
La destrezza dell’addio. Betocchi, Luzi, Caproni: le tre “cantiche” della poesia italiana
Pangea - Friday, November 28, 2025Regole del gioco. In questo articolo interpretiamo tre poeti secondo le tre cantiche della Commedia. Mario Luzi (Paradiso) e Giorgio Caproni (Inferno) si muovono, per orientamento linguistico, ai poli opposti. L’opera di Carlo Betocchi è una sorta di Purgatorio. Il Purgatorio della poesia italiana del Novecento.
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Cosa vuol dire? Che ci deve essere un terzo perché due ‘campioni’ percorrano le vie più estreme. Un terzo che si fa pasto, che si fa ponte. Quello che arriva fin dove la via si biforca: altri la percorrano, nell’ascesa e nel precipizio. Ci vuole Guinizelli perché accadano Dante e Petrarca; ci vuole Boiardo perché Ariosto e Tasso ne esasperino le conseguenze liriche; c’è Foscolo alle spalle di Manzoni e di Leopardi; Carducci a preparare Pascoli e D’Annunzio.
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Ma questa è scolastica, è grigio schematismo. Il terzo, nel caso di Betocchi, è colui “che ti cammina sempre accanto”. There is always another one walking beside you, canta Thomas S. Eliot al termine della Waste Land. E chi è questo terzo, questo altro? Io direi: Emmaus. Lì è tutto: dubbio, irriconoscenza, pasto.
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Emmaus. “L’avevano riconosciuto nello spezzare il pane” (Lc 24, 35). In un articolo uscito su “La Lettura” del “Corriere della sera”, Daniele Piccini ha scritto che “il destino di Carlo Betocchi, della sua poesia, [è] stato quello di disseminarsi, di fare da spora e da seme di tanta altra poesia”, poesia che “si è ripercossa e rifranta in tante voci, che se ne sono nutrite”. Betocchi è il poeta che si spezza, come il pane, perché altri se ne nutrano. Nutrimento necessario per giungere in zone nuove, mai intaccate prima.

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Poesia purgatoriale quella di Betocchi: che si pone a mezzo tra i diktat dell’epoca – ermetici, vociani, futuristi –, che appare senza apparente appartenenza. Poesia purgatoriale perché sta nel linguaggio della creatura, che è lingua sobria – fatta per sobillare l’anima –, lingua della pena e dello stupore, che ama ciò che è passato – senza nostalgia né rancore – in virtù di ciò che verrà. Linguaggio con il premio sempre in fronte; linguaggio che procede per purificazioni, senza emendare, senza lancinanti slanci. Che resta fedele all’uomo: senza accensioni astratte o metafisiche, da linguaggio angelicato, né abissi. L’occasione, in Betocchi, non svela il caos del mondo, il rebus delle forme, lo stigma dei ‘segni’ da interpretare; è lì per dire la forza – piena, rivelata, ‘pasquale’, dacché il regno è questo, schiuso dal Figlio – delle cose, dei “tetti toscani”, del plenilunio e delle rovine, dei giorni perduti e dei “fiumi meridiani”. Non c’è posa in Betocchi, ma la severità – a tratti allucinata, a tratti dolcissima – di chi guida.
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Poesia purgatoriale perché in ascesa. L’esordio – Realtà vince sogno, Vallecchi, 1932 –, così manifesto da tenere per incuranza in un aldilà del cuore le altre, potentissime raccolte, le Ultimissime (Mondadori, 1974), Un passo, un altro passo (Mondadori, 1967), le Poesie del sabato (Mondadori, 1980). Betocchi passa dalla luce infera di Rimbaud – letto con le lenti, fallate, di Claudel – a quella, piena, di Eliot e dunque di Dante. Lo confessa – purgatoriale: rettitudine del dire – in Diario della poesia e della rima:
“…oggi penso che non avrei voluto somigliare a Rimbaud. Da giovane, quando l’amavo, non avevo meditato abbastanza la spaventosa aridità delle Illuminazioni, il cui splendore lampeggia di superbia… Vorrei invece aver somigliato ad Eliot, che nella sua creazione di poesia, rifacendosi a Dante, ha restituito alla pietà il trono che le spetta”.
