Ricorsivamente ci poniamo le solite domande. Come si diventa scrittori? C’è una
formula segreta? C’è una chiave che bisogna portarsi appresso? Si deve conoscere
qualcuno che conta?
Ecco le domande che spesso sento fare a qualche aitante e giovane erudito.
Mentre da parte mia, a questo punto della storia, la domanda è piuttosto
un’altra: perché sto passando la mia vita a scrivere? Ma questa è un’altra
storia.
*
Editoria in crisi, proposte in rialzo
Le vendite dei libri sono in calo; il numero degli scrittori aumenta. È
difficile spiegare come possa reggersi in piedi un sistema del genere. Il
settore editoriale è forse l’unico in cui mentre la barca affonda tutti vogliono
salirci sopra.
La categoria che prendo in esame è nell’accezione più larga possibile. Quindi
per scrittori intendo scriventi, poeti, poetastri, narratori, prosivendoli,
saggisti, ghost writer, ecc. Questo perché tanto, nella migliore delle ipotesi,
il 99% di noi scomparirà dall’orizzonte letterario nazionale nel giro di qualche
decennio dalla propria dipartita da questa terra. Alcuni resteranno per aver
invaso le pagine dei giornali dei loro tempi, altri perché saranno precipitati
nei manuali scolastici e altri perché qualche erede compiacente (che avrà gusto
o necessità di ricevere ancora i diritti sulle opere) si darà un sacco da fare
per mantenere viva l’attenzione sullo scalpo del proprio familiare – ed è una
delle cose migliori che possano capitare a un autore. Ma forse questo è una
maniera arcaica di vedere la cosa.
*
Social e AI
Potrebbe essere che qualcuno resterà sui social, con la sua pagina che sarà
riempita di contenuti pure dopo la sua morte, dalla moglie che conosceva la
password, da un amico, da una figlia, da un parente, da un’associazione di fans
sfegatati. Resteranno solo tre frasi espunte da un romanzo e per quelle tre
frasi resterà il nome dello sventurato. Una vita passata a scrivere centinaia di
pagine, quando bastava aver scritto tre trite frasi a effetto et voilà, era
bell’e fatto!
Oppure, qualcuno scopre online dei testi di un bravo scrittore, non assurto alla
fama modesta del mondo letterario, indica una traccia romanzesca e inserisce in
un programma di AI generativa grandi brani di quello scrittore, creando una
nuova opera.
Insomma, chissà come andrà a finire? E solitamente è proprio questo che
interessa tutti: come andrà a finire. Ma per sapere come andrà a finire, c’è da
vedere prima come si può cominciare, cioè qualche maniera di diventare
scrittori. Ecco allora sette modi per pubblicare, in cui qualcuno di voi
potrebbe riconoscersi. Con sorpresa finale (non andate a leggere subito la
fine).
*
Censo Sei ricco, hai beni e risorse da spendere: puoi ottenere, più o meno, ciò
che desideri. Quindi anche una pubblicazione presso un editore, più o meno noto.
Se poi il tuo testo non ha qualcosa di buono da utilizzare per un libro, pace.
Resta il fatto che se le doti letterarie non bastano, con i soldi potrai pagare
un ghost writer e il gioco è fatto.
Amicizia Se conosci l’editor di un grande editore e ce l’hai in pugno sei a buon
punto. Sei proprio amico, puoi chiedergli di pubblicare il tuo libro. Questa
modalità resta la più sanguigna e improbabile perché – sia detto senza remore –
gli editor non hanno amici, non tengono famiglia e sono tutelati nella privacy
più delle spie di Sua Maestà britannica… Meglio conoscere il proprietario della
casa editrice. A lui oggi raramente dicono di no (ti accontenterai di un “fuori
collana”).
Sesso Sei giovane. Uomo o donna non fa differenza. Sei giovane e vuoi diventare
scritt*. Qua conta un po’ la bellezza, ma soprattutto le armi classiche della
seduzione, che sono sempre un incrocio tra santità e puttanaio. Aprire le porte
dell’editoria col sesso è un modo banale di entrarci.
