Per quanto mi riguarda questo è l’ultimo capitolo della triade divinatoria de
“La Vita Agrissima”, cioè un attraversamento ironico, un po’ crudele e un po’
veritiero sui comportamenti degli scrittori. E – si badi bene – di tutte le
tipologie di scrittori: scriventi, poeti, poetastri, critici, narratori,
cantastorie, ecc. Insomma, tutti coloro che tentano di salire sulla barca che
affonda dell’editoria tradizionale, dove ormai non più soltanto le persone
serie, ma anche “i nani e le ballerine” degli anni Ottanta spadroneggiano di qua
e di là dalla scrivania.
Questo ultimo round riguarda un aspetto importante nella vita bibliografica di
ogni autore: come si creano le reputazioni letterarie? Si creano nei fasti del
palcoscenico, o nelle ombre del retropalco? Siamo in un momento storico in cui
gli attori letterari si mescolano più che in anni passati, trattenendo in loro
più mestieri e ruoli, soprattutto i critici fanno gli scrittori, gli accademici
fanno i poeti, i giornalisti fanno i narratori, i magistrati fanno i giallisti e
gli acrobati insegnano nelle scuole di scrittura creativa. Siamo tutti noi,
sconsiderati esercitatori di ego, che viviamo una vita agrissima a resistere in
un mondo sempre più a caccia di una specie in via di estinzione: la lettrice e
il lettore.
Ma torniamo alla domanda sulla reputazione di questa terza puntata de “La Vita
Agrissima”. La reputazione è un valore positivo che parla di qualcuno per come
gli altri lo vedono, quindi un vero e proprio giudizio esterno che può
determinare in positivo una carriera e custodirla post mortem. E anche nella
storia di un autore vale forse un buon inizio, come a scuola, per cui la
reputazione procederà secondo il primo giudizio rilevato. Ma non è sempre così.
E comunque: come si creano le reputazioni letterarie?
Ecco un elenco di modalità, divise per cinque tipologie.
La prima sono i modi canonici. Intendo, per esempio, il potere – non proprio il
potere politico o economico, ma piuttosto il potere relazionale, la capacità di
porsi favorevolmente di fronte agli altri. In questo caso è sempre utile una
presentazione autorevole di qualcuno che conta qualcosa, o ne ha l’aria. Oppure
i soldi possono aiutare nel breve periodo a una degna pubblicità, che però ha le
gambe corte. Su questa falsa riga si può citare pure il sesso, come veicolo
attrattivo di attenzione e considerazione. Infine l’esercizio della pietà:
saperla usare in maniera efficace ponendosi in una condizione di minorità può
suscitare forti emozioni nell’interlocutore o nei giovani critici che si
addentrano nella selva oscura letteraria e hanno il futuro a disposizione per
tenere un autore a galla, oppure ignorarlo.
La seconda sono i modi impersonali. Vale a dire il caso: una serie di situazioni
fortunate inanellate dietro una serie di presentazioni eccellenti. Oppure
il caos, come quando uno accompagna l’amico a presentare un romanzo a un editore
e l’editore sceglie l’accompagnatore… Un altro elemento è la fortuna che, come
da tradizione, è cieca.
La terza tipologia sono i modi fantasiosi. Cioè il vero talento, oppure
l’inganno, o l’uso di un nome falso che richiama qualcosa di grande. L’inganno è
quello che mi affascina più di altri, perché richiede astuzia e mente criminale
in chi lo esercita. È l’unico tipo per cui porto un esempio: Max Aub quando
inventò la biografia di un pittore che non era mai esistito e la critica d’arte
cadde nell’inganno, fino a pretendere una mostra dei suoi quadri che Max Aub
organizzò: al vernissage dichiarò la falsità dei suoi propositi. Il nome falso è
interessante: con uno pseudonimo si può ovviare a pregiudizi incancreniti sul
proprio nome – serve sangue freddo, alla Mr. Ripley. Il talento sta nei modi
fantasiosi perché è una condizione cui credo poco, o almeno la metto in
posizione condizionata dalla fortuna e dall’impegno, e ritengo possa essere
anche la maniera del soggetto di presentarsi. Il talento esiste, ma non è
direttamente proporzionale alla reputazione. Si può avere un gran talento
sprecato.
La quarta tipologia sono i modi borghesi. Per esempio la costruzione del merito,
la parrocchia e la bandina. La costruzione del merito pare quasi una reputazione
composta con pedissequa costanza ingegneristica, attenti a nominare sempre le
persone giuste, ringraziare a dovere chi si deve, ossequiare grandemente e
financo idolatrare chi bisogna, insomma darsi da fare per darsi un’aria di
merito. La parrocchia e la bandina potrebbero stare insieme. Tuttavia
la parrocchia nasce su un precetto morale, o su un manifesto ideologico: si fa
parte della solita parrocchia se costruiamo un cerchio tribale dentro cui gli
adepti sono famiglia e gli esterni rimangono inconsapevoli e incolti, gentaglia
che non può capire la profondità dei militanti. La parrocchia aiuta a mantenere
una degna reputazione anche una volta scomparsi, perché ci sarà sempre un
discepolo disposto a tramandare la carriera di chi lo ha preceduto nel posto
dove nessuno vorrebbe mai andare. La bandina invece, potrebbe essere un’alleanza
momentanea per un fine temporaneo, che serve comunque a far crescere la
reputazione dei soci della bandina, ma non ha vincoli morali, piuttosto è
contraddistinta da un mero utilitarismo.
Infine ci sono i modi strani. Insomma, un po’ il My Way sinatriano, cioè
faccio a modo mio. E di modi “a modo mio” se ne possono trovare moltissimi, per
questo sono difficilmente catalogabili, e al momento mi sfuggono…
Alessandro Agostinelli
*In copertina: una litografia di Roland Topor del 1968
L'articolo La vita agrissima 3. Inganno, soldi, caos. Ovvero: sui metodi per
costruirsi una reputazione letteraria proviene da Pangea.
