tempi’. Alle poesie di Alberto Mondadori – figlio di Arnoldo, creò la casa
editrice il Saggiatore – vanno preferite quelle di Umberto Bellintani, di cui si
accoglie un inedito, Usignoli:
“Erano tanti usignoli le stelle della notte:
tutto pieno il firmamento e gorgheggiavano.
E allora sentivo che non potevo più dormire,
e non potevo più restare ad ascoltare
tant’era pieno il firmamento d’usignoli.
Udirlo a lungo un dolce canto non si può
allor che tutto ci contiene l’universo
senza pericolo di cadere a un tratto folli.
Per ciò, mio spirito, tappati le orecchie, cerca di non udire,
se ancora il cielo è tutto pieno d’usignoli.
Per ciò, mio spirito, ribendati gli occhi,
se ancora innumeri gorgheggiano lassù
nel firmamento i vivi stormi delle stelle”.
Non mi sarebbe spiaciuto conoscere Enzo Fabiani, poeta singolare e singolarmente
dimenticato. Classe 1924, nato a Fucecchio, lavorò come giornalista nella
redazione di “Gente”; Salvatore Quasimodo lo aveva aiutato ad acclimatarsi nel
mondo milanese. È persuasiva la marcia del suo poemetto, Masaccio:
> “Il giorno dell’ira? Un fiore chiuso
> dinanzi a soli furibondi
> sarò io che mi compiango. Nessuno
> mi colpirà nella radice; questo
> infocato sangue altro sangue
> non comprende;
> non offendo il mio martirio”.
Morì nel 2013; sulla pagina milanese del “Corriere della sera” Patrizia Valduga
– la cui poesia mi dice quasi nulla – scrisse perfettamente, “muore Jannacci e i
giornali scrivono «È morto un poeta», muore Califano e i giornali scrivono «È
morto un poeta». Muore un poeta e i giornali non scrivono neanche una riga. È
proprio così: il 22 marzo è morto Enzo Fabiani, che era nato a Fucecchio nel
1924 e viveva a Milano da poco dopo la guerra. Ho aspettato, ho aspettato ma non
è comparso niente da nessuna parte. Non gli saranno intitolate né vie, né
parchi, né giardini, né aiuole, né cortili, né crocicchi…”.
Forse è giusto così, è giusto che un poeta muoia latitante a tutti, ai lati del
proprio tempo. Nessuno fa chilometri di coda per omaggiare il feretro del poeta:
tra tutti gli ‘artisti’ il poeta – l’artista quintessenziale – vive da isolato.
È questo a permettergli di essere al contempo celeste e terreno, pronto ad
ascoltare i dolori di tutti – e a precederli –, col suo corpo d’aquila, in
picchiata nel cuore del mondo. Del suo dire diceva così Fabiani: “i miei
‘spiritati’ possono sembrare arditi, ma sono mendicanti ossessionati dal
ricordo, più che dalla presenza di Dio. Di me direi piuttosto che, pur essendo
uno smarrito e infelice tra i ‘raggi di tenebra’ della vita non oso non
credere”.
Se ho comprato L’antologia dei poeti italiani dell’ultimo secolo, comunque, non
è per feticismo né per rasserenare con biada di fiori lirici il mio cuore
brutale cresciuto in cattività. Apprensione. Curiosità. Gioco della torre. Ecco.
Ho da poco curato, insieme a Milo De Angelis e a Nicola Crocetti, un’antologia
che ha altre mire: consegnare, in cinquecento pagine, un repertorio “della
poesia italiana dalle origini ai giorni nostri” (si arriva fino ai poeti nati un
secolo fa). L’idea, insomma, è quella del libro della vita – un libro-zattera,
però, un libro-canoa, non uno di quei libri che fanno sfoggio nei salotti
altoborghesi; un libro reduce dall’annuncio e dal diluvio. È un libro, cioè, che
parte dal principio di un mondo massacrato, di fondamenta sfondate, di umani
allo sbando (dunque: ebbri di nuove scoperte). Un mondo è finito, la casa
brucia: dobbiamo raccogliere le cose strettamente necessarie – per costruire,
altrove, un’altra casa. Da qui, le scelte – nottambule, quando non sonnambuliche
– e l’impeto.
