Di rado gli scrittori con delle grandi specificità stilistiche sono dei grandi
scrittori. Non sono nemmeno degli scrittori minori, solitamente. Sono piuttosto
dei casi a parte: degli scrittori per scrittori, degli scrittori di culto. Si
nascondono nelle ombre delle nostre librerie e il grande pubblico non è il loro
destino né il loro auspicio. Rifuggono le classifiche e le onorificenze e di ciò
gli siamo grati. D’altronde uno scrittore di culto può essere perfino più
prezioso di un grande scrittore, perché è irripetibile. Credo che questo sia il
caso di Michele Mari.
L’ultimo romanzo di Mari, I convitati di pietra, edito come gli altri da
Einaudi, è uno dei suoi libri più personali e felici, nel senso che per la prima
volta Mari immagina per un personaggio a lui prossimo una possibilità di amore
riuscito, “felice”, sia pure in extremis e racchiuso in una sola notte. La trama
del romanzo è un congegno complesso ma manipolato con efficacia: una classe, la
III A, dopo l’esame di maturità si accorda di versare ogni anno una somma in un
fondo che sarà poi destinato agli ultimi tre ex alunni rimasti in vita. Si
tratta di una scommessa che è anche uno spietato gioco con la morte di ognuno di
loro.
Seguiranno assassinii, suicidi, frustrazioni, invidie, malattie, malignità,
magie nere e via di seguito. La III A, i superstiti della classe, si riuniscono
ogni ventidue di luglio per una cena. Così I convitati di pietra diventa un
grande romanzo sul tempo, perché cos’altro sono le nostre vite e le nostre morti
(ma anche i nostri amori) se non il suggello del tempo che passa e che ci
devasta?
In uno dei racconti più belli di Michele Mari, Laggiù, contenuto
in Tu, sanguinosa infanzia (1997), due vecchi parlano dei loro ricordi
d’infanzia. Il dialogo si svolge durante una malinconica sera d’estate del
2030, e si conclude con due battute che suonano come dei versi: “Non c’è stato
molt’altro, nella vita. / No, è quasi tutto laggiù.” Il laggiù è l’infanzia, il
bambino che ognuno di noi è stato e che spesso vorremmo tornare a essere, ma
in I convitati di pietra Mari lo tramuta negli anni del liceo, che sono ben più
spietati dell’infanzia. I personaggi del libro, fra i quali spiccano l’onanista
Luca Brodo e il cinefilo nerd Lothar Semprini, si imprigionano nel tempo perduto
delle loro giovinezze mancate (meglio: fallite) e nelle ossessioni che
definiscono le loro età adulte.
Per gran parte del romanzo sembra non esserci speranza per nessuno; tuttavia,
come scrivevo poc’anzi, e a differenza di Cento poesie d’amore a Ladyhawke o
di Rondini sul filo o anche del recente Locus desperatus, qui Michele Mari ha
compassione per la vita sentimentale di un personaggio adulto che gli somiglia.
Credo sia la prima volta.
A un certo punto infatti accade questo:
> “Al mattino lui le spiegò che quella notte, resosi conto di non averlo mai
> fatto, si era detto che non poteva morire senza aver dormito una volta insieme
> a lei, s’intende castissimamente.”
E viene alla mente Ladyhawke, perché sarebbe bello che lei, Ladyhawke, posto che
esista e che sia ancora in vita, e qui mi rivolgo ai veri cultori di Mari, legga
questo libro e soprattutto questa frase, questa scena, la piccola rivincita
sentimentale di un personaggio dal “tragico destino”, per citare – in onore al
fumettologo Lothar Semprini – il barone Ungern Kharn di Hugo Pratt: “Ricordate
al mondo che avevo un tragico destino.”
Chi non vorrebbe abbracciare, sia pure “castissimamente”, per un’ultima
indimenticabile notte, la donna o l’uomo che ci è stato negato? Gli amori
mancati della nostra giovinezza sono quelli che ci perseguitano per tutta la
vita ma che forse ci salveranno nel momento ultimo. Questo pensiero è nato
leggendo il libro di Mari. Chi ama invano non muore invano, credo, perché
comunque ama.