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Nel 1991, per Adelphi, esce un libro sconvolgente. Un libro-boato, un
libro-baratro. S’intitola Sulla bilancia di Giobbe, l’autore si chiama Lev
Šestov. In pochi conoscevano Lev Šestov: in Italia, alcuni suoi testi erano
stati pubblicati negli anni Quaranta da Bocca, grazie ad Augusto Del Noce, un
pioniere. Anche oggi il nome di Lev Šestov – a dispetto di pensatori meno
radicali come Husserl e Heidegger, su cui impalcano cattedre accademiche, per
non dire di altri, i filosofi proni all’attualità, pronti all’uso, prêt-à-porter
– è susurrato nei sottoscala; se lo nomini ti tacciano di eresia, ti tacitano
con un dito a cucire le labbra. Perché? Perché Lev Šestov denuncia le subdole
manovre della filosofia, le menzogne della ragione, il disastro scientista,
sporgendosi sulla soglia dell’assoluto. Perché Šestov scommette sul mistero,
smantellando il calcolo. Dopo aver devastato sistematicamente ogni idolo e ogni
“sistema”, Šestov ci getta tra le fauci del Dio vivente – col rischio che non
esista altro che il Suo latrato, il deserto, il mirabile miraggio.
Insomma: Šestov non si può addomesticare. Intorno all’assurdo e
all’esistenzialismo hanno edificato università, cattedrali catafalchi del
niente; perfino Emil Cioran è diventato di moda, lo pubblicano a spron battuto
come se i suoi spietati aforismi fossero le veline dei Baci Perugina. Lev Šestov
no, rimane insondabile, inattingibile, reca il marchio del maniaco, del pazzo.
Così, viene stampato alla macchia, qua e là: appena Bompiani lo ha introdotto,
di diritto, nella nobile collana del “Pensiero occidentale”, con alcuni dei suoi
libri più importanti – Atene e Gerusalemme, Speculazione e rivelazione, Potestas
Clavium –, quasi subito è stato espulso. Il suo, in effetti, è un pensiero
dell’inappartenenza e della latitanza. Lev Šestov, nato a Kiev l’ultimo giorno
di gennaio del 1866, non ha affinità con i filosofi: è della stirpe degli Isaia
e dei Geremia, porta la parola fiammante di San Paolo, alterna anatema e grazia.
Fa coincidere gli opposti e parteggia per gli impossibili, si schiera contro gli
araldi del bene comune e i retori del nichilismo d’accatto; Lev Šestov è
l’autentico nemico del “progresso”, è l’avversario dell’oggi. Come considerare
uno che dichiara a chiare lettere che “non vi è nulla in comune fra la scienza e
la filosofia: non solo non si aiutano né si completano a vicenda, come si è
soliti pensare, ma lottano sempre fra loro”? Come trattare questo infallibile
terrorista del pensiero, ostile all’acquiescenza, al benessere, alle glorie
della tecnica, quando scrive che “una esistenza pacifica, gradevole, equilibrata
sopprime l’umano nell’uomo, lo riduce a pura vita vegetativa, lo immerge di
nuovo nel grembo di quel nulla da cui una forza enigmatica lo ha estratto”?
Proprio ora, più che allora – Lev Šestov muore nel 1938, nell’esilio parigino,
circondato da un generico timore reverenziale – questo pensatore integerrimo va
silenziato: è il solo a mettere in scacco il “mondo delle evidenze”, a
disintegrare i falsi dèi della scienza, della morale corrente, delle istituzioni
vigenti, dei “principi” ipocriti necessari a sancire la nostra beata
sottomissione. Nella sua strenua Lotta contro le evidenze – così il titolo di
uno dei testi più clamorosi, del 1922 – Lev Šestov, tramite una cruenta catabasi
nell’opera di Dostoevskij, marginalizza “la ragione, che uccide il mistero e la
verità”, insegna che “Dio non è dimostrabile. Non si può cercare Dio nella
storia. Egli è il ‘capriccio’ incarnato, che respinge ogni garanzia” e che
> “le verità sono per natura inutili: ogni tentativo di renderle utili, buone a
> tutti per sempre, ossia universali e necessarie, le trasforma immediatamente
> in errori”.
Già, ma come è possibile vivere senza appigli, nella protervia dell’urlo,
autenticamente liberi, cioè scevri dalla “conoscenza, l’autorità incontestabile,
infallibile, ai cui piedi tutti insieme possiamo prosternarci”? Come vivere
consapevoli che “verità e conoscenza scientifica sono inconciliabili”? Verità
vuol dire sapere che “Dio esige sempre l’impossibile”, vuol dire “vivere ore,
giorni, anni in un’atmosfera di evidenze contraddittorie che si escludono a
vicenda”, compiere gesti che al prossimo appaiono irrazionali e apocrifi,
proprio come fanno gli uomini del sottosuolo raccontati da Dostoevskij,
riconoscere
> “che quaggiù tutto comincia ma nulla finisce; che il capriccio ha diritto a
> garanzie, che il fantastico è più reale del naturale; che la vita è la morte e
> la morte è la vita”.