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Betocchi poeta della vecchiaia, cioè del Purgatorio del corpo. Nessun lamento sulle antiche spoglie: sono la crisalide dell’uomo nuovo, sempre giovane agli occhi del Padre, per sempre figlio. Alcuni poemetti – Il vecchio: stravaganze, sventura, destino; Breviario della necessità, ad esempio – continuano a sorprendere per audacia di temi, di toni. Qui ricalco la quarta lassa da In piena primavera, pel corpus domini:
“Non chiamare disperazione
la disperazione,
se non è ancora più forte,
se non è ancora a quel punto
che si spacca,
che s’apre una feritoia,
nemmeno la disperazione
è tua, cèdila
a chi è più forte di te,
attendi, accetta d’esser colmo
del tuo nulla;
scamperai da te stesso,
non saprai come, un altro sarà in te”.
Poesia-viatico: non s’accontenta di sé – porta altrove.
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Sbaglia chi giudica facile un poeta che si rifà, con ostinazione, a poeti dal verbo contorto, lebbrosi d’estro – John Donne e Gerard Manley Hopkins, Rimbaud e Dino Campana –, che opta per la via dantesca rispetto al lirismo di Petrarca: scalare il Purgatorio chiede audacia, artigliata lingua.

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Repertori. Mario Luzi ha riconosciuto in Betocchi “il suo solo maestro” (Luigi Baldacci): tale maestria, tra l’altro, è testimoniata da un epistolario – Luzi e Betocchi. Lettere 1933-1984, a cura di Anna Panicali – uscito per la Società Editrice Fiorentina nel 2006. Giorgio Caproni ha scritto che Betocchi era “italiano all’antico modo romanico”, per via dell’“asciuttezza quasi frustante del linguaggio”. Il loro legame è riassunto in G. Caproni-C. Betocchi, Una poesia indimenticabile. Lettere 1936-1986, edito da maria pacini fazzi editore nel 2007, a cura di Daniele Santero. In una poesia “a Giorgio Caproni”, Per Pasqua: auguri a un poeta – poesia purgatoriale, cioè che indossa una croce – Betocchi si fa l’autoritratto: “un poveraccio… che vuole/ ciò che il mondo non vuole, solo amore”.
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Per stare in gioco ornitologico. Mario Luzi è l’aquila – Giorgio Caproni la civetta, agile nel disbrogliare la notte – Carlo Betocchi è il corvo – il Crow di Ted Hughes – l’uccello psicopompo, che sa comunicare con gli spiriti.
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Per capire i ‘caratteri’ dei tre è bene leggere Il mestiere di poeta, la raccolta di “Autoritratti critici” edita da Lerici nel 1965. Il libro, negli anni, ha acquistato in smalto – più che un reperto archeologico è un frammento di futuro che ci sorprende, oggi, come un abbacinato presente –: su tutto, infatti, è l’aura del curatore, Ferdinando Camon, tra i più audaci e intelligenti scrittori del nostro tempo. Betocchi “siede a un tavolo fratino”, in uno studio “stretto, lungo, altissimo”; del poeta traluce “l’umanità”, pare figura estratta dal legno, con l’espressione ieratica e remissiva, da leone e da bue, che hanno i re dell’anno Mille. Caproni assale lo scrittore sguainando un “viso affilato e severo”, inchioda alle questioni ultime (“L’unica certezza che c’è nei miei versi è quella della vita e della morte”), fino a sfiorare gli inferi: “Oggi come oggi, sento che tutte le strutture (le ‘istituzioni’) classiche e ottocentesche non reggono più… Oggi dobbiamo rifare tutto da capo, oserei dire Dio stesso… La mancanza di UNA certezza, più che mia, mi sembra dell’epoca”. Mario Luzi, invece, come sempre, è sotto angelico manto: “la luce che gli piove di fianco” illumina “il volto affilato”; lo studio “mi sembra adatto solo al pensiero e alla meditazione”, il colloquio – come lo è con un’alterità celeste – “non può essere un colloquio facile”. A differenza di Betocchi e di Caproni, Luzi parla di sé e della propria opera con appagata coerenza; parla da un trono, dal cielo di Giove, certo di installarsi nella più nobile specie della poesia italiana. Mostruosa è la sua consapevolezza. “Non c’è una progressiva prosasticizzazione, in me, ma se mai l’assunzione anche dell’indeterminato… al piano della poesia”, dice a Camon, tra l’altro, Luzi. Indeterminato non più come deterrente, ma come volo.