Tenacia Puoi occupare l’atrio della casa editrice. Piazzarti per giorni,
settimane, mesi accampato là dentro, con sottobraccio i fogli del tuo romanzo
che tu ritieni indispensabile all’umanità. Soprattutto deve essere questo il tuo
convincimento, non di meno: un libro indispensabile. Forse, stremato dalla tua
costanza, ci sarà qualche impiegato che trova la maniera di portarti di fronte
al giudice supremo della casa editrice.
Fortuna Ci sono vari livelli di fortuna. C’è chi vince un concorso solo perché,
un po’ come l’allineamento positivo dei pianeti in astrologia, la giuria ha
letto quel testo in un momento favorevole per ciascun giurato. Della serie:
questo testo non è un capolavoro, ma è quello che mi ha meno disturbato, o più
divertito, o meno addormentato, o più interrogato, o… ad libitum. C’è chi ha
inviato un dattiloscritto per posta e ora quel testo staziona da mesi in una
busta sotto una pila di altre buste, accanto a pile di altre buste, sulle
scrivanie addossate al muro di un ufficio editoriale. L’editore incontra il suo
consigliere alla pubblicazione, alza una pila, toglie delle buste e ne prende
una a caso, la tua. Ecco, al lettore il testo piace. Si va in stampa.
Bravura Sei bravo. Lo sai. Te lo hanno detto scrittori affermati e agenti
letterari svogliati. Prendi il libro e lo porti alla casa editrice della tua
città che lo pubblica. L’editore è piccolo, il mondo editoriale non si accorge
di nulla. Sei bravo. Te l’hanno detto. Pubblichi, non si sa come, con un editore
importante, il libro non è spinto sulla stampa, il mondo editoriale non si
accorge di nulla. Sei bravo. Pubblichi con un editore conosciuto che segue il
libro e lo pubblicizza. Vendi poco più di mille copie, il mondo editoriale non
si accorge di nulla.
Circostanze Un agente letterario accetta di curare i tuoi interessi editoriali.
Proponi due libri. Il primo non se lo fila nessuno e tu ritenevi fosse il
migliore. Quello che invece avevi scritto controvoglia viene pubblicato perché –
dice l’agente – era proprio l’argomento che l’editore stava cercando…
*
Post Scriptum
Questi modi di pubblicare corrispondono a storie vere di alcuni scrittori in
carne e ossa, di cui qui non menzionerò nemmeno il soprannome.
Alessandro Agostinelli
*In copertina: Ernest Hemingway, uno scrittore
L'articolo La vita agrissima. Sette modi per diventare scrittori proviene da
Pangea.
Tag - Editoria
Un grande libro scomparso dalle nostre librerie tormenta il mio famelico cuore
di lettore. È un romanzo maledetto, scritto da un maliano in lingua francese, Le
devoir de violence, Dovere di violenza, di Yambo Ouologuem. Fu pubblicato nel
1968 dall’editore Seuil e tradotto in italiano due anni dopo da il Saggiatore,
ma da noi non è mai più stato ristampato.
Non se ne trova una copia nemmeno nei meandri della Rete, a nessun prezzo: in
Italia Il dovere di violenza è un libro che sembra non essere mai esistito. Per
leggerlo mi sono dovuto procurare la nuova edizione francese, del 2018, sempre
dell’editore Seuil. C’è inoltre una bella versione inglese, Bound to violence,
pubblicata da uno dei maggiori editori europei, Penguin Books. Eppure in Italia
nessuno ha ancora pensato di ripubblicare Il dovere di violenza.
Yambo Ouologuem, nato nel 1940 e morto – completamente dimenticato – nel 2017, è
riassurto ai dubbi onori delle cronache letterarie francesi dopo la
pubblicazione e la consacrazione di un altro grande romanzo di un autore
africano, La più recondita memoria degli uomini, di Mohamed Mbougar Sarr, libro
vincitore del premio Goncourt nel 2021, edito in Italia da e/o. Il libro di Sarr
è dedicato proprio a Yambo Ouologuem, che di fatto è anche un personaggio del
romanzo, il misterioso T. C. Elimane, da alcuni chiamato il “Rimbaud négre”, sul
quale Diégane Latyr Faye, il protagonista del libro di Sarr, investiga.