Figlio di un commerciante di tessuti dal piglio autoritario, Šestov studiò
Diritto a Mosca; scoprì tardi la vocazione al pensiero randagio, dedicando i
primi lavori a Shakespeare e a Tolstoj. Vide nella letteratura lo spiraglio alle
angustie della filosofia sistematica. Fece di tutto per sobillare se stesso, per
spogliarsi di ogni attributo intellettuale. Da bambino, era stato rapito per sei
mesi da un gruppo di anarchici; di stirpe ebraica, sposò clandestinamente una
giovane ortodossa: per anni, tennero nascosta la loro relazione, vagando di
città in città. Intruppato nella flotta dell’Armata rossa, perse il figlio,
Sergej, al fronte; nel 1921, disgustato dagli esiti della Rivoluzione, Šestov
approdò a Parigi, in un minuscolo appartamento. I suoi soli discepoli, pensatori
dalla singolarità disarmante, morirono entrambi in circostanze terribili:
Benjamin Fondane ad Auschwitz, nel ’44, nelle camere a gas; Rachel Bespaloff per
scelta, con il gas, nell’esilio americano, a South Hadley, Massachusetts.
A Genova, nel 1900, Lev Šestov mise a punto la sua Filosofia della tragedia,
dopo un geniale attraversamento nell’opera di Nietzsche e di Dostoevskij (edito
nel 1903, il libro è edito, per la cura di Luca Orlandini, dall’editore De
Piante). Cronachista della notte oscura dell’anima, temerario nel sondare il
lato oscuro di ogni idea, Šestov si appoggia ai soli, disperati autori che hanno
osato scarcerarci dai canoni del pensare comune, dichiarando che ciò che per
tutti è vero è menzogna, che l’idea del bene è altro dal Bene, che la giustizia
terrena è una truffa.
> “Dostoevskij e Nietzsche non tengono più conto dei bisogni dei buoni e dei
> giusti (Mill e Kant). Poiché hanno capito che il futuro dell’umanità, ammesso
> che l’umanità abbia ancora un futuro, non è nelle mani di coloro che oggi
> trionfano nella convinzione di possedere il bene e la giustizia, ma, al
> contrario, è nelle mani di coloro che, non conoscendo sonno, riposo o gioie,
> lottano e cercano e, abbandonando i vecchi ideali, vanno incontro a una nuova
> realtà, per quanto terribile e ripugnante possa sembrare loro”.
Questa “nuova realtà” passa dalla violenza dell’individuo sovrano – che non
accetta di farsi gregge, al trogolo del “buon senso”, e volta le spalle al
proprio tempo – alla voracità insaziabile del Dio vivente, il terribile, non
quello di cui si fa mercimonio nelle cattedrali, di cui si avverte l’eco da
ambigui amboni.
Šestov sapeva che lui e i suoi lettori sarebbero stati additati come “pazzi,
immorali, condannati e irrimediabilmente perduti”. Si sentiva in sintonia con
Pascal e con Spinoza, amava Plotino, quello che insegna che “la verità ultima…
ci viene dall’esterno, all’improvviso, grazie a un’illuminazione istantanea”,
che occorre “aspirare al miracolo”.
Albert Camus scrisse di lui nel Mito di Sisifo: quel pensatore che “esalta la
rivolta dell’uomo contro l’irrimediabile” lo aveva superato. Assiso sulla sua
poltrona, Šestov, uomo di scarsa ironia, dallo sguardo triste come l’eroe di un
poema di Puškin e dalla barbetta a machete, aveva sferrato l’attacco più
prodigioso mai tentato contro il nostro tempo.
*In copertina: una immagine da “Stalker”, il film di Andrej Tarkovskij del 1979
L'articolo Aspirare al miracolo. Un articolo per “pazzi, immorali, condannati e
irrimediabilmente perduti” proviene da Pangea.
Abitiamo festosamente le macerie del Novecento, scimmiottando la società
letteraria ricca di vizi ma anche di virtù, che adesso non c’è più. Cucù. Anche
i suoi presunti ultimi rappresentanti sono giunti al capolinea e, per carità,
resistano finché possono, i poeti nati fra il ’45 e la fine degli anni
Cinquanta, quelli che hanno potuto esordire in Feltrinelli, Mondadori, Guanda,
Garzanti, Einaudi e giù di lì, poco più che ventenni, con illustri e
lungimiranti padrini come garanti. Resistano, per carità, perché dopo di loro
c’è il vuoto – o almeno così sembra. O la definitiva anarchia. Del resto, oggi
le case editrici (anche le summenzionate) sono diventate bazar dove più del
valore della merce conta il marchio.
Il marchio, a sua volta, è sempre meno quello dell’editore, sostituito dal nome
dell’influencer di turno (maître à penser, per i nostalgici), che di scrivere un
libro manco ci pensava (e talvolta al posto suo ci ha pensato, in effetti,
qualche ghostwriter in affitto a prezzi stracciati, giacché l’IA incombe, e ciao
ciao ben presto anche a questi servizi). Le riviste, i giornali? E chi li
considera ancora? Giorni fa, sui social, Jonathan Bazzi (autore Mondadori, con
titoli che sono stati sulla cresta dell’onda e pluripremiati, mica l’ultimo
arrivato), pubblicava l’impietoso resoconto mensile del proprio conto corrente,
sollevando l’annosa questione del precariato intellettuale. Vivere di scrittura,
in Italia, è come mendicare, e poco vale addizionare recensioni, valanghe di
traduzioni, anticipi su libri ancora da cominciare e chissà che altro: se
rientri delle spese è un miracolo. Figurati se ti tocca vivere a Milano (gli
scrittori di provincia? Suvvia. Altro tema del Novecento, rifiutato persino dal
rigattiere, malgrado l’Italia resti, in sé stessa, una sterminata provincia).
Però, su Radio3, incalzato dal conduttore di Fahrenheit, Bazzi stesso non sapeva
come rispondere al dato, mercantile e impietoso: se a uno scrittore non va bene
la paghetta, c’è una fila che aspetta. Rieccoci al problema della quantità:
tutti scrivono e son pronti a tirare la cinghia, pur di mettere la firma dove
ancora sbrilluccica l’aureola (un po’ infangata, vabbè, ma basta passarci su la
manica e fa ancora la sua porca figura).
