Abitiamo festosamente le macerie del Novecento, scimmiottando la società
letteraria ricca di vizi ma anche di virtù, che adesso non c’è più. Cucù. Anche
i suoi presunti ultimi rappresentanti sono giunti al capolinea e, per carità,
resistano finché possono, i poeti nati fra il ’45 e la fine degli anni
Cinquanta, quelli che hanno potuto esordire in Feltrinelli, Mondadori, Guanda,
Garzanti, Einaudi e giù di lì, poco più che ventenni, con illustri e
lungimiranti padrini come garanti. Resistano, per carità, perché dopo di loro
c’è il vuoto – o almeno così sembra. O la definitiva anarchia. Del resto, oggi
le case editrici (anche le summenzionate) sono diventate bazar dove più del
valore della merce conta il marchio.
Il marchio, a sua volta, è sempre meno quello dell’editore, sostituito dal nome
dell’influencer di turno (maître à penser, per i nostalgici), che di scrivere un
libro manco ci pensava (e talvolta al posto suo ci ha pensato, in effetti,
qualche ghostwriter in affitto a prezzi stracciati, giacché l’IA incombe, e ciao
ciao ben presto anche a questi servizi). Le riviste, i giornali? E chi li
considera ancora? Giorni fa, sui social, Jonathan Bazzi (autore Mondadori, con
titoli che sono stati sulla cresta dell’onda e pluripremiati, mica l’ultimo
arrivato), pubblicava l’impietoso resoconto mensile del proprio conto corrente,
sollevando l’annosa questione del precariato intellettuale. Vivere di scrittura,
in Italia, è come mendicare, e poco vale addizionare recensioni, valanghe di
traduzioni, anticipi su libri ancora da cominciare e chissà che altro: se
rientri delle spese è un miracolo. Figurati se ti tocca vivere a Milano (gli
scrittori di provincia? Suvvia. Altro tema del Novecento, rifiutato persino dal
rigattiere, malgrado l’Italia resti, in sé stessa, una sterminata provincia).
Però, su Radio3, incalzato dal conduttore di Fahrenheit, Bazzi stesso non sapeva
come rispondere al dato, mercantile e impietoso: se a uno scrittore non va bene
la paghetta, c’è una fila che aspetta. Rieccoci al problema della quantità:
tutti scrivono e son pronti a tirare la cinghia, pur di mettere la firma dove
ancora sbrilluccica l’aureola (un po’ infangata, vabbè, ma basta passarci su la
manica e fa ancora la sua porca figura).
Abitiamo festosamente macerie. Siamo zombie tra lapidi. Siamo naufraghi su
qualche scoglio del web, da fare bello come un atollo delle Maldive.
Ah, mica tutti, però. Perché se di scrittura c’è chi muore, di scrittura c’è
anche chi vive. Dove?
Intanto, c’è un palazzo signorile, benché decadente, che resiste:
l’Accademia. Solitamente è abitato da persone un po’ snob, che magari di
letteratura ci capiscono fino a un certo punto. Per arrivare lì, del resto,
hanno camminato con la testa all’indietro. Esperti di qualsiasi epoca, fino
suppergiù al 1961. Lì si assediano i Novissimi, sigla che basta a certificare
competenze aggiornate. Questi centri di ricerca dovrebbero
sfornare anche narrazioni del contemporaneo, interpretazioni del presente, guide
per districarsi nella produzione ipertrofica di presunti talenti. Macché.
Terreno instabile, l’oggidì. Questi signori non investirebbero mai in talenti
(peggio delle criptovalute): vogliono rendite sicure, perciò si occupano
unicamente di patrimoni solidi, firmano quando il mucchietto di contanti è al
sicuro sotto il materasso, si insediano nei latifondi in cui persiste una
visione feudale e rassicurante del potere. Un giovane ricercatore, per esempio,
mi ha spiegato qualche mese fa che la sua proposta di occuparsi di Simone
Cattaneo è stata rifiutata. Avesse proposto un approfondimento su Nino Costa si
sarebbe garantito il dottorato.
C’è aria frusta, in questi palazzi. Il vantaggio di poter propinare qualsiasi
revisione del passato ai propri studenti, e quindi di vendere persino (udite
udite) libri di saggistica letteraria (esiste merce più indigesta al mercato?),
impone polmoni assuefatti. In ogni caso, a un certo punto ci si accorgerà di
avere il fiato corto, se si sono mantenute velleità di scrittori. Nei propri
versi l’aria frusta si sentirà eccome. Ma la riverenza ai nobili che circolano
in carrozza è ancora dovuta. Chiarissimi dottori, né più né meno. I titoli sono
depositati in borsa, conquistati con la fatica della fronte dopo anni di
addestramento alla pazienza, di devozione ai maestri, di sopportazione dei
colleghi a cui si sono fatte le scarpe con scaltrezza, al momento opportuno.