Elimane ha scritto un libro ingiustamente (o giustamente?) accusato di
plagio, Il labirinto del disumano, che semina morti e misteri intorno a sé. La
vicenda ricalca la vita di Yambo Ouologuem, che ebbe un grande successo e vinse
addirittura il prix Renaudot ma che poi – tre anni dopo quel clamoroso esordio –
fu accusato di plagio e boicottato dai suoi stessi editori. Il suo unico
romanzo, fino ad allora considerato un capolavoro, fu mandato al macero. Si
insinuava che Ouologuem avesse copiato da André Schwarz-Bart, da Graham Greene e
da Maupassant: era un plagiario. Spaventati dal clamore dello scandalo, gli
stessi critici che lo avevano osannato ritrattarono i loro articoli e dissero di
essere stati imbrogliati. Yambo Ouologuem smise di scrivere. Solo, amareggiato,
tornò in Africa e nessuno seppe più niente di lui. Anche per questo T. C.
Elimane, il suo alter ego romanzesco inventato da Mohamed Mbougar Sarr, è
chiamato il “Rimbaud negro”: perché è scomparso in Africa.
Ci voleva un altro grande romanzo per far risorgere Le devoir de
violence dall’oblio. Quando Sarr vinse il premio Goncourt con un libro dedicato
a Ouologuem, in molti – me compreso – si chiesero chi fosse questo tale, Yambo
Ouologuem. A poco a poco si ricominciò a parlare di lui e così il suo libro
conquistò dei nuovi accoliti. Adesso in Francia Le devoir de violence è
finalmente considerato uno dei grandi romanzi africani del Novecento, una storia
complessa, non sempre scorrevole, che si dipana attraverso i secoli e tratta di
amore e di crudeltà, cioè dei grandi temi di sempre, quelli che smuovono la
mente e il cuore, fra dinastie di re fratricidi e amori e disillusioni. Yambo
Ouologuem è il grande cantore di un continente che la Storia ha sempre
maltrattato, eppure nelle sue pagine non c’è traccia di autocompatimento.
Ouologuem non piagnucola, racconta.
Ci sarebbe molto da dire su come i critici parigini del dopoguerra rendessero le
cose difficili agli autori per loro non del tutto francesi, gli “impuri”, i
“bastardi”. Si pensi a Romain Gary, che fu accusato da molti di scrivere in modo
assurdo, talmente abborracciato da non poter essere considerato neanche
“francese”, sostenevano, almeno finché il grande Gary non si prese la sua
vendetta (postuma) pubblicando diversi libri con lo pseudonimo di Émile Ajar e
rivincendo persino il prix Goncourt, premio che notoriamente si può ottenere
solo una volta nella vita. Gli stessi critici che per anni avevano stroncato
Gary ora si sdilinquivano per Ajar, cioè per Gary sotto false vesti.
Il caso di Yambo Ouologuem è meno felice, visto che quando un autore isolato
arriva al successo – e Ouologuem era un outsider ed ebbe successo – non manca
mai chi si arma di malizia e di infamia e lo accusa di barare. Yambo Ouologuem
era un imbroglione. Aveva turlupinato tutti. Tale era l’opinione corrente, che
condannò il suo libro al macero e lui stesso all’oblio. Forse per questa ragione
in Italia non si trovano più copie di Il dovere di violenza: perché sono state
date alle fiamme. Yambo Ouologuem era un plagiario. Non bisognava parlarne,
ricordarne l’opera. Doveva essere dimenticato, e con lui il suo libro.
Yambo Ouologuem era uno scrittore. Quando Diégane Latyr Faye, il protagonista di
Mohamed Mbougar Sarr, legge Il labirinto del disumano, che nella finzione
romanzesca altro non è che il capolavoro di Yambo Ouologuem, Le devoir de
violence, scrive (nella traduzione di Alberto Bracci Testasecca):
> “Caro diario, ti scrivo solo per dirti quanto Il Labirinto del disumano mi
> abbia impoverito. I grandi libri impoveriscono e devono sempre impoverire.
> Rimuovono da noi il superfluo. Dalla loro lettura usciamo sempre privati di
> molte cose: arricchiti, ma arricchiti per sottrazione”
Sarr sta evidentemente parlando di Le devoir de violence, libro che lo ha
sconvolto.