I temi di I convitati di pietra sono tanti e gli estimatori di Michele Mari
possono dilettarsi a enumerarli. C’è la morte, certo, e c’è la malattia, ma ci
sono anche i fumetti, sua grande passione, e poi il cinema. C’è qualche battuta
sul calcio e si sente che il cuore di Mari è rossonero. C’è l’amore, come sempre
frustratissimo. Ci sono le macumbe che già ci divertivano nel delirante Rondini
sul filo, un libro che Einaudi dovrebbe riportare nelle librerie (su eBay lo
vendono a 75 euro). Infine c’è il sesso, o per meglio dire un onanismo feroce e
compulsivo, perché Mari rifugge sempre le scopate “normali”, come respinge la
scrittura “normale”, e anche l’unica vera scena di sesso del romanzo, a pagina
122, è una parodia del film La bestia, di Walerian Borowiwczyk, una pagina
spassosissima. I cinefili ameranno molto I convitati di pietra.
Chissà cosa scriverebbe Michele Mari delle proprie opere. In I demoni e la pasta
sfoglia (Cavallo di Ferro, 2010), una ricca raccolta dei suoi saggi letterari,
suddivide gli scrittori che più ama in diverse sezioni: dagli ossessionati ai
feticisti, dai furenti misantropi ai sadici e voyeur, e così via. La cosa
divertente è che lui potrebbe appartenere a tutte queste categorie
contemporaneamente, pur traboccando da ognuna di esse. Ma occorre
ripeterlo: Mari non è un grande scrittore, non vuole e non deve esserlo. È
invece (per fortuna) ben altro, qualcosa di più indefinibile e prezioso. È però
un grande stilista, ossia un autore capace di scegliere un
peculiarissimo stile e di restargli fedele per centinaia di pagine, anche
trattenendo il fiato. Ciò a volte può renderlo difficile, o scorbutico. Michele
Mari è uno scrittore che non si lascia mai addomesticare dai propri lettori. È
uno scrittore che talvolta tiene il broncio.
La trama di I convitati di pietra dunque prende il volo man mano che gli alunni
della III A muoiono, perché più scorre il tempo – il romanzo si svolge in gran
parte nel futuro, come il racconto Laggiù – più Mari si concentra sui tipi umani
che davvero gli stanno a cuore e che gli somigliano. La trovata di Gene Hackman,
da aggiungere alle tante ossessioni dei personaggi mariani, è a un tempo buffa e
commovente, come e anche più delle macumbe e delle perversioni onaniste del
terribile Luca Brodo. Non nasconderò di aver concluso il romanzo con il
rimpianto di non essere stato uno dei compagni di classe di Michele Mari, anche
il peggiore di loro. O uno dei suoi personaggi.
Degli scrittori ossessivi è bene ossessionarsi. I convitati di pietra è uno dei
migliori libri di Mari, con (è il mio personalissimo podio) La stiva e
l’abisso e Locus desperatus. Ma amo anche il suo Leopardi licantropo, cioè Io
venía pien d’angoscia a rimirarti, e poi Tutto il ferro della torre Eiffel. E i
suoi racconti migliori, certo. E Di bestia in bestia, di cui cerco da anni la
rara edizione Longanesi: mi piacerebbe leggerla e confrontarla alla nuova
versione Einaudi, che è una riscrittura. In realtà, ogni sua opera è un caso a
sé, perché Michele Mari è uno scrittore che non si ripete mai e che sorprende
sempre. Anche per questo ci affascina. È uno scrittore unico. Non lo
dimenticheremo.
Edoardo Pisani
*In copertina: un’opera di Max Klinger dal ciclo “Ein Handschuh”, 1881
L'articolo Del mio culto ossessivo per Michele Mari. Ovvero: leggendo “I
convitati di pietra” proviene da Pangea.
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Ho letto La ballerina di Patrick Modiano, Einaudi, mentre sto leggendo Il
ritorno del barone Wenckheim, Bompiani, di László Krasznahorkai (hai voglia a
riascoltare online come andrebbe pronunciato, bisognerebbe allenarsi a lungo per
pronunciarlo bene, occorrerebbe una disciplina da ballerini), e io non leggo mai
due romanzi assieme, al massimo un romanzo e un saggio, ma due romanzi di due
scrittori-scrittori assieme no, diventa un’esperienza schizofrenica, però
Modiano – l’idea era dare un’occhiata alla prima pagina, sentirne giusto
l’incipit – ha prevalso su Krasznahorkai.
