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“Un’iniziazione allo stupore”. Dialogo con José Tolentino de Mendonça
Il card. José Tolentino de Mendonça (Machico, Madeira, 1965) è prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione dal 2022. Ha alle spalle una lunga e riconosciuta attività di scrittore. La sua prima raccolta di poesie, Os Dias Contados, è uscita nel 1990, lo stesso anno in cui è stato ordinato sacerdote. Nel 2018 fu invitato da papa Francesco a predicare il ritiro di Quaresima per la Curia romana e nello stesso anno quelle meditazioni sono state raccolte in Elogio della sete (Vita e pensiero). Tra i suoi titoli più recenti in lingua italiana ricordiamo: Una grammatica semplice dell’umano (Vita e Pensiero, 2021), Il papavero e il monaco (Qiqajon 2022), Estranei alla terra, (Crocetti 2023), Amicizia. Un incontro che riempie la vita(Piemme 2023). Il prossimo anno l’editore Crocetti pubblicherà la sua ultima raccolta di poesie, Il centro della terra. Quali sono i suoi primi ricordi da bambino? La prima parte della mia infanzia è stata africana e se dovessi riassumerla in una parola, sceglierei la parola “vastità”. I miei primi ricordi riguardano proprio la consapevolezza di quella vastità, del territorio come del mare. Abitavo in una casa sulla spiaggia davanti al mare, nella località di Lobito in Angola: quell’esperienza mi ha segnato profondamente, perché era un’iniziazione allo stupore. Se penso ai primi anni di vita, da quando ho coscienza e memoria, è questo lo stupore che poi mi ha sempre accompagnato. Mi ricordo per esempio la scena dell’arrivo dei pescatori al mattino, dopo una notte passata in mare, e le donne, le donne nere del popolo, che aspettavano senza scarpe vicino all’acqua l’arrivo di quel pesce che sarebbe poi stato loro compito distribuire. Era una scena di grande intensità, era l’immagine di un mondo puro. Una volta ho letto che Omero usa circa trenta espressioni per descrivere l’azzurro del mare senza ricorrere al termine “azzurro”. Lo descrive in tante forme, lo descrive parlando del bianco, parlando delle voci, del sole, delle navi, della fame umana, della bellezza delle grandi ricerche. Quando ripenso a quegli anni penso a queste immagini, che il mare era azzurro, io l’ho visto azzurro, ma l’ho visto azzurro nel bianco, nel verde, nel giallo, nel marrone, nel nero. E tutto questo mi ha offerto l’inizio di una visione.  Queste suggestioni mi riportano a due poeti come Derek Walcott, al suo Omeros ambientato ai Caraibi e al premio Nobel Saint John-Perse… Sono due voci straordinarie per raccontare l’umanità, sono grandi testimoni dell’umano. Saint John-Perse in Italia non è molto conosciuto, nonostante il Nobel. In Portogallo lo abbiamo tradotto di nuovo. Anche in Italia, è uscita una bellissima versione di Amers a cura di Nicola Muschitiello per le Edizioni Medhelan.  Mi interessa molto.  José Tolentino è stato creato cardinale nel 2019 da Papa Francesco Ritorniamo alla sua infanzia, cosa accadde dopo l’esperienza africana? Dopo i primi anni in Angola, con la decolonizzazione, tornai a Madeira, in Portogallo, nell’isola “magica” dei miei genitori, di mia nonna che era una grande raccontatrice di storie. Per me fu interessante passare dalla vastità dell’Africa al microcosmo dell’isola perché fu un esercizio di “concentrazione”. Anche se sicuramente non furono anni facili per i miei genitori, perché in quel cambiamento persero la stabilità che avevano conquistato, la casa, la vita di prima. Non erano sicuramente anni facili per loro, ma io vissi l’arrivo nell’isola come un’esperienza nuova. Per esempio, in Angola conoscevo soltanto due stagioni, l’inverno e l’estate. Lì non ci sono le stagioni intermedie. E invece arrivato nell’isola ricordo una gita scolastica per “incontrare l’autunno”, così la professoressa chiamò quell’esperienza. Ricordo che raccolsi una foglia di un albero e rimasi fermo a guardarla… cercavo l’autunno… Più tardi sperimentai l’esperienza di Rilke secondo cui il