Abitiamo festosamente macerie. Siamo zombie tra lapidi. Siamo naufraghi su
qualche scoglio del web, da fare bello come un atollo delle Maldive.
Ah, mica tutti, però. Perché se di scrittura c’è chi muore, di scrittura c’è
anche chi vive. Dove?
Intanto, c’è un palazzo signorile, benché decadente, che resiste:
l’Accademia. Solitamente è abitato da persone un po’ snob, che magari di
letteratura ci capiscono fino a un certo punto. Per arrivare lì, del resto,
hanno camminato con la testa all’indietro. Esperti di qualsiasi epoca, fino
suppergiù al 1961. Lì si assediano i Novissimi, sigla che basta a certificare
competenze aggiornate. Questi centri di ricerca dovrebbero
sfornare anche narrazioni del contemporaneo, interpretazioni del presente, guide
per districarsi nella produzione ipertrofica di presunti talenti. Macché.
Terreno instabile, l’oggidì. Questi signori non investirebbero mai in talenti
(peggio delle criptovalute): vogliono rendite sicure, perciò si occupano
unicamente di patrimoni solidi, firmano quando il mucchietto di contanti è al
sicuro sotto il materasso, si insediano nei latifondi in cui persiste una
visione feudale e rassicurante del potere. Un giovane ricercatore, per esempio,
mi ha spiegato qualche mese fa che la sua proposta di occuparsi di Simone
Cattaneo è stata rifiutata. Avesse proposto un approfondimento su Nino Costa si
sarebbe garantito il dottorato.
C’è aria frusta, in questi palazzi. Il vantaggio di poter propinare qualsiasi
revisione del passato ai propri studenti, e quindi di vendere persino (udite
udite) libri di saggistica letteraria (esiste merce più indigesta al mercato?),
impone polmoni assuefatti. In ogni caso, a un certo punto ci si accorgerà di
avere il fiato corto, se si sono mantenute velleità di scrittori. Nei propri
versi l’aria frusta si sentirà eccome. Ma la riverenza ai nobili che circolano
in carrozza è ancora dovuta. Chiarissimi dottori, né più né meno. I titoli sono
depositati in borsa, conquistati con la fatica della fronte dopo anni di
addestramento alla pazienza, di devozione ai maestri, di sopportazione dei
colleghi a cui si sono fatte le scarpe con scaltrezza, al momento opportuno.
L’ideale, però, per chi ambisce a vivere di scrittura, sarebbe calcare i palchi
dei festivals, recitare la parte della star nei vernissage, okkupare le
poltroncine rimaste disponibili in tivvù. Ecco l’ambiente migliore: la casta. Il
problema è accedervi. E le vie per raggiungere la Casta sono infinite e
misteriose. L’unica prova provata è che l’ultimo dei problemi è la qualità
dell’opera letteraria. Potrei fare nomi e cognomi e spulciare pagine e pagine
per dimostrare quanto spesso siano stati promossi al rango di eletti scrittori
mediocri. E sia chiaro fin da subito che non c’è livore, non c’è invidia, nella
constatazione. Senza spoilerarvi il finale di queste paginette, si sappia che
non accetterei di sottoscrivere l’opera dei colleghi che ho visto partire dalle
retrovie e che adesso sono celebrità, se ciò mi garantisse di prendere il loro
posto. Anzi, diciamola fino in fondo: so bene che dietro alla loro brillante
carriera si cela spesso l’ombra di una vita sacrificata sull’altare del
successo.
La casta si riconosce perché non considera mai chi non appartiene alla casta
stessa. Il filo spinato che la protegge è stato nominato: amichettismo. Cartelli
graziosi per infiocchettare il putridume. E si capisce: i privilegi vanno
protetti. Le vie di accesso nascoste. Non si può rischiare di subire l’assalto
degli affamati di gloria che impestano la città. L’arte, si sa, non è per nulla
democratica.
Talvolta tra la casta e l’accademia esistono stanze in comune cui si accede
attraverso corridoi esclusivi. Ma normalmente i nobili diffidano dei parvenus.
Le star non hanno mica il sangue blu. (O caro Marx, ci manchi tu).
Ma se i piani alti non risultano accessibili, si possono trovare gradevoli
appartamenti da condividere. Ci sono nicchie comode, magari non sempre con vista
sul mare, ma affacciate su qualche piazza vivace, di nuova ideazione oppure con
un illustre passato. I servizi non mancano e l’unione fa la forza. Pare di stare
nella pubblicità di Del Piero e dei suoi condòmini: ognuno si sente a turno un
fenomeno, in mezzo a gente simpatica. Niente amichettismo: qui si respira aria
pulita di amicizia vera. La fibra regge, le novità arrivano, le assemblee sono
festose e produttive. Non si confondano perciò queste nicchie letterarie con le
case popolari dedite a pratiche folcloristiche (tipo la scrittura in metrica) o,
peggio ancora, le sterminate periferie degradate, così liriche, maledette e
lamentose.
E i social, come si inseriscono nel contesto? Direi che si tratta,
semplicemente, delle finestre su questi palazzi: ci restituiscono l’immagine che
noi vi proiettiamo. In effetti, le vetrine dell’Accademia sono oscurate, per lo
più. Meglio non disturbare certi ambienti ancora vagamente sacri. Le finestre
della casta, invece, sono costantemente illuminate e ci si affaccia solo ben
vestiti e in posa. Sono palcoscenici di una recita. Quelle delle nicchie
letterarie invece sono per lo più grandi occasioni di chiacchiera, se non di
dibattito o addirittura di impegno civile. Qualche screzio potrà capitare, ma al
più basterà cambiare lato e scegliere la finestra che si affaccia sul cortile
opposto, in modo da restare in compagnia di gente simpatica, tutti amici con cui
sparlare del resto del mondo.