Ancora: più avanti Diégane aggiunge una nota di un critico del Mercure de
France, tale Léon Bercoff, che fa così:
> “Leggendo certi commenti sul Labirinto del disumano non abbiamo più dubbi: a
> dare fastidio è il colore dello scrittore. È la sua razza a fare scandalo. Il
> signor Elimane è comparso troppo presto in un’epoca che non è ancora pronta a
> vedere i neri eccellere in tutti i campi, compreso quello dell’arte. Forse un
> giorno quel tempo arriverà, chi lo sa. Per il momento Elimane dev’essere un
> precursore coraggioso, un esempio. Deve farsi vedere, parlare e dimostrare a
> tutti i razzisti che un negro può essere un grande scrittore.”
Un nero può essere un grande scrittore. Yambo Ouologuem preferì invece lo sdegno
e l’oblio. “Forse la risposta di Elimane fu il silenzio” chiosa Sarr. “Ma cos’è
uno scrittore che tace?” Ouologuem se ne era andato e taceva. Era uno scrittore
ed era nero e aveva avuto successo, cosa che nessuno era disposto a
perdonargli. Sarr ha ribadito più volte che il suo T. C. Elimane è lui,
Ouologuem, e che Il labirinto del disumano è Le devoir de violence, Il dovere di
violenza, il grande libro dimenticato di un grande autore scomparso.
Forse sarebbe ora di riportare Yambo Ouologuem anche nelle librerie italiane. O
non siamo ancora pronti?
Edoardo Pisani
L'articolo Vita tragica di Yambo Ouologuem, il “Rimbaud negro”. Siamo pronti a
ripubblicarlo? proviene da Pangea.
Qualche giorno fa, il 5 agosto, sul “Corriere della Sera”, Luciano Canfora, lo
storico, ha firmato un lungo pezzo, s’intitola: “Il senso della storia, dono
divino”. Pretesto dell’articolo, la pubblicazione, per la “piccola e vivace casa
editrice lucchese Le Vele”, di Qoelet, il formidabile, corrosivo testo biblico.
Si tratta del libro che inaugura “una grande opera dissodatrice” (copy Canfora):
la pubblicazione, tomo per tomo, della Bibbia, per fini culturali (consentire la
lettura della Bibbia ai più) più che ecumenici. Non è esattamente una novità:
già Einaudi, a cavallo del millennio, aveva tentato un’operazione simile.
I Salmi, “ragguardevoli non solo sul piano religioso ma anche su quello
letterario” (dida di infantile inutilità) erano introdotti da Bono; il Vangelo
secondo Marco da Nick Cave; il Qohèlet da Doris Lessing. La traduzione d’uso,
allora, era di quella di Filippo Nardoni; l’iniziativa, eguale a quella proposta
da Le Vele (“La Bibbia pensata non come testo di fede per fedeli, ma come testo
di lettura per lettori”), durò poco, una manciata di anni. La collana inaugurata
dall’editore Le Vele – che s’intitola, va da sé, come quella Einaudi, “I libri
della Bibbia” – è curata da Sergio Valzania, giornalista, autore radiofonico
Rai, scrittore: tra l’altro, ha scritto “una nota” a un antico libro di
Canfora, 1914 (Sellerio, 2006).
L’articolo del “Corriere” – à la Canfora: vigoroso, ruvido, ma anche un po’
superficiale nelle sintesi – mi è stato mostrato da un amico, uno di quelli
sempre pronti a salvarti dal baratro, con un certo sconcerto. Negli stessi mesi,
infatti, per De Piante è uscita una versione di Qoelet, culmine di un progetto
editoriale di pubblicazione, libro per libro, del canone biblico. Il
progetto, inaugurato nel 2022 con Genesi, non riproduce il Testo secondo la
versione Cei che tutti hanno sul comodino (“accogliendone purtroppo anche i
difetti”, così Canfora): l’idea, titanica, è quella di affidare “i singoli libri
della Bibbia a narratori, poeti, pensatori di oggi”. In
particolare, Genesi e Isaia sono stati tradotti dall’artista e scrittore
polimorfico Gian Ruggero Manzoni e Apocalisse dal poeta e fine
grecista Giancarlo Pontiggia. L’idea di Qoelet – uscito dai torchi nel marzo del
’25 –, testo magnetico come pochi altri, è più complessa. Il testo è tradotto,
secondo una nuova ipotesi sul ritmo e sul suono, da Stefano Arduini, linguista,
teorico della traduzione (tra gli ultimi libri: Traduzioni in cerca di
originale. La Bibbia e i suoi traduttori, Jaca Book, 2021), traduttore, tra
l’altro, di Giovanni della Croce (per Città Nuova). A questa versione, si
affianca la mia – a dire della lotta tra i botri e i dogi del linguaggio – e
quella, storica, di Massimo Bontempelli. Quest’ultima, ha un’importanza storica
peculiare perché testimonia una sotterranea ma pur robusta ‘tradizione’ della
traduzione biblica da parte degli scrittori italiani: pensiamo ai Vangeli
tradotti da Diego Valeri, Corrado Alvaro, Nicola Lisi e Bontempelli,
alla Lettera ai Corinzi secondo Giovanni Testori, alle versioni di Ceronetti e
ai tentativi di Emilio Villa, all’innario di David Maria Turoldo, fino ai
reperti di Erri De Luca. Su questa scia, Roberta Rocelli, nella scorsa edizione
del “Festival Biblico”, ha ideato il Salterio dei Poeti, il primo germe della
traduzione dei Salmi ad opera dei poeti di oggi: tra gli altri, hanno
partecipato Mariangela Gualtieri e Andrea Ponso, Giuseppe Conte e Federico
Italiano, Francesca Serragnoli, Alessandro Rivali, Susan Stewart e John
Kinsella. Ne abbiamo scritto a lungo.
