Benché abbia in sé, negli avvallamenti etimologici, qualcosa di irenico, di
edenico, di maliziosamente leggiadro, la parola antologia ha a che fare con il
rischio, l’azzardo, l’assurdo, quando non il pericolo. È vero, antologia
significa ‘raccolta di fiori’: la mente va ai quadri della fratellanza
preraffaellita – Waterhouse per dire –, di donne fatali infestate di boccioli, e
al loro maestro, Botticelli. La raccolta dei fiori si realizza secondo un
metodo antologico: non è possibile raccogliere i fiori più belli in assoluto, ma
anche quelli che ci vengono offerti dal caso, quelli che il singolare capriccio
del raccoglitore ritiene belli. I fiori si preparano per la festa – o perché
quel giorno, senza che vi sia un qualche motivo, sia per noi giorno di festa. I
fiori sono un dono – il loro dramma: sparire in poco tempo. I fiori insegnano
che la festa è transitoria. Diversamente, l’erbario serba ciò che altrimenti è
destino svanisca. L’erbario – arte in cui eccelleva Emily Dickinson, tra le
poetesse più antologizzate di ogni tempo – cristallizza la festa, la fa museo,
mausoleo.
La nostra storia è costellata da antologie: dalla “Corona” di Meleagro alla
“Palatina” compilata a Bisanzio; dalla “Raccolta Aragonese” voluta da Lorenzo il
Magnifico all’antologia dei “Poeti futuristi” ideata da Marinetti al Man’yōshū,
la “raccolta di diecimila foglie” approntata nell’VIII secolo in Giappone,
l’antologia non raccoglie le poesie più belle ma quelle necessarie.
Un’antologia, comunque, promuove una visione del mondo – è, cioè, un atto di
lotta, una dichiarazione di intenti e, a volte, di guerra, più che un invito a
nozze. Più spesso, un’antologia è compilata quando la casa brucia, quando
occorre, in fuga, alle strettoie del pericolo, raccogliere soltanto gli oggetti
più cari, i più cari affetti. Un’antologia è, allora, una zattera: è il minimo
indispensabile per restare vivi. C’è, allora – prima ancora della festa e
dell’assalto all’arma bianca – qualcosa del sopravvivere nell’antologia. Altro
che fiori… l’antologia è il pane spezzato, il pane condiviso. È quell’ultimo,
sopravvissuto libro grazie al quale riusciremo, dopo il disastro, a fondare una
civiltà, a ricostruire il verbo. Proprio come una zattera, l’antologia ci porta
altrove, in un luogo diverso da quello in cui è stata pensata.
L’antologia non è un fiore: è un seme. Piantata in terra di squilibrio, se è
buona, se è ben fatta, sboccerà nel futuro. In un futuro da cui tutti i
protagonisti – poeti antologizzati e antologizzatori – sono esclusi. L’antologia
esiste per chi verrà: agli eredi, alla nuova specie, il compito di fare il
fuoco, di erigere torri o di creare teatri.
Intorno a questi criteri – emergenza, allarme, ‘poesia come vita’ –, nel 1997,
Ted Hughes e Seamus Heaney costruiscono per la Faber The School Bag,
un’antologia – fin nel titolo – rivolta agli studenti – ergo: al futuro –, è
vero, ma che pertiene anche a una rivolta interiore, per così dire. The School
Bag mira, cioè, per spavalderia, a essere l’unico libro dello studente: che con
il suo zaino, per principio di avventatezza, cominci ad esplorare il mondo, a
perimetrarne lo splendore. Nell’introduzione, Heaney parla dell’antologia come
di una “school of poetry” che assembla i versi dei contemporanei insieme ai
“canti dei bardi”; una specie di “compendio di grandi esempi”. C’è qualcosa di
epico nel dire di Heaney. L’antologia non è semplicemente un libro ‘di lettura’:
è un addestramento. A cosa addestra la poesia? A conferire destrezza a ogni
proprio gesto: senza un corpo ben raffinato, ‘marziale’, la voce non esce
limpida, esatta – la poesia è prima di tutto ritmo, musica, voce. E poi, è
palestra spirituale – la poesia non dice soltanto, non è soltanto musica,
‘significa’.
Heaney e Hughes hanno deciso di rappresentare ogni poeta con una poesia
soltanto. “Le nostre scelte saranno oggetto di discussione: un ulteriore
contributo al libro, alla formazione del lettore. Dopo tutto, quella che William
Butler Yeats ha chiamato una volta singing school, è composta da tutti coloro
che danno valore alla poesia e vogliono custodirla perché dà un senso alla
nostra vita”.
