Siamo posteri di noi stessi, poster di ectoplasmi. L’Accademia, la Casta, la Nicchia, ovvero: vivere di scrittura in Italia

Pangea - Saturday, November 15, 2025

Abitiamo festosamente le macerie del Novecento, scimmiottando la società letteraria ricca di vizi ma anche di virtù, che adesso non c’è più. Cucù. Anche i suoi presunti ultimi rappresentanti sono giunti al capolinea e, per carità, resistano finché possono, i poeti nati fra il ’45 e la fine degli anni Cinquanta, quelli che hanno potuto esordire in Feltrinelli, Mondadori, Guanda, Garzanti, Einaudi e giù di lì, poco più che ventenni, con illustri e lungimiranti padrini come garanti. Resistano, per carità, perché dopo di loro c’è il vuoto – o almeno così sembra. O la definitiva anarchia. Del resto, oggi le case editrici (anche le summenzionate) sono diventate bazar dove più del valore della merce conta il marchio.

Il marchio, a sua volta, è sempre meno quello dell’editore, sostituito dal nome dell’influencer di turno (maître à penser, per i nostalgici), che di scrivere un libro manco ci pensava (e talvolta al posto suo ci ha pensato, in effetti, qualche ghostwriter in affitto a prezzi stracciati, giacché l’IA incombe, e ciao ciao ben presto anche a questi servizi). Le riviste, i giornali? E chi li considera ancora? Giorni fa, sui social, Jonathan Bazzi (autore Mondadori, con titoli che sono stati sulla cresta dell’onda e pluripremiati, mica l’ultimo arrivato), pubblicava l’impietoso resoconto mensile del proprio conto corrente, sollevando l’annosa questione del precariato intellettuale. Vivere di scrittura, in Italia, è come mendicare, e poco vale addizionare recensioni, valanghe di traduzioni, anticipi su libri ancora da cominciare e chissà che altro: se rientri delle spese è un miracolo. Figurati se ti tocca vivere a Milano (gli scrittori di provincia? Suvvia. Altro tema del Novecento, rifiutato persino dal rigattiere, malgrado l’Italia resti, in sé stessa, una sterminata provincia). Però, su Radio3, incalzato dal conduttore di Fahrenheit, Bazzi stesso non sapeva come rispondere al dato, mercantile e impietoso: se a uno scrittore non va bene la paghetta, c’è una fila che aspetta. Rieccoci al problema della quantità: tutti scrivono e son pronti a tirare la cinghia, pur di mettere la firma dove ancora sbrilluccica l’aureola (un po’ infangata, vabbè, ma basta passarci su la manica e fa ancora la sua porca figura).

Abitiamo festosamente macerie. Siamo zombie tra lapidi. Siamo naufraghi su qualche scoglio del web, da fare bello come un atollo delle Maldive.

Ah, mica tutti, però. Perché se di scrittura c’è chi muore, di scrittura c’è anche chi vive. Dove?

Intanto, c’è un palazzo signorile, benché decadente, che resiste: l’Accademia. Solitamente è abitato da persone un po’ snob, che magari di letteratura ci capiscono fino a un certo punto. Per arrivare lì, del resto, hanno camminato con la testa all’indietro. Esperti di qualsiasi epoca, fino suppergiù al 1961. Lì si assediano i Novissimi, sigla che basta a certificare competenze aggiornate. Questi centri di ricerca dovrebbero sfornare anche narrazioni del contemporaneo, interpretazioni del presente, guide per districarsi nella produzione ipertrofica di presunti talenti. Macché. Terreno instabile, l’oggidì. Questi signori non investirebbero mai in talenti (peggio delle criptovalute): vogliono rendite sicure, perciò si occupano unicamente di patrimoni solidi, firmano quando il mucchietto di contanti è al sicuro sotto il materasso, si insediano nei latifondi in cui persiste una visione feudale e rassicurante del potere. Un giovane ricercatore, per esempio, mi ha spiegato qualche mese fa che la sua proposta di occuparsi di Simone Cattaneo è stata rifiutata. Avesse proposto un approfondimento su Nino Costa si sarebbe garantito il dottorato.

C’è aria frusta, in questi palazzi. Il vantaggio di poter propinare qualsiasi revisione del passato ai propri studenti, e quindi di vendere persino (udite udite) libri di saggistica letteraria (esiste merce più indigesta al mercato?), impone polmoni assuefatti. In ogni caso, a un certo punto ci si accorgerà di avere il fiato corto, se si sono mantenute velleità di scrittori. Nei propri versi l’aria frusta si sentirà eccome. Ma la riverenza ai nobili che circolano in carrozza è ancora dovuta. Chiarissimi dottori, né più né meno. I titoli sono depositati in borsa, conquistati con la fatica della fronte dopo anni di addestramento alla pazienza, di devozione ai maestri, di sopportazione dei colleghi a cui si sono fatte le scarpe con scaltrezza, al momento opportuno. 