Certo, alcune cose, col senno di poi, mi sorprendono. Non ho inserito David
Maria Turoldo e Fernanda Romagnoli, poeti su cui ho scritto tanto, da tanto
tempo (fin da un libro, Maledetti italiani, edito dal Saggiatore nel 2007),
perché? Al loro posto ci sono i misconosciuti Egle Marini e Gian Giacomo Menon;
e poi Scipione e Sergio Solmi e Maria Alinda Bonacci Brunamonti che ha scritto
una formidabile poesia, Stelle nere, sui “soli spenti” che si muovono “nella
invisibilità della notte infinita”; attacca così: “Non tutto è gioia nella festa
eterna/ de’ costellati campi:/ astri vi sono, alla cui fronte squallida/ manca
il diadema de’ fulminei lampi…”. Un’antologia, credo, dev’essere retta, oltre
che da un’idea critica (avventuriera, però, più che accademica), da una visione
escatologica: perché una vita si apra, qualcosa deve morire. Licenziarsi a se
stessi. Un’antologia dirada perché ha saputo chiudere. Dico dell’esercizio
antologico come una corsa, un andare da ossessi: la provvidenza è impaziente.
L’antologia dei poeti italiani dell’ultimo secolo – di fatto, il primo grande
monumento al Novecento, il secolo grave, da cui occorre sgravarsi – è curata da
Giovanni Titta Rosa e da Giuseppe Ravegnani. Quest’ultimo nacque a San
Patrignano, nei colli di Coriano, in Romagna; poco lontano da dove abito.
Traduttore – tra l’altro, di Julien Green e di André Malraux – incidentalmente
poeta – ha diretto dal 1952 al ’58 la collana de ‘Lo Specchio’ Mondadori – ha
avuto il (raro) buon gusto di non autoantologizzarsi.
L’edizione che ho acquistato – stampata nel 1972 – reca una dedica: “alla mia
cara mamma auguro di passare un felice Natale con noi”. La scrittura, in penna
blu, è elementare, ma ferma; firma una “Angelica”. Chissà chi è, ora, questa
Angelica; chissà se vive e dove e cosa sogna. Questa dedica mi pare un sigillo –
suggella il fatto che un’antologia, in sé, ha sempre qualcosa di angelico e di
natalizio. Che ogni angelo sia terribile, che ogni annuncio porti con sé il
segno della separazione e dello schianto, beh, sappiamo anche questo.
*In copertina: Giuseppe Ungaretti (1888-1970)
L'articolo “Agirò senza pietà”. Sull’arte di costruire antologie o del
contrabbando poetico proviene da Pangea.
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Benché abbia in sé, negli avvallamenti etimologici, qualcosa di irenico, di
edenico, di maliziosamente leggiadro, la parola antologia ha a che fare con il
rischio, l’azzardo, l’assurdo, quando non il pericolo. È vero, antologia
significa ‘raccolta di fiori’: la mente va ai quadri della fratellanza
preraffaellita – Waterhouse per dire –, di donne fatali infestate di boccioli, e
al loro maestro, Botticelli. La raccolta dei fiori si realizza secondo un
metodo antologico: non è possibile raccogliere i fiori più belli in assoluto, ma
anche quelli che ci vengono offerti dal caso, quelli che il singolare capriccio
del raccoglitore ritiene belli. I fiori si preparano per la festa – o perché
quel giorno, senza che vi sia un qualche motivo, sia per noi giorno di festa. I
fiori sono un dono – il loro dramma: sparire in poco tempo. I fiori insegnano
che la festa è transitoria. Diversamente, l’erbario serba ciò che altrimenti è
destino svanisca. L’erbario – arte in cui eccelleva Emily Dickinson, tra le
poetesse più antologizzate di ogni tempo – cristallizza la festa, la fa museo,
mausoleo.
La nostra storia è costellata da antologie: dalla “Corona” di Meleagro alla
“Palatina” compilata a Bisanzio; dalla “Raccolta Aragonese” voluta da Lorenzo il
Magnifico all’antologia dei “Poeti futuristi” ideata da Marinetti al Man’yōshū,
la “raccolta di diecimila foglie” approntata nell’VIII secolo in Giappone,
l’antologia non raccoglie le poesie più belle ma quelle necessarie.