Modiano sa che Krasznahorkai prevede una lettura lunga e avvolta come lo è il
suo stile, suo di Krasznahorkai, mentre il suo di Modiano ha una fretta, una
urgenza, cui tra l’altro non corrisponde nulla, contenutisticamente, Modiano
racconta, inventa, storie sospese e sfrondate che resteranno lì nella debole
eternità della mente che si spegnerà assieme a chi avrà brevemente immaginato
che esista un’eternità possibile, un sempre-presente magari confermato in campo
quantistico ma che in nulla modifica la nostra esperienza mortale e
macromolecolare del tempo, dunque del mondo.
Di Modiano ammiro tutto ciò che inizialmente di Modiano detestavo: un
annebbiamento diradato a sprazzi, la liceità sbruffona di deciderlo lui quale
pezzetto raccontare e quale no, un minimalismo che definivo depressivo prima di
riconoscerlo per una seria e asciutta malinconia assai sensata.
In La ballerina c’è una giovane donna che grazie alla disciplina dalla danza
riesce dare un corso a una vita sbalestrata dall’età degli incontri, c’è un
giovane uomo che non sa ancora cosa farsene di sé e che perciò ammira la
disciplina a cui sa sottoporsi la giovane ballerina che ha un figlio, un padre
del figlio che è dovuto scomparire, un molestatore che viene dal passato, come
pure un protettore e una professoressa che le fece leggere le mistiche a suo
tempo e una donna che la accoglie in casa e nel proprio letto, e per un periodo
prevedibilmente precario una relazione con il compagno di danza che le fa
finalmente sentire la mistica dell’incandescenza.
Ci sono bar, boulevard, le stazioni parigine, Repetto – il negozio – e
appartamenti umili di salvataggio, sormontati dalla città indescrivibile se non
per precisi indirizzi, per precisi tragitti, per arrivare a dire almeno qualcosa
della Città che attira tutti col miraggio dell’anonimato possibile,
dell’occasione data di poter fare “un po’ di ordine”.
Modiano racconta l’ordalia della gioventù, è la consapevolezza ultima di molti
suoi romanzi. Scrive in La ballerina:
> “Che cos’è di preciso un errore di gioventù? si chiese. La maggior parte delle
> volte, quasi nulla. A quell’età tutto si cicatrizza molto più in fretta, e
> presto non rimane nemmeno traccia della cicatrice. Più nessun testimone. Più
> nessuna traccia di niente. Di nuovo l’innocenza.”
Una menzogna, sia, non è dato a nessuno il sollievo dell’oblio totale, resta
tutto del dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani, accompagnato però a
una stanchezza, finanche a una noia di te stesso quando la ripercorri,
smarrendoti ogni volta, abbinata a un segreto vergognoso: la nostalgia di quel
tempo non perché ci fosse qualcosa di desiderabile, una bellezza percepita col
senno di poi. Soltanto la nostalgia della giovinezza capace alle volte di
vincere l’amarezza per averla dovuta vivere proprio così, per averla sprecata,
perduta, neanche fossa mai possibile il viceversa, come se il modo migliore per
mancare la gioventù non fosse il non smarrirvisi dentro, lasciando a te che le
sopravvivi, se le sopravvivi, l’alibi per mettersi in cerca dello sconosciuto
che siamo stati.
Chi non si è mai dato la necessità di cercarsi, lui sì che è perduto.
antonio coda
*In copertina: opera di Edgar Degas (1834-1927)
L'articolo “Più nessuna traccia di niente. Di nuovo l’innocenza”. Su un libro di
Modiano proviene da Pangea.
Vasilij Kamenskij, poeta futurista, “esuberante pioniere del volo”, ossessionato
dalla velocità, scrive che “Majakovskij desiderava recitare i suoi versi in
groppa a un elefante”. Immagine perfetta per indicare l’indole di ‘Vlad’:
domatore di belve, istrione, allo stesso tempo Mangiafuoco e Minotauro. Le
memorie di Kamenskij, reduce di un’epoca inimmaginabile, uscirono nel 1940: il
poeta, sfiancato da un incidente, “afferma con ottimismo straziante di avere
ancora vent’anni” (Angelo Maria Ripellino); Majakovskij, il genio per sempre
giovane, era morto dieci anni prima.