L’ideale, però, per chi ambisce a vivere di scrittura, sarebbe calcare i palchi dei festivals, recitare la parte della star nei vernissage, okkupare le poltroncine rimaste disponibili in tivvù. Ecco l’ambiente migliore: la casta. Il problema è accedervi. E le vie per raggiungere la Casta sono infinite e misteriose. L’unica prova provata è che l’ultimo dei problemi è la qualità dell’opera letteraria. Potrei fare nomi e cognomi e spulciare pagine e pagine per dimostrare quanto spesso siano stati promossi al rango di eletti scrittori mediocri. E sia chiaro fin da subito che non c’è livore, non c’è invidia, nella constatazione. Senza spoilerarvi il finale di queste paginette, si sappia che non accetterei di sottoscrivere l’opera dei colleghi che ho visto partire dalle retrovie e che adesso sono celebrità, se ciò mi garantisse di prendere il loro posto. Anzi, diciamola fino in fondo: so bene che dietro alla loro brillante carriera si cela spesso l’ombra di una vita sacrificata sull’altare del successo. 

La casta si riconosce perché non considera mai chi non appartiene alla casta stessa. Il filo spinato che la protegge è stato nominato: amichettismo. Cartelli graziosi per infiocchettare il putridume. E si capisce: i privilegi vanno protetti. Le vie di accesso nascoste. Non si può rischiare di subire l’assalto degli affamati di gloria che impestano la città. L’arte, si sa, non è per nulla democratica.

Talvolta tra la casta e l’accademia esistono stanze in comune cui si accede attraverso corridoi esclusivi. Ma normalmente i nobili diffidano dei parvenus. Le star non hanno mica il sangue blu. (O caro Marx, ci manchi tu).

Ma se i piani alti non risultano accessibili, si possono trovare gradevoli appartamenti da condividere. Ci sono nicchie comode, magari non sempre con vista sul mare, ma affacciate su qualche piazza vivace, di nuova ideazione oppure con un illustre passato. I servizi non mancano e l’unione fa la forza. Pare di stare nella pubblicità di Del Piero e dei suoi condòmini: ognuno si sente a turno un fenomeno, in mezzo a gente simpatica. Niente amichettismo: qui si respira aria pulita di amicizia vera. La fibra regge, le novità arrivano, le assemblee sono festose e produttive. Non si confondano perciò queste nicchie letterarie con le case popolari dedite a pratiche folcloristiche (tipo la scrittura in metrica) o, peggio ancora, le sterminate periferie degradate, così liriche, maledette e lamentose.

E i social, come si inseriscono nel contesto? Direi che si tratta, semplicemente, delle finestre su questi palazzi: ci restituiscono l’immagine che noi vi proiettiamo. In effetti, le vetrine dell’Accademia sono oscurate, per lo più. Meglio non disturbare certi ambienti ancora vagamente sacri. Le finestre della casta, invece, sono costantemente illuminate e ci si affaccia solo ben vestiti e in posa. Sono palcoscenici di una recita. Quelle delle nicchie letterarie invece sono per lo più grandi occasioni di chiacchiera, se non di dibattito o addirittura di impegno civile. Qualche screzio potrà capitare, ma al più basterà cambiare lato e scegliere la finestra che si affaccia sul cortile opposto, in modo da restare in compagnia di gente simpatica, tutti amici con cui sparlare del resto del mondo.

Abitiamo festosamente le macerie del Novecento. Siamo alla crisi della crisi. Nutriamo la decadenza della decadenza. Scriviamo storie dopo la fine della storia. Animiamo i sussulti post mortem del cadavere occidentale. Ci consideriamo postmoderni, post-postmoderni, postpoeti. Siamo posteri di noi stessi, poster di ectoplasmi.

Ed è uno scenario bellissimo, tremendamente propizio. A parte le luminose eccezioni di persone e scrittori pazzeschi che si trovano ovunque (nell’accademia, nella casta radical chic, nelle nicchie iperletterarie, nei quartieri popolari e nelle periferie) e che attendono, come pepite dormienti nel fango, di essere trovati (basterebbe uno sguardo capace di discernere e una mente intenta a dimostrare), viviamo un’epoca così terminale da essere già pervasa, in qualche oscuro vicolo misconosciuto, dalla luce di un nuovo inizio.

Basterebbe, forse, vivere di vita, e non pretendere di vivere di scrittura.

Scrivete al cinque per cento, allora. Non aumentate la dose.

Andrea Temporelli

*In copertina e nel testo: disegni di Giandomenico Tiepolo (1727-1804)

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