Un’antologia, comunque, promuove una visione del mondo – è, cioè, un atto di
lotta, una dichiarazione di intenti e, a volte, di guerra, più che un invito a
nozze. Più spesso, un’antologia è compilata quando la casa brucia, quando
occorre, in fuga, alle strettoie del pericolo, raccogliere soltanto gli oggetti
più cari, i più cari affetti. Un’antologia è, allora, una zattera: è il minimo
indispensabile per restare vivi. C’è, allora – prima ancora della festa e
dell’assalto all’arma bianca – qualcosa del sopravvivere nell’antologia. Altro
che fiori… l’antologia è il pane spezzato, il pane condiviso. È quell’ultimo,
sopravvissuto libro grazie al quale riusciremo, dopo il disastro, a fondare una
civiltà, a ricostruire il verbo. Proprio come una zattera, l’antologia ci porta
altrove, in un luogo diverso da quello in cui è stata pensata.
L’antologia non è un fiore: è un seme. Piantata in terra di squilibrio, se è
buona, se è ben fatta, sboccerà nel futuro. In un futuro da cui tutti i
protagonisti – poeti antologizzati e antologizzatori – sono esclusi. L’antologia
esiste per chi verrà: agli eredi, alla nuova specie, il compito di fare il
fuoco, di erigere torri o di creare teatri.
Intorno a questi criteri – emergenza, allarme, ‘poesia come vita’ –, nel 1997,
Ted Hughes e Seamus Heaney costruiscono per la Faber The School Bag,
un’antologia – fin nel titolo – rivolta agli studenti – ergo: al futuro –, è
vero, ma che pertiene anche a una rivolta interiore, per così dire. The School
Bag mira, cioè, per spavalderia, a essere l’unico libro dello studente: che con
il suo zaino, per principio di avventatezza, cominci ad esplorare il mondo, a
perimetrarne lo splendore. Nell’introduzione, Heaney parla dell’antologia come
di una “school of poetry” che assembla i versi dei contemporanei insieme ai
“canti dei bardi”; una specie di “compendio di grandi esempi”. C’è qualcosa di
epico nel dire di Heaney. L’antologia non è semplicemente un libro ‘di lettura’:
è un addestramento. A cosa addestra la poesia? A conferire destrezza a ogni
proprio gesto: senza un corpo ben raffinato, ‘marziale’, la voce non esce
limpida, esatta – la poesia è prima di tutto ritmo, musica, voce. E poi, è
palestra spirituale – la poesia non dice soltanto, non è soltanto musica,
‘significa’.
Heaney e Hughes hanno deciso di rappresentare ogni poeta con una poesia
soltanto. “Le nostre scelte saranno oggetto di discussione: un ulteriore
contributo al libro, alla formazione del lettore. Dopo tutto, quella che William
Butler Yeats ha chiamato una volta singing school, è composta da tutti coloro
che danno valore alla poesia e vogliono custodirla perché dà un senso alla
nostra vita”.
In appendice, Ted Hughes firma un testo in cui spiega l’importanza di imparare a
memoria le poesie. Lo leggete in calce all’articolo. Hughes si ribella
all’apprendimento mnemonico in uso nelle scuole – un apprendimento, dice, che
riguarda il cieco obbedire a un ordine imposto – riferendosi all’antica pratica
medioevale. A un imparare, cioè, secondo l’uso di immagini, assecondando la
propria creatività. Finché la poesia non diventa parte del nostro essere,
carne&sangue. E possiamo fare a meno dei libri, diabolico supporto…
Ostinato sciamano dall’esistenza sciamannata, Ted Hughes – forse il più estremo
tra i poeti del secondo Novecento, il più lucidamente ‘druido’ –, all’epoca era
Poet Laureate del regno, sarebbe morto poco dopo, sessantottenne, nell’ottobre
del 1998, poco dopo aver pubblicato la sua più nota – ma non la più bella –
raccolta, Birthday Letters, in memoria della moglie, Sylvia Plath. Seamus
Heaney, più giovane di Hughes – e per certi versi un suo ‘allievo’ – era stato
proclamato Nobel per la letteratura nel ’95; l’ultima edizione di The School
Bag esce vent’anni fa.