In appendice, Ted Hughes firma un testo in cui spiega l’importanza di imparare a
memoria le poesie. Lo leggete in calce all’articolo. Hughes si ribella
all’apprendimento mnemonico in uso nelle scuole – un apprendimento, dice, che
riguarda il cieco obbedire a un ordine imposto – riferendosi all’antica pratica
medioevale. A un imparare, cioè, secondo l’uso di immagini, assecondando la
propria creatività. Finché la poesia non diventa parte del nostro essere,
carne&sangue. E possiamo fare a meno dei libri, diabolico supporto…
Ostinato sciamano dall’esistenza sciamannata, Ted Hughes – forse il più estremo
tra i poeti del secondo Novecento, il più lucidamente ‘druido’ –, all’epoca era
Poet Laureate del regno, sarebbe morto poco dopo, sessantottenne, nell’ottobre
del 1998, poco dopo aver pubblicato la sua più nota – ma non la più bella –
raccolta, Birthday Letters, in memoria della moglie, Sylvia Plath. Seamus
Heaney, più giovane di Hughes – e per certi versi un suo ‘allievo’ – era stato
proclamato Nobel per la letteratura nel ’95; l’ultima edizione di The School
Bag esce vent’anni fa.
Antologia tra le più autorevoli e al contempo spiazzanti mai realizzate in area
anglofona – merito dei due ‘mostruosi’ antologizzatori – The School Bag attacca
con una formidabile poesia di Yeats (il sapiente assoluto), Long-legged Fly:
> “Perché la civiltà non sprofondi,
> Perduta la grande battaglia,
> Acquieta il cane, lega il puledro
> A un palo lontano;
> Il nostro grande Cesare è nella tenda
> Dove le carte sono spiegate,
> Gli occhi fissi nel vuoto,
> Una mano sotto il mento.
> Come un insetto dalle lunghe zampe sopra il fiume
> La sua mente muove sul silenzio”.
L’ultima poesia, di John Dryden, da The Secular Masque, non chiude le danze, ma
le rinnova – una antologia è autentica, in effetti, quando, rotti i sigilli,
continua a vivere e a vibrare: soltanto i brutti libri restano supini nella
stalla della libreria, al giogo del padrone. Fa così:
> “Tutto, dopo tutto, non è stato che questo:
> la tua caccia mirava alla grande belva
> le tue guerre non hanno portato nulla
> gli amori si sono rivelati fasulli:
> è tempo di ricominciare tutto, ancora, ancora.
> Danze di cacciatori, ninfe, guerrieri e amanti)”
Nel mezzo, insieme a poeti ben installati nel canone – Coleridge, Wordsworth,
Shakespeare, Shelley, Keats, Blake, Whitman… –, una sfilza di ballate gaeliche e
di bardi d’Irlanda, tante misconosciute donne (Emilia Lanier, ad esempio,
nobildonna veneziana, cresciuta alla corte di Elisabetta I; Carolina Oliphant;
l’australiana Eve Langley e la micidiale Laura Riding, tra le altre), tantissimi
poeti ‘difficili’ (Elizabeth Bishop e Gerard Manley Hopkins, Basil Bunting e
Robert Penn Warren, Hart Crane, Hugh MacDiarmid, George Barker…), a dilatare il
canone in esiti fino ad allora inusitati, a fare della scuola, davvero, uno
spazio ‘esplosivo’ di esplorazione dell’io, di indagine all’erta. C’è Allen
Ginsberg, padre dei beat, come John Crowe Ransom paladino dei sudisti americani,
dei nuovi conservatori. Di Ezra Pound è antologizzato il primo dei Cantos, di
T.S. Eliot The Hollow Men, di Dylan Thomas Fern Hill. Naturalmente, non mancano
Auden e Frost, Lewis Carroll e D.H. Lawrence, Robert Graves e Rudyard Kipling,
Oscar Wilde e Philip Larkin. C’è una mirabile poesia di David Gascoyne, The
Cubical Domes, con alcuni bellissimi versi:
> “Ma la luce delle stelle è attratta dai fiori trasparenti
> e alla fine gli uomini e le bestie, gli argani
> e gli elmi e le mesmerizzate suore la dimenticano
> perché i confini del mio regno sono sconosciuti”.
Quando l’ha scritta, Gascoyne aveva trent’anni, Hughes ne aveva sei e Heaney non
era ancora nato. Si parla, in quella poesia, anche di “flotte di marinai
cristiani/ i cui cuori ardono nella neve”.
C’è anche Robinson Jeffers, un poeta che amo molto: nella poesia antologizzata
– Fawn’s Foster-mother, la tradurrò, un giorno – si dice di una donna che
allatta un cerbiatto, “mio marito l’ha trovato nascosto in un bosco di felci/
gli misi il muso al seno/ piuttosto che farlo morire/ avevo latte a sufficienza
per tre bambini”.
Che bello andare a scuola così – anzi, fare della poesia la propria scuola di
vita.