Abitiamo festosamente le macerie del Novecento. Siamo alla crisi della crisi.
Nutriamo la decadenza della decadenza. Scriviamo storie dopo la fine della
storia. Animiamo i sussulti post mortem del cadavere occidentale. Ci
consideriamo postmoderni, post-postmoderni, postpoeti. Siamo posteri di noi
stessi, poster di ectoplasmi.
Ed è uno scenario bellissimo, tremendamente propizio. A parte le luminose
eccezioni di persone e scrittori pazzeschi che si trovano ovunque
(nell’accademia, nella casta radical chic, nelle nicchie iperletterarie, nei
quartieri popolari e nelle periferie) e che attendono, come pepite dormienti nel
fango, di essere trovati (basterebbe uno sguardo capace di discernere e una
mente intenta a dimostrare), viviamo un’epoca così terminale da essere già
pervasa, in qualche oscuro vicolo misconosciuto, dalla luce di un nuovo inizio.
Basterebbe, forse, vivere di vita, e non pretendere di vivere di scrittura.
Scrivete al cinque per cento, allora. Non aumentate la dose.
Andrea Temporelli
*In copertina e nel testo: disegni di Giandomenico Tiepolo (1727-1804)
L'articolo Siamo posteri di noi stessi, poster di ectoplasmi. L’Accademia, la
Casta, la Nicchia, ovvero: vivere di scrittura in Italia proviene da Pangea.
Ricorsivamente ci poniamo le solite domande. Come si diventa scrittori? C’è una
formula segreta? C’è una chiave che bisogna portarsi appresso? Si deve conoscere
qualcuno che conta?
Ecco le domande che spesso sento fare a qualche aitante e giovane erudito.
Mentre da parte mia, a questo punto della storia, la domanda è piuttosto
un’altra: perché sto passando la mia vita a scrivere? Ma questa è un’altra
storia.
*
Editoria in crisi, proposte in rialzo
Le vendite dei libri sono in calo; il numero degli scrittori aumenta. È
difficile spiegare come possa reggersi in piedi un sistema del genere. Il
settore editoriale è forse l’unico in cui mentre la barca affonda tutti vogliono
salirci sopra.
La categoria che prendo in esame è nell’accezione più larga possibile. Quindi
per scrittori intendo scriventi, poeti, poetastri, narratori, prosivendoli,
saggisti, ghost writer, ecc. Questo perché tanto, nella migliore delle ipotesi,
il 99% di noi scomparirà dall’orizzonte letterario nazionale nel giro di qualche
decennio dalla propria dipartita da questa terra. Alcuni resteranno per aver
invaso le pagine dei giornali dei loro tempi, altri perché saranno precipitati
nei manuali scolastici e altri perché qualche erede compiacente (che avrà gusto
o necessità di ricevere ancora i diritti sulle opere) si darà un sacco da fare
per mantenere viva l’attenzione sullo scalpo del proprio familiare – ed è una
delle cose migliori che possano capitare a un autore. Ma forse questo è una
maniera arcaica di vedere la cosa.
*
Social e AI
Potrebbe essere che qualcuno resterà sui social, con la sua pagina che sarà
riempita di contenuti pure dopo la sua morte, dalla moglie che conosceva la
password, da un amico, da una figlia, da un parente, da un’associazione di fans
sfegatati. Resteranno solo tre frasi espunte da un romanzo e per quelle tre
frasi resterà il nome dello sventurato. Una vita passata a scrivere centinaia di
pagine, quando bastava aver scritto tre trite frasi a effetto et voilà, era
bell’e fatto!
Oppure, qualcuno scopre online dei testi di un bravo scrittore, non assurto alla
fama modesta del mondo letterario, indica una traccia romanzesca e inserisce in
un programma di AI generativa grandi brani di quello scrittore, creando una
nuova opera.
Insomma, chissà come andrà a finire? E solitamente è proprio questo che
interessa tutti: come andrà a finire. Ma per sapere come andrà a finire, c’è da
vedere prima come si può cominciare, cioè qualche maniera di diventare
scrittori. Ecco allora sette modi per pubblicare, in cui qualcuno di voi
potrebbe riconoscersi. Con sorpresa finale (non andate a leggere subito la
fine).
*
Censo Sei ricco, hai beni e risorse da spendere: puoi ottenere, più o meno, ciò
che desideri. Quindi anche una pubblicazione presso un editore, più o meno noto.
Se poi il tuo testo non ha qualcosa di buono da utilizzare per un libro, pace.
Resta il fatto che se le doti letterarie non bastano, con i soldi potrai pagare
un ghost writer e il gioco è fatto.
Amicizia Se conosci l’editor di un grande editore e ce l’hai in pugno sei a buon
punto. Sei proprio amico, puoi chiedergli di pubblicare il tuo libro. Questa
modalità resta la più sanguigna e improbabile perché – sia detto senza remore –
gli editor non hanno amici, non tengono famiglia e sono tutelati nella privacy
più delle spie di Sua Maestà britannica… Meglio conoscere il proprietario della
casa editrice. A lui oggi raramente dicono di no (ti accontenterai di un “fuori
collana”).
Sesso Sei giovane. Uomo o donna non fa differenza. Sei giovane e vuoi diventare
scritt*. Qua conta un po’ la bellezza, ma soprattutto le armi classiche della
seduzione, che sono sempre un incrocio tra santità e puttanaio. Aprire le porte
dell’editoria col sesso è un modo banale di entrarci.