Antologia tra le più autorevoli e al contempo spiazzanti mai realizzate in area
anglofona – merito dei due ‘mostruosi’ antologizzatori – The School Bag attacca
con una formidabile poesia di Yeats (il sapiente assoluto), Long-legged Fly:
> “Perché la civiltà non sprofondi,
> Perduta la grande battaglia,
> Acquieta il cane, lega il puledro
> A un palo lontano;
> Il nostro grande Cesare è nella tenda
> Dove le carte sono spiegate,
> Gli occhi fissi nel vuoto,
> Una mano sotto il mento.
> Come un insetto dalle lunghe zampe sopra il fiume
> La sua mente muove sul silenzio”.
L’ultima poesia, di John Dryden, da The Secular Masque, non chiude le danze, ma
le rinnova – una antologia è autentica, in effetti, quando, rotti i sigilli,
continua a vivere e a vibrare: soltanto i brutti libri restano supini nella
stalla della libreria, al giogo del padrone. Fa così:
> “Tutto, dopo tutto, non è stato che questo:
> la tua caccia mirava alla grande belva
> le tue guerre non hanno portato nulla
> gli amori si sono rivelati fasulli:
> è tempo di ricominciare tutto, ancora, ancora.
> Danze di cacciatori, ninfe, guerrieri e amanti)”
Nel mezzo, insieme a poeti ben installati nel canone – Coleridge, Wordsworth,
Shakespeare, Shelley, Keats, Blake, Whitman… –, una sfilza di ballate gaeliche e
di bardi d’Irlanda, tante misconosciute donne (Emilia Lanier, ad esempio,
nobildonna veneziana, cresciuta alla corte di Elisabetta I; Carolina Oliphant;
l’australiana Eve Langley e la micidiale Laura Riding, tra le altre), tantissimi
poeti ‘difficili’ (Elizabeth Bishop e Gerard Manley Hopkins, Basil Bunting e
Robert Penn Warren, Hart Crane, Hugh MacDiarmid, George Barker…), a dilatare il
canone in esiti fino ad allora inusitati, a fare della scuola, davvero, uno
spazio ‘esplosivo’ di esplorazione dell’io, di indagine all’erta. C’è Allen
Ginsberg, padre dei beat, come John Crowe Ransom paladino dei sudisti americani,
dei nuovi conservatori. Di Ezra Pound è antologizzato il primo dei Cantos, di
T.S. Eliot The Hollow Men, di Dylan Thomas Fern Hill. Naturalmente, non mancano
Auden e Frost, Lewis Carroll e D.H. Lawrence, Robert Graves e Rudyard Kipling,
Oscar Wilde e Philip Larkin. C’è una mirabile poesia di David Gascoyne, The
Cubical Domes, con alcuni bellissimi versi:
> “Ma la luce delle stelle è attratta dai fiori trasparenti
> e alla fine gli uomini e le bestie, gli argani
> e gli elmi e le mesmerizzate suore la dimenticano
> perché i confini del mio regno sono sconosciuti”.
Quando l’ha scritta, Gascoyne aveva trent’anni, Hughes ne aveva sei e Heaney non
era ancora nato. Si parla, in quella poesia, anche di “flotte di marinai
cristiani/ i cui cuori ardono nella neve”.
C’è anche Robinson Jeffers, un poeta che amo molto: nella poesia antologizzata
– Fawn’s Foster-mother, la tradurrò, un giorno – si dice di una donna che
allatta un cerbiatto, “mio marito l’ha trovato nascosto in un bosco di felci/
gli misi il muso al seno/ piuttosto che farlo morire/ avevo latte a sufficienza
per tre bambini”.
Che bello andare a scuola così – anzi, fare della poesia la propria scuola di
vita.
***
Imparare le poesie a memoria
Ci sono molti buoni motivi per imparare una poesia a memoria. Memorizzare
dovrebbe essere un gioco. Un piacere. Per chi di noi ha bisogno di aiuto (in
sostanza: tutti), il metodo più comune usato nelle scuole è l’apprendimento
mnemonico. Ma questa è soltanto una tra le numerose tecniche di memorizzazione.
Per la maggior parte delle persone, è la meno efficace. La noia che ci avvinghia
nell’imparare a memoria un testo è stata considerata a lungo una variabile
positiva nelle aule inglesi: disciplinava e forgiava il carattere. Il costo
tuttavia è elevato: può creare un’avversione radicale per la poesia.