L’ideale, però, per chi ambisce a vivere di scrittura, sarebbe calcare i palchi
dei festivals, recitare la parte della star nei vernissage, okkupare le
poltroncine rimaste disponibili in tivvù. Ecco l’ambiente migliore: la casta. Il
problema è accedervi. E le vie per raggiungere la Casta sono infinite e
misteriose. L’unica prova provata è che l’ultimo dei problemi è la qualità
dell’opera letteraria. Potrei fare nomi e cognomi e spulciare pagine e pagine
per dimostrare quanto spesso siano stati promossi al rango di eletti scrittori
mediocri. E sia chiaro fin da subito che non c’è livore, non c’è invidia, nella
constatazione. Senza spoilerarvi il finale di queste paginette, si sappia che
non accetterei di sottoscrivere l’opera dei colleghi che ho visto partire dalle
retrovie e che adesso sono celebrità, se ciò mi garantisse di prendere il loro
posto. Anzi, diciamola fino in fondo: so bene che dietro alla loro brillante
carriera si cela spesso l’ombra di una vita sacrificata sull’altare del
successo.
La casta si riconosce perché non considera mai chi non appartiene alla casta
stessa. Il filo spinato che la protegge è stato nominato: amichettismo. Cartelli
graziosi per infiocchettare il putridume. E si capisce: i privilegi vanno
protetti. Le vie di accesso nascoste. Non si può rischiare di subire l’assalto
degli affamati di gloria che impestano la città. L’arte, si sa, non è per nulla
democratica.
Talvolta tra la casta e l’accademia esistono stanze in comune cui si accede
attraverso corridoi esclusivi. Ma normalmente i nobili diffidano dei parvenus.
Le star non hanno mica il sangue blu. (O caro Marx, ci manchi tu).
Ma se i piani alti non risultano accessibili, si possono trovare gradevoli
appartamenti da condividere. Ci sono nicchie comode, magari non sempre con vista
sul mare, ma affacciate su qualche piazza vivace, di nuova ideazione oppure con
un illustre passato. I servizi non mancano e l’unione fa la forza. Pare di stare
nella pubblicità di Del Piero e dei suoi condòmini: ognuno si sente a turno un
fenomeno, in mezzo a gente simpatica. Niente amichettismo: qui si respira aria
pulita di amicizia vera. La fibra regge, le novità arrivano, le assemblee sono
festose e produttive. Non si confondano perciò queste nicchie letterarie con le
case popolari dedite a pratiche folcloristiche (tipo la scrittura in metrica) o,
peggio ancora, le sterminate periferie degradate, così liriche, maledette e
lamentose.
E i social, come si inseriscono nel contesto? Direi che si tratta,
semplicemente, delle finestre su questi palazzi: ci restituiscono l’immagine che
noi vi proiettiamo. In effetti, le vetrine dell’Accademia sono oscurate, per lo
più. Meglio non disturbare certi ambienti ancora vagamente sacri. Le finestre
della casta, invece, sono costantemente illuminate e ci si affaccia solo ben
vestiti e in posa. Sono palcoscenici di una recita. Quelle delle nicchie
letterarie invece sono per lo più grandi occasioni di chiacchiera, se non di
dibattito o addirittura di impegno civile. Qualche screzio potrà capitare, ma al
più basterà cambiare lato e scegliere la finestra che si affaccia sul cortile
opposto, in modo da restare in compagnia di gente simpatica, tutti amici con cui
sparlare del resto del mondo.
Abitiamo festosamente le macerie del Novecento. Siamo alla crisi della crisi.
Nutriamo la decadenza della decadenza. Scriviamo storie dopo la fine della
storia. Animiamo i sussulti post mortem del cadavere occidentale. Ci
consideriamo postmoderni, post-postmoderni, postpoeti. Siamo posteri di noi
stessi, poster di ectoplasmi.
Ed è uno scenario bellissimo, tremendamente propizio. A parte le luminose
eccezioni di persone e scrittori pazzeschi che si trovano ovunque
(nell’accademia, nella casta radical chic, nelle nicchie iperletterarie, nei
quartieri popolari e nelle periferie) e che attendono, come pepite dormienti nel
fango, di essere trovati (basterebbe uno sguardo capace di discernere e una
mente intenta a dimostrare), viviamo un’epoca così terminale da essere già
pervasa, in qualche oscuro vicolo misconosciuto, dalla luce di un nuovo inizio.
Basterebbe, forse, vivere di vita, e non pretendere di vivere di scrittura.
Scrivete al cinque per cento, allora. Non aumentate la dose.
Andrea Temporelli
*In copertina e nel testo: disegni di Giandomenico Tiepolo (1727-1804)
L'articolo Siamo posteri di noi stessi, poster di ectoplasmi. L’Accademia, la
Casta, la Nicchia, ovvero: vivere di scrittura in Italia proviene da Pangea.