Tenacia Puoi occupare l’atrio della casa editrice. Piazzarti per giorni,
settimane, mesi accampato là dentro, con sottobraccio i fogli del tuo romanzo
che tu ritieni indispensabile all’umanità. Soprattutto deve essere questo il tuo
convincimento, non di meno: un libro indispensabile. Forse, stremato dalla tua
costanza, ci sarà qualche impiegato che trova la maniera di portarti di fronte
al giudice supremo della casa editrice.
Fortuna Ci sono vari livelli di fortuna. C’è chi vince un concorso solo perché,
un po’ come l’allineamento positivo dei pianeti in astrologia, la giuria ha
letto quel testo in un momento favorevole per ciascun giurato. Della serie:
questo testo non è un capolavoro, ma è quello che mi ha meno disturbato, o più
divertito, o meno addormentato, o più interrogato, o… ad libitum. C’è chi ha
inviato un dattiloscritto per posta e ora quel testo staziona da mesi in una
busta sotto una pila di altre buste, accanto a pile di altre buste, sulle
scrivanie addossate al muro di un ufficio editoriale. L’editore incontra il suo
consigliere alla pubblicazione, alza una pila, toglie delle buste e ne prende
una a caso, la tua. Ecco, al lettore il testo piace. Si va in stampa.
Bravura Sei bravo. Lo sai. Te lo hanno detto scrittori affermati e agenti
letterari svogliati. Prendi il libro e lo porti alla casa editrice della tua
città che lo pubblica. L’editore è piccolo, il mondo editoriale non si accorge
di nulla. Sei bravo. Te l’hanno detto. Pubblichi, non si sa come, con un editore
importante, il libro non è spinto sulla stampa, il mondo editoriale non si
accorge di nulla. Sei bravo. Pubblichi con un editore conosciuto che segue il
libro e lo pubblicizza. Vendi poco più di mille copie, il mondo editoriale non
si accorge di nulla.
Circostanze Un agente letterario accetta di curare i tuoi interessi editoriali.
Proponi due libri. Il primo non se lo fila nessuno e tu ritenevi fosse il
migliore. Quello che invece avevi scritto controvoglia viene pubblicato perché –
dice l’agente – era proprio l’argomento che l’editore stava cercando…
*
Post Scriptum
Questi modi di pubblicare corrispondono a storie vere di alcuni scrittori in
carne e ossa, di cui qui non menzionerò nemmeno il soprannome.
Alessandro Agostinelli
*In copertina: Ernest Hemingway, uno scrittore
L'articolo La vita agrissima. Sette modi per diventare scrittori proviene da
Pangea.
Un grande libro scomparso dalle nostre librerie tormenta il mio famelico cuore
di lettore. È un romanzo maledetto, scritto da un maliano in lingua francese, Le
devoir de violence, Dovere di violenza, di Yambo Ouologuem. Fu pubblicato nel
1968 dall’editore Seuil e tradotto in italiano due anni dopo da il Saggiatore,
ma da noi non è mai più stato ristampato.
Non se ne trova una copia nemmeno nei meandri della Rete, a nessun prezzo: in
Italia Il dovere di violenza è un libro che sembra non essere mai esistito. Per
leggerlo mi sono dovuto procurare la nuova edizione francese, del 2018, sempre
dell’editore Seuil. C’è inoltre una bella versione inglese, Bound to violence,
pubblicata da uno dei maggiori editori europei, Penguin Books. Eppure in Italia
nessuno ha ancora pensato di ripubblicare Il dovere di violenza.
Yambo Ouologuem, nato nel 1940 e morto – completamente dimenticato – nel 2017, è
riassurto ai dubbi onori delle cronache letterarie francesi dopo la
pubblicazione e la consacrazione di un altro grande romanzo di un autore
africano, La più recondita memoria degli uomini, di Mohamed Mbougar Sarr, libro
vincitore del premio Goncourt nel 2021, edito in Italia da e/o. Il libro di Sarr
è dedicato proprio a Yambo Ouologuem, che di fatto è anche un personaggio del
romanzo, il misterioso T. C. Elimane, da alcuni chiamato il “Rimbaud négre”, sul
quale Diégane Latyr Faye, il protagonista del libro di Sarr, investiga.
Elimane ha scritto un libro ingiustamente (o giustamente?) accusato di
plagio, Il labirinto del disumano, che semina morti e misteri intorno a sé. La
vicenda ricalca la vita di Yambo Ouologuem, che ebbe un grande successo e vinse
addirittura il prix Renaudot ma che poi – tre anni dopo quel clamoroso esordio –
fu accusato di plagio e boicottato dai suoi stessi editori. Il suo unico
romanzo, fino ad allora considerato un capolavoro, fu mandato al macero. Si
insinuava che Ouologuem avesse copiato da André Schwarz-Bart, da Graham Greene e
da Maupassant: era un plagiario. Spaventati dal clamore dello scandalo, gli
stessi critici che lo avevano osannato ritrattarono i loro articoli e dissero di
essere stati imbrogliati. Yambo Ouologuem smise di scrivere. Solo, amareggiato,
tornò in Africa e nessuno seppe più niente di lui. Anche per questo T. C.
Elimane, il suo alter ego romanzesco inventato da Mohamed Mbougar Sarr, è
chiamato il “Rimbaud negro”: perché è scomparso in Africa.
Ci voleva un altro grande romanzo per far risorgere Le devoir de
violence dall’oblio. Quando Sarr vinse il premio Goncourt con un libro dedicato
a Ouologuem, in molti – me compreso – si chiesero chi fosse questo tale, Yambo
Ouologuem. A poco a poco si ricominciò a parlare di lui e così il suo libro
conquistò dei nuovi accoliti. Adesso in Francia Le devoir de violence è
finalmente considerato uno dei grandi romanzi africani del Novecento, una storia
complessa, non sempre scorrevole, che si dipana attraverso i secoli e tratta di
amore e di crudeltà, cioè dei grandi temi di sempre, quelli che smuovono la
mente e il cuore, fra dinastie di re fratricidi e amori e disillusioni. Yambo
Ouologuem è il grande cantore di un continente che la Storia ha sempre
maltrattato, eppure nelle sue pagine non c’è traccia di autocompatimento.