Chi non ama imparare pedissequamente a memoria, ma desidera acquisire i numerosi
poteri che derivano dalla sua conoscenza, può scegliere tra diverse altre
tecniche, meno faticose, più produttive e divertenti. Queste tecniche sfruttano
le strategie naturali che il cervello adotta per ricordare qualcosa. Di recente,
ho sentito un tecnico del suono, a teatro, che chiedeva a un altro cosa
significassero le lettere CSB che ricorrevano nella scaletta di uno show. Gli fu
detto che CSB era il nome dell’attore principale. Poiché il tecnico interpellato
non riusciva a ricordare il suo nome, gli aveva affibbiato un nomignolo, Capelli
Spumeggianti come Birra.
Questo è il genere di cose che capita a tutti senza che ce ne accorgiamo. Perché
il tecnico non riusciva proprio a ricordarsi il nome dell’attore mentre pensare
alla sua testa piena di “Capelli Spumeggianti come Birra” lo rendeva
indimenticabile? Semplice. Una delle tecniche spontanee del cervello per fissare
qualcosa nella memoria cosciente è collegarla a un’immagine visiva. Più assurda,
esagerata e grottesca è l’immagine, più indimenticabile è la cosa a cui è
collegata.
Questa tecnica è superba nel ricordare le liste. Di solito, se ogni immagine
viene “fotografata” mentalmente, come su uno schermo, non la dimenticheremo
facilmente. E ogni immagine richiama la successiva, ad essa collegata, e poi
via, di seguito. Così, da un leone si passa al pollaio e dal pollaio al pettine.
È importante che ogni immagine abbia dei legami, per quanto paradossali, con la
seguente. Questa è la tecnica che usa anche chi deve imparare una poesia a
memoria per professione.
Alcuni potrebbero avere qualche difficoltà nello sbrigliare l’immaginazione. Ci
vuole pratica. Il libero sfogo di una immaginazione propensa al gioco, aiuta il
cervello a liberarsi di ogni giogo. Alcuni potrebbero essere riluttanti a
incardinare le sacre parole di una poesia in un arbitrario e ‘volgare’
accompagnamento dell’immaginazione. Il punto è far entrare la poesia, con ogni
mezzo, lecito o illecito, nella propria testa. Dopo un po’, saranno le parole
stesse della poesia a stagliarsi in noi: le immagini – il film che ci siamo
costruiti – svanirà da sé.
Ciò che è essenziale, comunque, è mantenere una facoltà uditiva aperta. Le
parole vanno ‘guardate’, ma soprattutto ascoltate – ascoltandone il suono più
profondo, saggiando ogni sussurro nell’aria, valutando come quei versi risuonano
nel nostro corpo, proprio il nostro, mentre ci impegniamo a costruire per loro
un maniero di immagini.
Tecniche mnemoniche di questo tipo, che utilizzano la visualizzazione, sono
state inventate nel mondo antico, sono state la base dell’apprendimento nel
Medioevo cristiano, quando i libri erano rari. Furono considerate essenziali e
ulteriormente sviluppate da alcuni giganti del sapere come Tommaso d’Aquino, che
pronunciò questa indimenticabile affermazione: “L’uomo non può comprendere senza
immaginare”.
In Inghilterra, l’ascesa puritana/protestante in seguito alla Guerra Civile, nel
XVII secolo, ha scardinato le immagini da ogni aspetto della vita comune,
distruggendo metodicamente le icone religiose dalle chiese, proibendo quel gioco
dell’immaginario che è il teatro. Uno spirito analogo ha bandito dalle scuole le
antiche tecniche di memorizzazione che usavano le immagini, sostituendole
d’ufficio con l’apprendimento meccanico. I metodi precedenti, associati al
paganesimo e al cattolicesimo, furono presto dimenticati. Quando si è tentato di
reintrodurli, li hanno bollati come “trucchi” o “sortilegi”, quando non
“illusioni”. Così, “imparare a memoria” è diventata la norma.
Ted Hughes
*In copertina: Ted Hughes e Sylvia Plath
L'articolo Scuola di poesia. Su una memorabile antologia di Ted Hughes e Seamus
Heaney proviene da Pangea.