
Sfigurare il nome. Solo chi è nessuno può dire la verità: discorso sull’immortalità dell’anonimato
Pangea - Wednesday, October 15, 2025Vergogna, modestia, umiliazione o persino narcisismo; dissolversi per durare è un gesto antico e modernissimo che cela un desiderio paradossale. D’altronde, se anche l’autore del creato è l’innominato per eccellenza, allora tacere il proprio nome è, in fondo, un atto teologico; una restituzione al divino dell’atto di creare.
“Là dove il nome tace, parla lo spirito.”
Meister Eckhart
Tutto comincia quando l’autore si ritira. È allora che la voce dell’opera diventa più nitida, che tutto si distrugge e resta soltanto la parola, sospesa, come un respiro senza volto. Lungi dall’essere una semplice mancanza di firma, l’anonimato letterario è stato un dispositivo di libertà, censura e sopravvivenza, e, nonostante possa apparire come un mero residuo arcaico, forse è l’ultimo atto di libertà possibile.
Nel Settecento europeo, di fatto epoca di censura e illuminazione, si fece dell’anonimato una pratica necessaria e quasi stilistica. In Italia, il nome poteva divenire condanna. La firma, un azzardo politico. Nel mondo editoriale del tempo, la scelta di non apparire non era sempre dettata da modestia, ma da una prudenza colta, da un senso di difesa intellettuale.
Michel Foucault ha scritto – in Che cos’è un autore?,1969 – che
“L’autore non è più che una funzione del discorso.”
Eppure, proprio quando il nome scompare, la voce si amplifica. Molti dei repertori bibliografici nati tra Sette e Ottocento sono, infatti, tentativi di restaurare il nome perduto, di restituire una biografia all’ombra. Lì dove il frontespizio tace, i filologi cercano indizi, sigle, dediche, scaglie di calligrafia; una sorta di archeologia del soggetto.
Inizialmente, le opere anonime appartenevano a generi precisi. Le grammatiche, gli abbecedari, i manuali di divulgazione scientifici; testi utili, collettivi, spesso di larga circolazione. Ancora più importanti però sono i viaggi, i romanzi, i testi satirici e teatrali; generi più insidiosi, dove l’io autoriale poteva essere compromettente.
“L’uomo raggiunge la sua vera grandezza quando scompare dietro ciò che crea.”
Antoine de Saint-Exupéry, Terra degli uomini
Soprattutto nella frammentata Italia pre-unità, tra censura, inquisizione e gelosie accademiche, il nome poteva essere una ghigliottina. Il monaco Norberto Caimo, ad esempio, nel 1761 pubblica le Lettere d’un vago italiano ad un suo amiconascondendo il proprio nome e perfino il luogo di stampa, indicando l’inesistente città di Pittburgo. Qui si descrivevano i viaggi dell’autore in Spagna, Portogallo, Inghilterra, Belgio e Francia tra il 1755 e il 1756 in un anonimato etico, figlio della vocazione religiosa ma anche di una sensibilità politica; il religioso che scrive, osserva, giudica, ma che non può esporsi.
Una sorte ben diversa tocca a Saverio Bettinelli: gesuita e critico fu richiamato all’ordine dopo aver firmato le Lettere virgiliane. Quando pubblica le Lettere inglesi, è costretto a scegliere il buio; una rinuncia al nome per salvare la voce.
Vi sono poi i casi in cui l’anonimato diventa maschera politica, come per Ludovico Bianconi, medico bolognese che nel 1764 pubblica a Lucca, in un contesto di scontro feroce tra censura ecclesiastica e libertà ducale, le Lettere al marchese Filippo Hercolani. Qui, osservando la vita tedesca, egli annota con finezza i contrasti tra protestanti e cattolici, e l’omissione tipografica diventa, così, una scappatoia etica e politica; pubblicare altrove, fingere.
“Il nome è la più antica catena dell’uomo.”
Elias Canetti, Massa e potere
Ci fu anche, però, chi il proprio nome lo volle difendere. Carlo Goldoni, nella Venezia delle tipografie e dei plagi, capì che la vera censura non era quella del doge, ma quella degli stampatori e direttori di teatro (in questo caso Giuseppe Bettinelli e Girolamo Medebach). Le sue commedie – “sfigurate, scorrette, ad onta mia” – gli sfuggivano di mano. Così la firma divenne per lui un’arma, un atto di proprietà, quasi un testamento.