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Se uno (Betocchi) dice la creatura nel suo più tenero nome, l’altro (Caproni) ne sonda le viscere, il cuore maciullato, il cuore nero – il terzo (Luzi) la eleva, la trasfigura al cristallo.
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Che è poi la tripartizione del linguaggio usato da Gesù: parlare agli uomini (agli accoliti e alle masse; Betocchi); parlare alle forze infere (Caproni; fino a confondersi con esse agli occhi dei più: Mc 3, 22 e Lc 11, 15); parlare a Dio (Luzi). Chissà quale lingua adotta Gesù nel deserto, quando “stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano” (Mc 1, 13).
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La nuova via di Caproni nasce con Il muro della terra (Garzanti, 1975), libro infero fin dal titolo (tratto da Inferno X, 2). La poesia è rarefatta: allo stesso tempo oracolo e imprecazione, distico sapienziale e sussurro che scatena le forze del caos. Dio è un rovello continuo, stretto tra ira glaciale e sarcasmo. “Un semplice dato:/ Dio non s’è nascosto./ Dio s’è suicidato” (Deus absconditus); “Sta forse nel suo non essere/ l’immensità di Dio?” (Pensiero pio). In Senza esclamativi, il poeta si puntella nel compito: compitare il vuoto.
“Com’è alto il dolore.
L’amore, com’è bestia.
Vuoto delle parole
che scavano nel vuoto vuoti
monumenti di vuoto. Vuoto
del grano che già raggiunse
(nel sole) l’altezza del cuore”.
In esergo, un verso di Hugo von Hofmannsthal (Ach, wo ist Juli und das Sommerland!), poeta di mefistofelica precocità, che ha svelato – nella Lettera di Lord Chandos – l’inconsistenza delle parole nel dire le cose, la scollatura, definitiva, tra detto e atto, impedimento di logos. “Il nome non è la persona.// Il nome è la larva” (Il nome), scrive Caproni, ed è, il suo, un andare poetico tra larve, tra spettri verbali – biascichio per inferi, dove l’improvviso, la rivelazione lampante si tramuta, in un attimo, in cabaletta ctonia.
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Nell’era dell’inferno vuoto – non si è più degni nemmeno di eterna pena – Caproni si aggira in un’ecatombe d’echi, si addentra nell’Ade interiore. Così, nel suo libro più risolto – per compiutezza d’inventiva, coerenza di stile e stazza etica tra i più alti del Novecento –, Il conte di Kevenhüller (Garzanti, 1986), Caproni scrive che “La Bestia che cercate voi,/ voi ci siete dentro” (Saggia apostrofe a tutti i caccianti), che “La Bestia che bracchiamo/ è il luogo dove ci troviamo” (Riflessione), che la vera caccia, allora, è cacciare se stessi da sé, che autentica cacciagione è questo nostro cuore “perché ogni intento del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza” (Gen 8, 21). E Dio? Allo stesso tempo “preda/ mansueta e atroce” e vorace predatore che ci accerchia, vampiro e Moby Dick, Bestia, certo, che “o era fuggita via,/ o non esisteva”.

