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Manovre per scavarci la tomba. Kōbō Abe o del deserto della nostra umanità
> «“Ningen Sabaku”, deserto di umanità, è il termine che i giapponesi usano per > indicare Tôkyô. Questa spaventosa e affascinante megalopoli inghiotte ogni > anno molte migliaia di persone che svaniscono nel nulla come ombre».  > > Dall’introduzione di Gian Carlo Calza(Longanesi & C., “La gaia scienza”, > Milano, 1972) Non potrò più né nominarla né pensala impunemente; né, sedendo su una spiaggia o tra le dune di un ipotetico deserto, considerarla inerte – stupido! – e priva di un vago senso di minaccia, latente o sopito. Dopo essere scivolato come in un cratere terrestre dentro alle pagine de La donna di sabbia di Kōbō Abe, la sabbia mi risuonerà negli orecchi per sempre come sinonimo di lavoro, di schiavitù e di morte. D’ora in poi, non dimenticherò più d’annoverarla come il quinto elemento naturale, di rilevanza mitica ai miei occhi, al pari dell’acqua e del fuoco, dell’aria e della terra.  Considerata statica e arida, alla luce di questo romanzo, insignito del Premio Unesco quale “opera rappresentativa” del patrimonio letterario universale, la sabbia diventa agente dalla volontà autonoma, penetrante, umida e corrosiva; un’entità bifronte con cui è meglio non averci niente a che fare. Capace di spingersi fin dentro ai reconditi anfratti dell’animo umano, in grado di impossessarsi della dimensione materiale e immateriale del mondo, essa è in perenne movimento, e si sposta, e muta d’assetto, pur preservandosi, nella sua primitiva e spietata essenza, uguale a sé.  Questo eterno nomadismo la rende cosa assolutamente viva e, allo stesso tempo, ne decreta un carattere ostile verso qualsiasi altra forma di vita che presso di essa tenti di insediarsi. > “La sabbia non si riposa mai. Senza rumore, ma con certezza, invade la > superficie della terra distruggendola a poco a poco… L’immagine della sabbia > che continua a spostarsi dette all’uomo uno choc indicibile e lo eccitò. > Pareva che la sterilità della sabbia non fosse semplicemente dovuta alla > siccità, come viene interpretata in genere, ma alla sua mobilità perenne che > rifiuta la presenza di ogni forma di vita dentro di sé. Quale sollievo se si > pensa al senso opprimente che comporta ogni realtà di questo mondo, che ci > costringe persistentemente a rimanerle aggrappati! Certo, la sabbia non crea > un ambiente adatto per la vita. Ma è davvero assolutamente indispensabile > stabilirsi in un luogo per vivere? Non è forse il desiderio di stabilirsi in > un luogo che dà il via a quella concorrenza obbrobriosa tra gli esseri > viventi? Se uno rifiutasse di stabilirsi in un luogo e si lasciasse andare > insieme ai movimenti della sabbia, non ci sarebbe più la possibilità di > concorrenza.” L’insegnante Junpei Niki, entomologo amatoriale, decide di trascorre le ferie andandosene a caccia di nuove specie di insetti. In particolare, spera di scoprire un inedito esemplare di cicindela che, secondo le sue supposizioni, sopravvive negli habitat sabbiosi e di poter così iscrivere il proprio nome, a futura memoria, negli elenchi delle enciclopedie specializzate. Approda perciò in uno sperduto villaggio di campagna, in un’ampia zona desertica del Giappone. Al calar del sole, su una delle centinaia di dune che assolvono al compito di omologare visivamente il paesaggio circostante, l’uomo viene avvicinato da un vecchio che, malgrado un primo approccio brusco e diffidente, gli offre poi ospitalità notturna presso una delle case del villaggio. Ingannato dall’apparente buona fede del vecchio, l’uomo (definito genericamente “uomo” per l’intero arco del romanzo e quindi, privato dell’identità nominale, già relegato in qualche misura allo status di persona scomparsa) si lascia guidare presso la dimora promessa.  