***
Imparare le poesie a memoria
Ci sono molti buoni motivi per imparare una poesia a memoria. Memorizzare
dovrebbe essere un gioco. Un piacere. Per chi di noi ha bisogno di aiuto (in
sostanza: tutti), il metodo più comune usato nelle scuole è l’apprendimento
mnemonico. Ma questa è soltanto una tra le numerose tecniche di memorizzazione.
Per la maggior parte delle persone, è la meno efficace. La noia che ci avvinghia
nell’imparare a memoria un testo è stata considerata a lungo una variabile
positiva nelle aule inglesi: disciplinava e forgiava il carattere. Il costo
tuttavia è elevato: può creare un’avversione radicale per la poesia.
Chi non ama imparare pedissequamente a memoria, ma desidera acquisire i numerosi
poteri che derivano dalla sua conoscenza, può scegliere tra diverse altre
tecniche, meno faticose, più produttive e divertenti. Queste tecniche sfruttano
le strategie naturali che il cervello adotta per ricordare qualcosa. Di recente,
ho sentito un tecnico del suono, a teatro, che chiedeva a un altro cosa
significassero le lettere CSB che ricorrevano nella scaletta di uno show. Gli fu
detto che CSB era il nome dell’attore principale. Poiché il tecnico interpellato
non riusciva a ricordare il suo nome, gli aveva affibbiato un nomignolo, Capelli
Spumeggianti come Birra.
Questo è il genere di cose che capita a tutti senza che ce ne accorgiamo. Perché
il tecnico non riusciva proprio a ricordarsi il nome dell’attore mentre pensare
alla sua testa piena di “Capelli Spumeggianti come Birra” lo rendeva
indimenticabile? Semplice. Una delle tecniche spontanee del cervello per fissare
qualcosa nella memoria cosciente è collegarla a un’immagine visiva. Più assurda,
esagerata e grottesca è l’immagine, più indimenticabile è la cosa a cui è
collegata.
Questa tecnica è superba nel ricordare le liste. Di solito, se ogni immagine
viene “fotografata” mentalmente, come su uno schermo, non la dimenticheremo
facilmente. E ogni immagine richiama la successiva, ad essa collegata, e poi
via, di seguito. Così, da un leone si passa al pollaio e dal pollaio al pettine.
È importante che ogni immagine abbia dei legami, per quanto paradossali, con la
seguente. Questa è la tecnica che usa anche chi deve imparare una poesia a
memoria per professione.
Alcuni potrebbero avere qualche difficoltà nello sbrigliare l’immaginazione. Ci
vuole pratica. Il libero sfogo di una immaginazione propensa al gioco, aiuta il
cervello a liberarsi di ogni giogo. Alcuni potrebbero essere riluttanti a
incardinare le sacre parole di una poesia in un arbitrario e ‘volgare’
accompagnamento dell’immaginazione. Il punto è far entrare la poesia, con ogni
mezzo, lecito o illecito, nella propria testa. Dopo un po’, saranno le parole
stesse della poesia a stagliarsi in noi: le immagini – il film che ci siamo
costruiti – svanirà da sé.
Ciò che è essenziale, comunque, è mantenere una facoltà uditiva aperta. Le
parole vanno ‘guardate’, ma soprattutto ascoltate – ascoltandone il suono più
profondo, saggiando ogni sussurro nell’aria, valutando come quei versi risuonano
nel nostro corpo, proprio il nostro, mentre ci impegniamo a costruire per loro
un maniero di immagini.
Tecniche mnemoniche di questo tipo, che utilizzano la visualizzazione, sono
state inventate nel mondo antico, sono state la base dell’apprendimento nel
Medioevo cristiano, quando i libri erano rari. Furono considerate essenziali e
ulteriormente sviluppate da alcuni giganti del sapere come Tommaso d’Aquino, che
pronunciò questa indimenticabile affermazione: “L’uomo non può comprendere senza
immaginare”.
In Inghilterra, l’ascesa puritana/protestante in seguito alla Guerra Civile, nel
XVII secolo, ha scardinato le immagini da ogni aspetto della vita comune,
distruggendo metodicamente le icone religiose dalle chiese, proibendo quel gioco
dell’immaginario che è il teatro. Uno spirito analogo ha bandito dalle scuole le
antiche tecniche di memorizzazione che usavano le immagini, sostituendole
d’ufficio con l’apprendimento meccanico. I metodi precedenti, associati al
paganesimo e al cattolicesimo, furono presto dimenticati. Quando si è tentato di
reintrodurli, li hanno bollati come “trucchi” o “sortilegi”, quando non
“illusioni”. Così, “imparare a memoria” è diventata la norma.
Ted Hughes
*In copertina: Ted Hughes e Sylvia Plath
L'articolo Scuola di poesia. Su una memorabile antologia di Ted Hughes e Seamus
Heaney proviene da Pangea.