Ouologuem non piagnucola, racconta.
Ci sarebbe molto da dire su come i critici parigini del dopoguerra rendessero le
cose difficili agli autori per loro non del tutto francesi, gli “impuri”, i
“bastardi”. Si pensi a Romain Gary, che fu accusato da molti di scrivere in modo
assurdo, talmente abborracciato da non poter essere considerato neanche
“francese”, sostenevano, almeno finché il grande Gary non si prese la sua
vendetta (postuma) pubblicando diversi libri con lo pseudonimo di Émile Ajar e
rivincendo persino il prix Goncourt, premio che notoriamente si può ottenere
solo una volta nella vita. Gli stessi critici che per anni avevano stroncato
Gary ora si sdilinquivano per Ajar, cioè per Gary sotto false vesti.
Il caso di Yambo Ouologuem è meno felice, visto che quando un autore isolato
arriva al successo – e Ouologuem era un outsider ed ebbe successo – non manca
mai chi si arma di malizia e di infamia e lo accusa di barare. Yambo Ouologuem
era un imbroglione. Aveva turlupinato tutti. Tale era l’opinione corrente, che
condannò il suo libro al macero e lui stesso all’oblio. Forse per questa ragione
in Italia non si trovano più copie di Il dovere di violenza: perché sono state
date alle fiamme. Yambo Ouologuem era un plagiario. Non bisognava parlarne,
ricordarne l’opera. Doveva essere dimenticato, e con lui il suo libro.
Yambo Ouologuem era uno scrittore. Quando Diégane Latyr Faye, il protagonista di
Mohamed Mbougar Sarr, legge Il labirinto del disumano, che nella finzione
romanzesca altro non è che il capolavoro di Yambo Ouologuem, Le devoir de
violence, scrive (nella traduzione di Alberto Bracci Testasecca):
> “Caro diario, ti scrivo solo per dirti quanto Il Labirinto del disumano mi
> abbia impoverito. I grandi libri impoveriscono e devono sempre impoverire.
> Rimuovono da noi il superfluo. Dalla loro lettura usciamo sempre privati di
> molte cose: arricchiti, ma arricchiti per sottrazione”
Sarr sta evidentemente parlando di Le devoir de violence, libro che lo ha
sconvolto.
Ancora: più avanti Diégane aggiunge una nota di un critico del Mercure de
France, tale Léon Bercoff, che fa così:
> “Leggendo certi commenti sul Labirinto del disumano non abbiamo più dubbi: a
> dare fastidio è il colore dello scrittore. È la sua razza a fare scandalo. Il
> signor Elimane è comparso troppo presto in un’epoca che non è ancora pronta a
> vedere i neri eccellere in tutti i campi, compreso quello dell’arte. Forse un
> giorno quel tempo arriverà, chi lo sa. Per il momento Elimane dev’essere un
> precursore coraggioso, un esempio. Deve farsi vedere, parlare e dimostrare a
> tutti i razzisti che un negro può essere un grande scrittore.”
Un nero può essere un grande scrittore. Yambo Ouologuem preferì invece lo sdegno
e l’oblio. “Forse la risposta di Elimane fu il silenzio” chiosa Sarr. “Ma cos’è
uno scrittore che tace?” Ouologuem se ne era andato e taceva. Era uno scrittore
ed era nero e aveva avuto successo, cosa che nessuno era disposto a
perdonargli. Sarr ha ribadito più volte che il suo T. C. Elimane è lui,
Ouologuem, e che Il labirinto del disumano è Le devoir de violence, Il dovere di
violenza, il grande libro dimenticato di un grande autore scomparso.
Forse sarebbe ora di riportare Yambo Ouologuem anche nelle librerie italiane. O
non siamo ancora pronti?
Edoardo Pisani
L'articolo Vita tragica di Yambo Ouologuem, il “Rimbaud negro”. Siamo pronti a
ripubblicarlo? proviene da Pangea.
Qualche giorno fa, il 5 agosto, sul “Corriere della Sera”, Luciano Canfora, lo
storico, ha firmato un lungo pezzo, s’intitola: “Il senso della storia, dono
divino”. Pretesto dell’articolo, la pubblicazione, per la “piccola e vivace casa
editrice lucchese Le Vele”, di Qoelet, il formidabile, corrosivo testo biblico.
Si tratta del libro che inaugura “una grande opera dissodatrice” (copy Canfora):
la pubblicazione, tomo per tomo, della Bibbia, per fini culturali (consentire la
lettura della Bibbia ai più) più che ecumenici. Non è esattamente una novità:
già Einaudi, a cavallo del millennio, aveva tentato un’operazione simile.
I Salmi, “ragguardevoli non solo sul piano religioso ma anche su quello
letterario” (dida di infantile inutilità) erano introdotti da Bono; il Vangelo
secondo Marco da Nick Cave; il Qohèlet da Doris Lessing. La traduzione d’uso,
allora, era di quella di Filippo Nardoni; l’iniziativa, eguale a quella proposta
da Le Vele (“La Bibbia pensata non come testo di fede per fedeli, ma come testo
di lettura per lettori”), durò poco, una manciata di anni. La collana inaugurata
dall’editore Le Vele – che s’intitola, va da sé, come quella Einaudi, “I libri
della Bibbia” – è curata da Sergio Valzania, giornalista, autore radiofonico
Rai, scrittore: tra l’altro, ha scritto “una nota” a un antico libro di
Canfora, 1914 (Sellerio, 2006).