La casa è costruita sul «basso ventre» di una buca enorme, scavata per decine di metri nella sabbia. A sporgersi dal bordo, della casa in basso s’intravedono soltanto il tetto e il porticato pencolante. Nient’altro. Il vecchio lo invita allora a calarsi tramite una scaletta di corda, prontamente allestita, e, nonostante le perplessità iniziali che nutre, l’uomo decide di dargli ascolto. Cosa mai potrà succedermi, sembra pensare lui mentre affonda volontariamente nella buca, sono Junpei Niki, nato il 7 marzo 1927, ho una compagna, amici e colleghi, ho regolare contratto di lavoro con l’istituto scolastico, faccio parte di cerchie rispettabili e di una più ampia, e anch’essa assai rispettabile, società civile; sono oggetto di tutele da parte del sistema sanitario nazionale e protetto dai codici giuridici di molti tribunali, ai quali posso fare appello in caso di controversie o, dio non voglia, di atti di violenza.  Ma non appena mette piede sul fondo della buca, il vecchio ritira su la scaletta. Con essa non svanisce soltanto la possibilità fisica di tornare al conforme mondo di fuori, ma scompaiono le ferree convinzioni su cui quel mondo si ergeva, tanto inamovibile e sicuro. È l’innesco dell’incubo. > “Alla vista della donna, l’uomo rimase senza fiato dimentico del dolore negli > occhi. La donna era completamente nuda. Nella visione offuscata dalle lacrime > la donna sembrava galleggiare nell’aria come ombra. Supina sul pavimento di > giunco intrecciato, era distesa con l’intero corpo completamente nudo, salvo > il viso, una mano leggermente appoggiata sul basso ventre, gonfio sotto la > vita ben tornita. Le parti che rimanevano abitualmente nascoste erano esposte, > mentre il viso, la parte che nessuno ha paura di mostrare agli altri, era > accuratamente nascosto sotto un asciugamano. Comprensibilmente, era per > difendere dalla sabbia gli occhi e l’apparato respiratorio, ma il contrasto > parve far risaltare la nudità del corpo. Per di più, tutta la superficie del > corpo era ricoperta da un velo finissimo di sabbia dai granuli minuscoli. La > sabbia celava i particolari del corpo mettendo però in rilievo le curve > tipicamente femminili; tutto sembrava una statua argentata di sabbia.” Nella casa in fondo alla buca, abita una donna anonima, tanto remissiva nel privato quanto assoggettata alle logiche sistemiche perverse del villaggio che sopravvive anche grazie al suo faticoso e insensato lavoro di spalare la sabbia, in cambio della razione giornaliera d’acqua e di cibo. La donna accoglie l’uomo con sospetto. Rifà il letto, in silenzio. Prepara l’acqua calda in bollitori infestati di sabbia, in silenzio. Il suo mutismo è un’omissione volontaria della verità. Non sa quanto, se e come aprirsi con il nuovo venuto. E tra i due s’insinua una tensione prima verbale, fatta di continue richieste da parte dell’uomo – perché, come mai, che succede – che la donna, evasiva, lascia inesaudite. Poi questa stessa tensione si gonfia e si ramifica in una necessaria attrazione sessuale – magnifica qui l’associazione di Kōbō Abe tra la copula e una fredda redazione d’incartamenti, di atti notarili e di certificati, immagine che desublima l’attività “scandalosa” a mero scambio di liquidi corporei, burocratizzato e su cui, conclusa la transazione, apporre un timbro di visura. I due esseri umani, come ologrammi, appaiono a un tempo naufraghi e reduci, esiliati e proscritti da un mondo tentacolare che non ne contempla la morte, e li alimenta, soltanto per ragioni d’opportunismo. Il vecchio, infatti, cala nella buca una pala per «il nuovo arrivato». Quella pala è il contrassegno che suggerisce all’uomo d’integrarsi bonariamente, senza scalpitare; è l’utensile attraverso cui siglare un accordo di lavoro che lo renderà utile agli occhi della comunità del villaggio e perciò degno d’essere mantenuto in vita. La cosa appare all’uomo del tutto assurda ed è qui, ai primi vagiti della sua disperazione, che inizia a franare il muro tra la realtà finzionale e la realtà del lettore, che patisce la deriva del protagonista in queste infinite onde – di sabbia. La sprezzante, delicata e ultra-nichilista metafora intessuta dall’autore ha come obiettivo, mai dichiarato, di accorciare le distanze tra i due piani, di far sì che quella sabbia onnipresente possa strisciare fuori dalle pagine e mettersi lentamente a consumare, a logorare e infine a sgretolare le certezze, i pilastri santi e intoccabili su cui un individuo strutturato del nostro tempo crede di fondarsi.       > “Nessuna notizia indispensabile. Una torre di illusioni costruita con mattoni > inesistenti, messi su da mani disordinate. Se, tuttavia, le notizie fossero > state tutte indispensabili, la realtà sarebbe stata come un oggetto di vetro > soffiato, così fragile da non poterlo toccare con le mani. In fin dei conti, > la vita quotidiana è piena zeppa di cose illusorie. Per questo, tutti, > consapevoli del non senso delle proprie azioni, fissano il centro del compasso > nella propria casa.” Chissà com’è il mondo quando non ci siamo. Le cose distanti si ammantano di un fascino inaudito, allattando desideri e fantasmagorie, e quelle vicine, facili da afferrare o di cui si è già in possesso, vengono ricacciate nella vasta cesta della noia e declassate d’ufficio tra i fumi dell’abiura. È così che all’uomo, di fronte alla tanto agognata possibilità di fuggire concretamente dalla buca, si spegne in gola, tra le irritazioni causate dalla sabbia ingerita, anche l’ultimo desiderio.  > “Guardando in su verso l’orlo della buca, messo in rilievo dal chiaro della > luna, l’uomo pensò che quel sentimento bruciante si chiamava forse gelosia. > Geloso delle vie cittadine, dei treni che trasportavano i lavoratori, dei > semafori agl’incroci delle vie, della pubblicità sui pali della corrente, > delle carogne dei gatti, delle farmacie dove vendevano anche le sigarette, > geloso di tutto ciò che esprimeva la densità della vita sulla terra. Come la > sabbia aveva intaccato le pareti interne di legno e i pilastri, la gelosia > l’aveva trafitto lasciandogli un buco nel corpo, rendendolo vulnerabile come > una pentola vuota messa sul fornello. […] Benché si trovasse tuttora in fondo > alla buca, l’uomo si sentiva ormai come in cima a una torre altissima. Forse > il mondo era stato capovolto e le sue vette e le sue valli erano state > rovesciate.” La donna di sabbia è una violenta e dolorosa presa di coscienza dell’infamante condizione umana, dibattuta tra il giogo della fame e quello del lavoro. Uno spettacolo di marionette in cui si intuiscono chiaramente sia i fili di controllo sia le dita del burattinaio. E l’aspetto più desolante è che tutto, all’interno e all’esterno della narrazione, risulta strettamente normale, normato.  Uomini e donne che, oggi ancor più che nel 1962 (anno della prima edizione giapponese), vengono filati su un telaio dalle trame geometriche, ripetitive e conformiste. Colui che fu insegnante e ossequioso contribuente all’erario, è adesso, per sempre e soltanto, un uomo che aderisce, suo malgrado, all’utero di terra a cui non sapeva di appartenere. Qui, non c’è un viaggio di ritorno. Qui, non esiste caverna platonica che regga.  Ogni azione porta al seppellimento della precedente fino a che non si avrà più nemmeno voglia di muovere un muscolo. Dentro o fuori la buca, fa lo stesso. Misurati sulla bilancia gli esisti della propria esistenza, è semmai il fuori a risultare posticcio e inflazionato. Presso quale illusoria idolatria decideremo di sacrificare interamente i nostri giorni? Con quali scuse, per esserci lasciati traviare dalla nostra natura, ci accosteremo all’estremo respiro? Con quante e quali convinzioni, giuste o sbagliate, ma necessariamente indotte dall’esterno, moriremo infine? Da dèi invincibili e onnipotenti, a umilissimi insetti che in sé non sono capaci di covare altro che il germe di un servilismo degno del più belante ovile.  P.S. Questo libro è sconsigliato ai convinti sostenitori della propria univoca postura nel mondo, ai patrocinatori delle campagne per l’installazione di nuove piante sulle scrivanie al fine di abbellire le forche impiegatizie dette uffici, agli zelanti conferenzieri della logica usuraia del lavoro che dà il pane ed esige la vita, ai trombettieri del «bisogna immaginare Sisifo felice», puah!, ai carcerieri inconsapevoli di quelle gabbie, mentali e non, che mai risultano dorate abbastanza e che pure elargiscono soddisfazioni a iosa, mascherando la prigionia con l’autoaffermazione, la schiavitù con la libertà; e, va da sé, scoraggio dalla lettura gli entomologi principianti.  A ciascuno la propria pala, che di sabbia, e di buche in cui rintanarsi, ne è pieno il mondo. Le manovre per scavarci la tomba sono iniziate da un pezzo. Siamo in ritardo. Non demordiamo!  Vincenzo Montisano L'articolo Manovre per scavarci la tomba. Kōbō Abe o del deserto della nostra umanità proviene da Pangea.