Poeta-agitatore, poeta-poligrafo, poeta-titano, Majakovskij va avvicinato, per
piglio politico ed estro erotico, a Gabriele d’Annunzio più che a Filippo
Tommaso Marinetti. Il Futurismo di Majakovskij – epico e ‘panico’ nella sua
matrice intima – ha a che fare con La pioggia nel pineto più che con Zang Tumb
Tumb; la sua Fiume fu la Rivoluzione russa; la delusione per gli esiti,
esiziali, fu roboante: nel 1919 i Soviet impedirono al Kom-Fut (il “Collettivo
comunista-futurista”) di consolidarsi in partito; due anni dopo, Lenin in
persona intimò alla casa editrice di stato (l’unica ammessa, la Gosizdat) di
limitare le pubblicazioni di Majakovskij “non più di due volte l’anno e in non
più di 1500 copie”. È vero: Majakovskij fa paura, rivolta il peana di partito in
ruggito; Majakovskij va urlato, va suonato, va cantato – lo ha fatto, ad
esempio, il Teatro degli Orrori di Pierpaolo Capovilla, nell’album A sangue
freddo, era il 2009 –; Majakovskij inaugura rivolte, anche i suoi slogan – a
proposito di D’Annunzio… – preludono all’urlo, sovvertono i luoghi verbali
comuni.
Un tempo, mistificandolo, lo si riteneva “un poeta… al megafono” (copy Eugenio
Montale), non proprio un complimento: Editori Riuniti stampava le sue Opere in
otto volumi. Da tempo, grazie al lavoro di Paola Ferretti, sappiamo che “Il
furore del Majakovskij poeta d’amore non è scorporabile da quello del
Majakovskij poeta della rivoluzione” (in: V. Majakovskij, Poesie d’amore
1913-1930, Einaudi, 2023). In particolare, Di questo (Einaudi, 2025) è l’Everest
della poesia ‘amorosa’ di Majakovskij. Il poema fu scritto a partire del
dicembre del 1922: la mitologica amante, Lili Brik, aveva imposto al poeta un
diktat: non si sarebbero visti per un paio di mesi. Majakovskij riscattò il
delirio d’amore in versi di esuberante potenza: lui, il leone dei poeti russi,
si dice “scoiattolo poetico”; il tema d’amore, che “tutti gli altri eclissa”,
che “intenebra il giorno”, lo assale, lo azzanna, “mi accoltella alla gola”.
Quando Lili decise di rompere il veto, invitò Majakovskij ad accompagnarla a
Pietroburgo. È il 28 febbraio del 1923. Majakovskij recitò a Lili il suo poema,
in treno: lei lo sigillò con il pianto, apollineo. La sera ululava, fuori dai
finestrini – i due, di nuovo uniti, ulularono.
Si erano conosciuti sette anni prima, nel 1915, amandosi tra foia e fobia. Lili,
“la musa dell’avanguardia russa” (copy Pablo Neruda), più audace che bella,
cresciuta nei ranghi di una ricca famiglia ebraica, suonava il pianoforte,
parlava con destrezza francese e tedesco, faceva l’attrice, fece perdere la
testa a molti. Aveva sposato Osip Brik nel 1912: il marito accettava di buon
grado i suoi tradimenti. La sorella, Elsa – sposatasi incidentalmente con un
ufficiale francese, André Triolet – farà coppia fissa con Louis Aragon,
dominando, di fatto, per un trentennio, la cultura francese (fu la prima donna a
vincere un Goncourt).
Di questo piacque, tra gli altri, a Carmelo Bene: ne lesse alcuni brani nel
mirabile Spettacolo-concerto Majakovskij ideato nel 1960; ampliato nei testi e
negli autori, andò in onda su Rai 2 e Rai 3 nel 1977 come Bene! Quattro diversi
modi di morire in versi. L’“ufficio stampa della Rai” pubblicò per l’occasione
un “libretto” introdotto da Angelo Maria Ripellino: la poesia di Majakovskij, a
suo dire, “è tutta un groppo di nervi, si aggrinza per smorfie di raccapriccio”,
alternando “scoppi di roso… a singhiozzi e fiotti di lacrime”.
Intorno ai versi 690-700 del poemetto (p.45 dell’edizione italiana) c’è un
ragazzo che si uccide per amore. “Fino a che punto/ mi somiglia!”, sussulta il
poeta. Il biglietto d’addio improvvisato dal tizio (“Io muoio…/ Addio…/ Non
incolpate nessuno”) ricorda terribilmente quello scritto, sette anni dopo, da
Majakovskij: “Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente
pettegolezzi”.