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Tra il 1963 e il 1964 Mario Luzi pubblica Nel magma, prima con Scheiwiller poi, in seconda edizione, ampliata, per il Saggiatore – l’ultima, definitiva, esce per Garzanti, nel 1966, a testimonianza di una rampicata lirica, di una lirica rampante. È una svolta: il linguaggio, sigillato di Avvento notturno, Quaderno gotico, Primizie del deserto, si scioglie; al linguaggio dell’annuncio – per sua natura chiuso, remoto per troppo affrettata prossimità, a cui si deve soltanto dire sì – segue quello dell’apocalisse, della rivelazione. Il linguaggio si esaudisce: l’apparenza prosastica – e tutte quelle continue apparizioni – è colta in aura di paradiso, ogni dialogo – ne pullulano, a flotte – è definitivo. Nel magma ottiene, nel dicembre del ’64, l’Etna-Taormina: insieme a Luzi è premiata Anna Achmatova. Il cammeo del poeta ha la nitidezza del monito:
“Anna Achmatova non pronunziò una sola parola… Al termine mi avvicinai per significarle la mia ammirazione che risaliva ai tempi dell’adolescenza: e l’emozione di averla incontrata… Lei ebbe negli occhi la luce di un sorriso, ma da una grande lontananza…”.
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Paradiso che, poi, non significa essere paghi, bensì: magnificare la fame – flottare nella luce. Né bitume d’ira né irenica inerzia, né pavoneggiarsi tra gli eredi dei retori, ma: rettitudine. Paradiso: campo da coltivare eternamente; Dio-vomere.
Mario Luzi è un poeta sempre in picchiata. Nonostante la citazione, sviante – da Orazio – l’avo è Dante, ovunque. L’India, così, più che altro, è un sobborgo della Gerusalemme celeste, potremmo dire karma come un provvedere alla provvidenza:
“Mario” mi previene lei che indovina il resto. “Ancora
levi come una spada, buona a che?,
lo sdegno per le cose che ti resistono.
Uomo chiuso all’intelligenza del diverso,
negato all’amore: del mondo, intendo, di Dio dunque”.
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Su fondamenti invisibili esce per Rizzoli nel 1971. Caproni ne è entusiasta – “È un libro di grande poesia, se dir grande in poesia è dir qualcosa. È, col Magma, il più grande libro di poesia uscito in Italia nell’ultimo quarantennio. A tanta altezza, chi potrà mai più raggiungerti?” –; un testo, Nel corpo oscuro della metamorfosi, è dedicato “A Carlo Betocchi, ai suoi meravigliosi settanta anni”. Il dialogo dilaga, la lega del dire è dantesca, più che mai:
“Prega”, dice, “per la città sommersa”
venendomi incontro dal passato
o dal futuro un’anima nascosta
dietro un lume di pila che mi cerca
nel liquame della strada deserta.
“Taci” imploro, dubbioso sia la mia
di ritorno al suo corpo perduto nel fango.
In qualche modo, Luzi ‘volgarizza’ il linguaggio paradisiaco (Nel magma, cioè: nella mota di Dante, nel notturno del Paradiso), lo rende mansueto, pieno di maniglie. È in questo senso – senza afonia di eufemismo – che Caproni parla di grande poesia: poesia grande perché vasta, che può dare nutrimento a più generazioni. Poesia che non ammette epigoni – a differenza di quella di Ungaretti – bensì seguaci, pur sonnolenti. La pratica proposta da Luzi agirà profondamente in poeti altrimenti dissimili (ne dico alcuni: Vittorio Sereni, Cesare Viviani, Milo De Angelis, Davide Rondoni, Alessandro Ceni). All’aquila seguiranno le gazze.
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L’opera che segue, che sia poema – Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, Garzanti, 1994, per dire – o raccolta per distratto accumulo – Dottrina dell’estremo principiante, Garzanti, 2004 – ha la monotonia dei re, un fraseggio d’ineguagliato lignaggio. Verbo-stilita, anche quando il poeta parla – dantesco – di politica. Dicono non sia memorabile, Luzi: è vero, la memoria è un carattere troppo umano; in cielo è inutile orpello, vada in ordalia.
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Caproni parlava anche di altezza. L’altezza, in Luzi, ha la voracità del commiato, la destrezza di un addio. E ora?
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