October 28, 2025 / Pangea
“Finirò per svelare i miei segreti amori”. Rassegna di poetesse giapponesi
Della poesia giapponese sorprende il contrasto senza mediazioni. Ciò che è lieve – il più misero sussulto del cuore – è in grado di flettere un astro, di fendere una montagna. Il velo nasconde una tigre; il cuore remissivo, devoto agli stracci, estrae da sé un ruggito. Allo stesso modo: che differenza c’è tra il vento che scuote l’erba e la spada che in frusciando ti decapita?  Che violenza l’haiku: poesia-libellula, che è come l’ultimo respiro. Rivelazione che resta nella cruna dell’orecchio; si cammina a piedi scalzi. Povertà di parole che rende angusto l’accesso, fa esplodere all’infinito la possibilità delle interpretazioni.   Se poi si parla di poesia giapponese scritta da donne è come se il contrasto si esasperasse. Appena letti, i versi paiono sparire, come neve tra le mani; allo stesso tempo, permangono imperituri, come il marmo – ogni poesia è un compito da adempiere. Imperiale è la presenza femminile nel canone nipponico: geishe, cortigiane, femmine relegate nell’ombra, nella clausura del verbo; sono le donne – da Murasaki Shikibu e Sei Shōnagon in poi, fino a Yosano Akiko e a Fumiko Enchi – ad aver forgiato la letteratura di laggiù. Gioco d’astuzia tra i paraventi, sortilegio di una lingua che fu labirinto e laboratorio. Alla legge, un legiferare tra i pettegolezzi.  Nel 1977 Kenneth Rexroth, l’intrepido poeta statunitense, raccoglie come Woman Poets of Japan, un’antologia di settantasette poetesse giapponesi, dall’epoca classica – la principessa Nukata, vissuta nel VII secolo – ai nostri giorni (la più giovane installata nel libro, Mieko Kanai, è nata nel 1947). È un lavoro a suo modo straordinario – di cui in calce abbiamo riferito alcuni estratti – edito da New Directions e frutto di una antica consuetudine di Rexroth con la poesia estremorientale: nel 1955, sempre per New Directions, aveva curato One Hundred Poems from the Japanese. Poeta estroso, dal polimorfico ingegno, è una gioia leggere Rexroth: si è occupato, con impareggiabile maestria e ‘orecchio’, di poeti dell’antica Cina e della Grecia classica, di William Blake e di Van Gogh, di gnosticismo e di Matteo Ricci, il gesuita che fu missionario in Cina nel XVI secolo. In qualche modo – in spregio agli accademismi, con l’arguzia dell’avventuriero – Rexroth ha continuato l’opera avventuriera inaugurata da Ezra Pound. In Italia, tolto il mio amico Flavio Santi – che di lui ha tradotto, nel 1999, per Marcos y Marcos, Su quale pianeta –, Rexroth fa quasi la parte del paria; InternoPoesia ha da poco pubblicato come Lasciati celebrare una selezione di poesie, a cura di Francesco Dalessandro: speriamo sia l’inizio della rivalutazione di questo poeta ‘totale’.  In un saggio del 1958 – The Poetry of the Far East in a General Education – Rexroth lamentava la mancanza di cultura poetica in generale e di quella orientale in particolare nei vasti programmi scolastici di educazione delle masse.  > “È curioso che l’intero programma umanistico diffuso nei nostri giorni ignori > la letteratura orientale e la poesia lirica. L’unica poesia che il nostro > sedicente risveglio umanistico sembra ammettere è quella epica e drammatica. > Nulla potrebbe differenziarci di più dai paesi dell’Estremo Oriente dove, per > tradizione, la poesia ha un’importanza primaria nel curriculum di un uomo > colto. Insieme ai trattati filosofici e a quelli che riguardano etica e > sociologia, la poesia è la base dell’educazione classica. Chiunque legga, > oggi, i quotidiani giapponesi si stupirà nell’osservare che ai concorsi di > poesia partecipino banchieri e statisti, diplomatici, generali e membri della > famiglia reale. D’altronde, funzionari di corte, imperatori e maestri della > guerra sono tra i maggiori poeti del canone giapponese e cinese”.  Al di là di questo aspetto – che rientra nella dizione: ‘poetica della politica’ – Rexroth fa un’osservazione non dissimile da quella che Iosif Brodskij avrebbe fatto dal pulpito del Nobel trent’anni dopo: > “Il valore della poesia nell’educazione risiede in questo: aiuta a rispondere > alla vita in maniera più profonda, vasta, intensa. È la poesia a renderci > uomini completi, compiuti. Ciò non significa che saremo uomini migliori – > questo dipende soltanto da noi, è ovvio – ma che, avendo familiarità con la > poesia, sapremo affrontare la vita e i suoi problemi, le relazioni con le > persone e le cose, in maniera universale”.  La pratica della traduzione è disciplina ‘marziale’ necessaria per affinare il proprio estro, estromettendo gli eccitamenti del mero io:  > “Quanto si perde nella traduzione dell’originale orientale? In un certo senso, > tutto; in un altro, nulla. Il lavoro di traduzione della poesia cinese e > giapponese, proprio perché si tratta di poesia per lo più intraducibile, ti > obbliga a essere un poeta pienamente occidentale. Eppure: ti purifica dai vizi > della poesia occidentale. Realizza in un colpo solo i vari programmi delle più > svariate rivoluzioni poetiche del XX secolo: i manifesti imagisti e > oggettivisti e così via devono essere introiettati per tradurre in maniera > decente la poesia estremorientale. Non puoi tradurre con superficialità la > poesia giapponese: è troppo sottile, degenererebbe nel più sdolcinato > sentimentalismo”. In Rexroth, la pratica del tradurre è una specie di via spirituale, di devozione alla ferocia: > “Una sensibilità abissale verso i moti dell’uomo, i suoi problemi morali, > sociali, spirituali, connessi all’universo vivente, sono il messaggio > fondamentale della poesia dell’Estremo Oriente. Questo costringe il > traduttore, se non vuole svanire in versi pseudo-immaginifici e tediosi, in > fondo banali, ad approfondire le proprie radici, a raccogliersi nelle proprie > tradizioni umane, ad avvicinarsi agli altri nei loro fondamenti, a tutti gli > uomini come parte della vita universale. Troppo spesso in Occidente tendiamo a > crederci soli di fronte a un cosmo inanimato, insensato, neutro. Da qui, > l’esistenzialismo e l’idea di un’anima individuale al cospetto di un creatore > solitario (i teologi esistenziali) o di fronte al nulla (Sartre & la sua > banda). Il dilemma esistenziale non esiste nella poesia di Tu Fu come nella > poesia di Francis Jammes. L’uomo è a casa sua in questo mondo. Dal momento che > ci impegniamo a rendere questo pianeta sempre meno simile a una casa, > qualsiasi propedeutica che ci faccia sentire bene al mondo, che nomini le cose > nel loro umano essere, ha un valore inestimabile”.  Non so quanto sia certo di questo irenismo – che è poi più che altro un eroismo. Di certo, vorrei essere al cospetto di una di queste poetesse giapponesi vissute una manciata di secoli fa: sussurrare parole artigliate contro i paraventi, confinarmi tra versi cifrati, dare fioritura alla notte, chiamare civetta l’ultima lanterna, avidità la luna che come untore appesta il nostro dire, il nostro ardore.  *** Poetesse giapponesi Imperatrice Jitō (645 – 703) Sfiorisce primavera forse è già estate: bianche  lenzuola al sole presso  la Collina del Profumo Celeste. * Per la morte dell’imperatore Tenmu Allora anche il fuoco può essere soffocato e recluso in una cassa. Per questo, ora voglio incontrare il mio signore morto da poco.  ** Kasa no Iratsume (VIII secolo) I celesti sono irragionevoli: davvero potrei morire senza incontrarti mai più? A sera il dolore mi travolge: vedo un fantasma che dice le stesse cose che dicevi tu. ** Shirome (X secolo) Se fossi certa di vivere per sempre non piangerei ogni volta che mi separo da te.  ** Fujiwara no Michitsuna no Haha (935 – 995) Sospiro, non riesco a dormire: dimmi quando piomberà l’alba. Quando soffia il vento lo interrogo: non ha responsi ma dilania le ragnatele che accecano il cielo.  ** Akazome Emon (956 ca. – 1041) Sarebbe stato meglio dormire e disertare la veglia piuttosto che attenderlo inutilmente fino alla fine del plenilunio. ** Ise no Taifu (989 – 1060) Nel lago imperiale l’acqua è limpida da così tante generazioni che puoi riconoscere la radice sul fondo: sono grata di essere stata scelta nonostante le mie umili origini.  * Solo la luna del mattino si annuncia nella mia stanza: nessun amante in vista.  ** Dama Sagami (XI secolo) La notte è ferita dai lampi, ma dov’è quel miraggio che ho appena  intravisto, di schiena? ** Principessa Shikishi (1149 – 1201) La vita è un filo e attraversa le mie gioie – spezzati! spezzati ora! La debolezza mi rende docile: se vivrò ancora finirò per svelare i miei  segreti amori.  ** Yokube (XII secolo) Ti sei rasato il cranio: come posso compatirti? Le corde del tuo cuore sono intoccabili come quelle di un arco: seguendo la tua Via mi sono fatta monaca.  ** Abutsu-Ni (1209 – 1283) Il mio cuore è nascosto è come il più profondo burrone della montagna: forse una lucciola si è accesa.  ** Kawai Chigetsu-Ni (1632 – 1736) Locuste  cinguettano nelle maniche  di uno spaventapasseri. * I gatti amoreggiano nel tempio ma se un uomo e una donna si accoppiassero in questo luogo, la gente urlerebbe allo scandalo.  ** Fukuda Chiyo-Ni (1703 – 1775) Cacciatore di libellule: fin dove hai vagato oggi? * Cuculo! Cuculo! Mentre meditavo su questo tema si alzò il sole.  ** Enomoto Seifu-Jo (1731 – 1814) Dormono tutti: nulla si frappone fra me e la luna. * Yosano Akiko (1878 – 1942) Speri sempre, mio cuore: per questo sempre accendo  una lampada al crepuscolo.  * Come il sole è il mio cuore: l’oscurità lo annienta la pioggia lo divora il vento lo bastona.  ** Chino Masako (1880 – 1946) Ho osato rivelarti il mio amore: ora mi nascondo nella luna è notte, è primavera. ** Baba Akiko (1928) Non conosco madre non sarò mai madre. Sorridiamo al sole io e una bambina senza volto.  * Autunno: le parole fanno il rumore dell’ascia – ho un demone dentro:  vuole alzarsi, andarsene.  ** Mitsuhashi Takajo (1899 – 1972) Cantano gli uccelli: i morti vagano sulle pianure del mare.  ** Yagi Mikajo (1924) L’utero del bosco è nel fiore: le sue branchie respirano.  * Le gambe di un maratoneta si aprono e chiudono come monaci sotto una cascata.  L'articolo “Finirò per svelare i miei segreti amori”. Rassegna di poetesse giapponesi proviene da Pangea.
October 25, 2025 / Pangea