Insomma, è da tempo che si opera nel ring del testo biblico. Per chiudere con i
dati: nel 2010 proprio Stefano Arduini, insieme all’editore Walter Raffaelli,
hanno fondato la collana “La Bibbia” con gli stessi intenti – la pubblicazione,
libro per libro, del canone, in nuova traduzione. Erano libri deliziosi, in
formato minino, da tenere in una mano: ferine falene di carta. Sono usciti, in
quel contesto, il Cantico dei Cantici secondo Andrea Temporelli, l’Esodo secondo
Gian Ruggero Manzoni, Il libro di Giona secondo Giovanni Tuzet. Uno
scrittore-cantautore come Leonardo Bonetti avrebbe ‘musicato’ il libro di
Daniele; tra i protagonisti del progetto – di cui qualche giornale ha detto –
figurava il poeta Pier Luigi Cappello – io ho tradotto le Lamentazioni. Ma
queste sono minuzie.
Bisognerebbe, piuttosto, domandarsi se tradurre un libro biblico sia come
tradurne qualsiasi altro: se, per dire, tradurre Geremia o le lettere di
Giovanni sia come tradurre Emily Dickinson o Rimbaud. Come scriveva Edgard Wind
in Arte e anarchia, l’uso ha un suo peso: una Crocefissione appesa da secoli in
una cattedrale, che ha accolto le preghiere di migliaia di fedeli (divorandone
le intenzioni e il cuore), è diversa da una Crocefissione esposta in un museo,
sotto gli occhi di attenti – o disattenti – ‘fruitori’ d’arte. insomma: la
Bibbia ha un ‘peso’ diverso, la traduzione – come postula San Paolo – è un
carisma. Non si può tradurre senza precipitare. Il rischio di abbellimento
retorico – sempre presente nel lavorio degli artisti – è sacrilegio, è
idolatria: tradurre vuol dire scotennare, levare l’ultimo velo al Volto. Che se
ne torni inceneriti è norma.
Ma qui vado per erbe avvelenate.
Torniamo a noi. È evidente che esistano alcuni eventi culturali, alcune
avventure dello spirito, non marginali, tuttavia per sempre ignote alle ‘grandi
firme’, ostili ai ‘grandi palchi’. Sono invisibili. Rimangono paria. Frotte di
lebbrosi. Perché Luciano Canfora, parlando di una nuova, meritoria edizione
di Qoelet non ha fatto riferimento al Qoelet edito da De Piante negli stessi
mesi, rintracciabile in ogni repertorio digitale? Escludendo la malafede, resta
l’ignoranza. Se è così, è grave: è come se uno storico, organizzando i fatti,
non conoscesse una fonte autorevole.
Per il resto, basta Qoelet, cioè la beatitudine della vanità. “Non arrabbiarti:
l’ira/ alberga nel petto del vile”, dice il sapiente.
*In copertina: Memento mori, studio di cranio, XVII secolo
L'articolo La “qoeletica” ignoranza di Luciano Canfora. Vane riflessioni
proviene da Pangea.