Ogni prefazione, ogni ritratto inciso in frontespizio erano un modo per dire “io sono questo volto, questa voce”. Nel suo teatro la lotta per la verità non è solo drammatica, è editoriale.
Scrivere significava difendersi dal furto, dal silenzio, dall’oblio. Il suo teatro è un tribunale dove l’autore, l’editore e lo spettatore si contendono il diritto alla verità.
“Chi avrà coraggio di por mano nelle opere mie?”
Carlo Goldoni
Goldoni è il primo autore italiano moderno, perché intuisce che il nome, in fondo, è già una maschera. E che ogni maschera, prima o poi, diventa necessaria. Il nome proprio, diceva, non designa un uomo, ma una certa modalità dell’esistenza dei discorsi. Eppure, siamo certi che comunicare non significa per forza trasmettere; un nome vende, un concetto insegna.
Naturalmente, però, la società evolve, il tempo scorre, e nel XX secolo, l’anonimato non è più soltanto difesa o prudenza, bensì esperimento, gioco, filosofia. Samuel Beckett, durante una conferenza nel 1969:
“Cosa importa chi parla?”
La voce, non il volto, è ciò che conta. L’opera deve bastare a se stessa. Lo stesso Foucault, citandolo, immaginava una cultura “in cui i discorsi circolerebbero nell’anonimato del mormorio”, come se la letteratura potesse finalmente liberarsi dal peso dell’identità.
A questa dissoluzione partecipano anche gli autori che scelgono di moltiplicarsi: Italo Calvino, ad esempio, gioca con la maschera dell’autore, con l’idea di un io che si disgrega e si ricompone nella pagina, fino a farsi pura voce narrativa. Ancora più radicale è stato il portoghese Fernando Pessoa, che ha fatto della scissione il proprio metodo creativo:Ricardo Reis, Álvaro de Campos, Bernardo Soares, Alberto Caeiro – quattro volti, tra le miriadi, per un solo silenzio.
L’anonimato moderno, dunque, non nega il sé, lo moltiplica. È un paradosso produttivo, una dissimulazione che genera nuove voci, nuovi corpi testuali. Barthes, nella sua celebre formula, ne sancisce la fine apparente – la morte dell’autore – ma in realtà ne proclama la trasfigurazione. L’autore che si dissolve nel testo, nel lettore, nel linguaggio stesso.
E cosa resta oggi di quel gesto antico, nell’epoca dei profili e degli algoritmi?
Nel mondo digitale, l’anonimato non è più un atto di modestia né di difesa, bensì un campo di tensione. Da un lato, è la maschera libertaria dell’individuo che sfugge al controllo, dall’altro, è lo strumento della dissimulazione, del falso, del moltiplicarsi dei sé. L’anonimato come simulacro.
Ogni commento senza firma, ogni voce che si dissolve nella rete, ripete in forma tecnologica l’antico gesto del monaco o del filosofo. Ma oggi la sottrazione non coincide più con la purezza. Si tratta di un rumore di fondo, un eccesso di presenza spacciato per assenza.
Eppure, anche qui, in questo nuovo paesaggio, sopravvive il nucleo originario del gesto anonimo, la sua nostalgia di non appartenere a nessuno.
“I miei libri, la mia opera […] Il lato grottesco di questi possessivi. Tutto si è guastato da quando la letteratura ha smesso di essere anonima. La decadenza risale al primo autore.”
Emil Cioran, Confessioni e anatemi, 1987
Forse solo chi tace il proprio nome può ancora pronunciare parole vere. Forse ogni opera, anche la più firmata, tende segretamente all’anonimato, a quel punto in cui il linguaggio non ha più bisogno di padrone. Scrivere senza nome significa non dover più difendere nulla, né un’identità, né una carriera, né una vanità. È l’esperimento più radicale di sincerità; in fondo, non si puo’ morire se non si ha un corpo da seppellire.
Tommaso Filippucci
*In copertina: gli “sfregi” di Nicola Samorì
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