Nel suo studio su Majakovskij (un tempo edito da il Saggiatore), Viktor
Šklovskij scrisse che il poeta “era un uomo fortissimo”, scrisse che agli occhi
di tutti era “l’eterno vincitore”. Eppure, si rivelò il poeta più fragile, di
vitrea onnipotenza. “Nel caricatore c’era una sola pallottola. Non ci fu un
amico abbastanza premuroso da togliere quella pallottola, da andare a trovare il
poeta, da telefonargli”, scrisse Šklovskij, incolpando se stesso, incolpando
un’intera generazione. Alcuni dissero che Majakovskij si era ucciso per colpa di
Lili. “Lili, amami”, scrive Vladimir nel biglietto definitivo. Lili era a
Berlino; da tempo il poeta frequentava la giovanissima – e gelosissima –
Veronika. Boris Pasternak, anni dopo, disse che “Majakovskij si è sparato per
orgoglio, per aver condannato qualcosa in sé o attorno a sé”; all’impronta, in
quell’aprile mai così grigio del 1930, abbozzò una poesia, Morte d’un poeta,
dalla chiusa leggendaria: “Il tuo sparo fu come un’Etna/ in un pianoro di
vigliacchi”. Con la morte di Majakovskij muore l’epica della Rivoluzione russa.
Majakovskij era ossessionato dall’immortalità. Verso il finale di Di questo – un
poema che è, in fondo, un esorcismo: imita Oscar Wilde e tende a Puškin per
volgersi agli sciamani siberiani – il poeta implora, per tre volte,
“Risuscitami”, “Risuscitami” perché “la voglio vivere tutta, la mia quota!”;
parlava a viso aperto al XXX secolo. Roman Jakobson ricorda che Majakovskij era
affascinato dalle teorie di Einstein e dalle nuove, spaventose, scoperte della
scienza:
> “allora con un’ostinatezza ipnotizzante, che certamente è nota a tutti quelli
> che hanno conosciuto più da vicino Majakovskij, il poeta disse, serrando le
> mascelle, ‘Io sono assolutamente convinto che la morte non ci sarà. I morti
> saranno risuscitati’”.
Le fotografie del suo cadavere, di cinematografica bellezza – viso in sempiterno
splendore, una floreale macchia rossa, non troppo vasta, sul petto –, finirono
per diventare un simbolo. Fu sepolto a Mosca, il poeta; i funerali finirono per
essere un evento, l’ennesima messa in scena: vi parteciparono quasi duecentomila
persone. Più che alle folle, tuttavia, Majakovskij parlava alle stelle – anche
questo ricordano i suoi amici. Per questo continuiamo a leggere i suoi versi,
ribelli all’era delle passioni tenui, delle passioni tristi: per addestrare un
cuore-toro, un cuore mohicano.
*
Da Di questo
L’ultima morte
Con piú scrosci
di un rovescio, piú vigore
di un tuono, ciglio
a ciglio, all’unisono,
da tutti i fucili,
da tutte le batterie,
da ogni Mauser e da ogni Browning,
da cento passi,
da dieci,
da due,
a bruciapelo,
una scarica via l’altra.
Tirano fiato un momento
e ancora spargono piombo.
Per lui è la fine!
Il piombo è in cuore!
Che non ci sia neppure un brivido!
Alla fin fine
– tutto ha fine.
Perfino i brividi.
Ciò che è rimasto
Compiuto è il massacro.
Gorgoglia gaiezza.
Gustando i dettagli, si sperdono lenti.
Solo, sul Cremlino,
brindelli di poeta
scintillano al vento – rosso vessillo.
Il cielo,
come un tempo,
è trapunto di lirica.
Riguarda
stupito l’ammasso di stelle –
l’Orsa Maggiore trovatoreggia. Perché?
Tra le regine di poesia
sgomita?
Col mestolo-arca,
lungo ere-Ararat,
nel cielo del diluvio,
Maggiore, trascinami!
A bordo
della nave spaziale,
da fratello
dell’orsa,
rintrono il creato di versi.
Presto!
Presto!
Presto!
Nello spazio!
Lo sguardo piú fisso!
Il sole irraggia i monti. I giorni
dalla banchina sorridono.
Da Vladimir Majakovskij, Di questo, a cura di P. Ferretti, Einaudi, Torino 2025.
L'articolo Il poeta a brandelli. Vladimir Majakovskij, o del delirio d’amore
proviene da Pangea.