L’articolo del “Corriere” – à la Canfora: vigoroso, ruvido, ma anche un po’
superficiale nelle sintesi – mi è stato mostrato da un amico, uno di quelli
sempre pronti a salvarti dal baratro, con un certo sconcerto. Negli stessi mesi,
infatti, per De Piante è uscita una versione di Qoelet, culmine di un progetto
editoriale di pubblicazione, libro per libro, del canone biblico. Il
progetto, inaugurato nel 2022 con Genesi, non riproduce il Testo secondo la
versione Cei che tutti hanno sul comodino (“accogliendone purtroppo anche i
difetti”, così Canfora): l’idea, titanica, è quella di affidare “i singoli libri
della Bibbia a narratori, poeti, pensatori di oggi”. In
particolare, Genesi e Isaia sono stati tradotti dall’artista e scrittore
polimorfico Gian Ruggero Manzoni e Apocalisse dal poeta e fine
grecista Giancarlo Pontiggia. L’idea di Qoelet – uscito dai torchi nel marzo del
’25 –, testo magnetico come pochi altri, è più complessa. Il testo è tradotto,
secondo una nuova ipotesi sul ritmo e sul suono, da Stefano Arduini, linguista,
teorico della traduzione (tra gli ultimi libri: Traduzioni in cerca di
originale. La Bibbia e i suoi traduttori, Jaca Book, 2021), traduttore, tra
l’altro, di Giovanni della Croce (per Città Nuova). A questa versione, si
affianca la mia – a dire della lotta tra i botri e i dogi del linguaggio – e
quella, storica, di Massimo Bontempelli. Quest’ultima, ha un’importanza storica
peculiare perché testimonia una sotterranea ma pur robusta ‘tradizione’ della
traduzione biblica da parte degli scrittori italiani: pensiamo ai Vangeli
tradotti da Diego Valeri, Corrado Alvaro, Nicola Lisi e Bontempelli,
alla Lettera ai Corinzi secondo Giovanni Testori, alle versioni di Ceronetti e
ai tentativi di Emilio Villa, all’innario di David Maria Turoldo, fino ai
reperti di Erri De Luca. Su questa scia, Roberta Rocelli, nella scorsa edizione
del “Festival Biblico”, ha ideato il Salterio dei Poeti, il primo germe della
traduzione dei Salmi ad opera dei poeti di oggi: tra gli altri, hanno
partecipato Mariangela Gualtieri e Andrea Ponso, Giuseppe Conte e Federico
Italiano, Francesca Serragnoli, Alessandro Rivali, Susan Stewart e John
Kinsella. Ne abbiamo scritto a lungo.
Insomma, è da tempo che si opera nel ring del testo biblico. Per chiudere con i
dati: nel 2010 proprio Stefano Arduini, insieme all’editore Walter Raffaelli,
hanno fondato la collana “La Bibbia” con gli stessi intenti – la pubblicazione,
libro per libro, del canone, in nuova traduzione. Erano libri deliziosi, in
formato minino, da tenere in una mano: ferine falene di carta. Sono usciti, in
quel contesto, il Cantico dei Cantici secondo Andrea Temporelli, l’Esodo secondo
Gian Ruggero Manzoni, Il libro di Giona secondo Giovanni Tuzet. Uno
scrittore-cantautore come Leonardo Bonetti avrebbe ‘musicato’ il libro di
Daniele; tra i protagonisti del progetto – di cui qualche giornale ha detto –
figurava il poeta Pier Luigi Cappello – io ho tradotto le Lamentazioni. Ma
queste sono minuzie.
Bisognerebbe, piuttosto, domandarsi se tradurre un libro biblico sia come
tradurne qualsiasi altro: se, per dire, tradurre Geremia o le lettere di
Giovanni sia come tradurre Emily Dickinson o Rimbaud. Come scriveva Edgard Wind
in Arte e anarchia, l’uso ha un suo peso: una Crocefissione appesa da secoli in
una cattedrale, che ha accolto le preghiere di migliaia di fedeli (divorandone
le intenzioni e il cuore), è diversa da una Crocefissione esposta in un museo,
sotto gli occhi di attenti – o disattenti – ‘fruitori’ d’arte. insomma: la
Bibbia ha un ‘peso’ diverso, la traduzione – come postula San Paolo – è un
carisma. Non si può tradurre senza precipitare. Il rischio di abbellimento
retorico – sempre presente nel lavorio degli artisti – è sacrilegio, è
idolatria: tradurre vuol dire scotennare, levare l’ultimo velo al Volto. Che se
ne torni inceneriti è norma.
Ma qui vado per erbe avvelenate.
Torniamo a noi. È evidente che esistano alcuni eventi culturali, alcune
avventure dello spirito, non marginali, tuttavia per sempre ignote alle ‘grandi
firme’, ostili ai ‘grandi palchi’. Sono invisibili. Rimangono paria. Frotte di
lebbrosi. Perché Luciano Canfora, parlando di una nuova, meritoria edizione
di Qoelet non ha fatto riferimento al Qoelet edito da De Piante negli stessi
mesi, rintracciabile in ogni repertorio digitale? Escludendo la malafede, resta
l’ignoranza. Se è così, è grave: è come se uno storico, organizzando i fatti,
non conoscesse una fonte autorevole.
Per il resto, basta Qoelet, cioè la beatitudine della vanità. “Non arrabbiarti:
l’ira/ alberga nel petto del vile”, dice il sapiente.
*In copertina: Memento mori, studio di cranio, XVII secolo
L'articolo La “qoeletica” ignoranza di Luciano Canfora. Vane riflessioni
proviene da Pangea.