poeta è una “conseguenza dell’autunno…”. In Ares abbiamo preparato una biografia di Rilke per il 150° anniversario della nascita. Quali sono i suoi autori di riferimento? Per me Rilke è una memoria importante. Tra i miei primi punti di riferimento, c’è stata la Bibbia, che mi ha sempre incuriosito molto, per la forza, la bellezza e la densità della parola. In una famiglia cattolica come la nostra la Bibbia era una compagnia e per anni fu praticamente l’unico libro che vidi nella stanza dei miei genitori. Ma ci furono altre suggestioni di natura biblica. All’inizio dell’adolescenza avevo un quaderno, una sorta di diario, dove cercavo di copiare gli Spirituals afro-americani, non ero interessato tanto alla musica o alla possibilità di cantare, quanto alla forza della parola. Mi piacevano anche i Salmi e dopo di essi, piano piano, sono passato alla poesia, alla poesia moderna e contemporanea. Prima con i poeti portoghesi e devo dire che il Novecento è un secolo d’oro per la poesia portoghese, perché abbiamo una decina di nomi assolutamente illuminati.  Quali autori consiglierebbe ai lettori italiani? Uno non ha bisogno di essere consigliato, perché è già ben conosciuto ed è Pessoa. Un altro è Herberto Helder, che è stato tradotto anche in Italia. Helder è un poeta orfico nato nella mia stessa isola, anche se ha vissuto tutta la vita a Lisbona. La prima poesia che ho scritto aveva come titolo “L’infanzia di Herberto Helder” perché il mondo che ho trovato leggendo le sue poesie era per me come uno specchio o una polla d’acqua, emersa dopo aver scavato, dove vedere riflesso il mio volto. Un’altra poesia che mi ha dato molto è quella Sophia de Mello Breyner Andresen, una grande poetessa portoghese che aveva il fascino della Grecia e di tutta la poesia greca. Nella sua poesia sono molto importanti gli odori, la visione, i rumori. Penso di aver fatto il primo viaggio in Grecia grazie ai suoi versi.  E poi vorrei ricordare Eugénio de Andrade che è il nostro Quasimodo, la sua lirica è di grande purezza e trasparenza e allo stesso tempo è come il suono di un flauto che ha qualcosa di orientale. Infatti, il poeta preferito di Andrade è Li Bai (Li Po) che è anche uno dei miei poeti preferiti. E mi ha iniziato anche nell’ascolto a una poesia che viene da più lontano, non soltanto della Grecia o dal mondo biblico, ma anche di un Oriente lontano dove, inoltre, la poesia portoghese ha radici forti, penso a Camões o un altro poeta importantissimo della nostra tradizione come Camilo Pessanha che ha vissuto a Macao e che era molto stimato da Pessoa.  Quasimodo è poco considerato in Italia adesso e invece è un poeta importante. È un poeta che ha detto molto e che “ha scritto nell’acqua” perché la sua è una poesia “liquida”; dopo la “società liquida” di Baumann il termine sembrerebbe negativo, invece, nella tradizione lirica “liquido” vuol dire vicino alla musica, ha una dolcezza che non è ingenua, ma che è un tocco sapienziale, profondo. Alla fine, penso che Quasimodo sia un grande erede di una luce, di un fulgore che si trova in alcuni poeti latini.  Sulla tomba di Keats è scritto «qui giace uno il cui nome fu scritto nell’acqua». Keats è un autore che ha costruito un’opera straordinaria scrivendo le sue poesie sull’acqua. Mi piace molto il concetto che Keats sviluppa di “capacità negativa”, concetto che possiamo avvicinare all’esperienza negativa di cui parla la mistica, e che alla fine è quel ritrovamento fondamentale che viene più dalla passività di quando ci lasciamo incontrare, ci lasciamo trovare da una verità più grande di quella che noi potevamo immaginare. È una visione analoga a quella di san Giovanni della Croce che è uno dei miei riferimenti spirituali, un autore a cui torno molte volte; so a memoria alcune delle sue poesie e a loro ricorro come preghiera… lì c’è tutto. Lei ha pubblicato il suo primo libro di poesia nel 1990 che è anche l’anno della sua ordinazione sacerdotale, sembra che queste due vocazioni siano state parallele; quali sono stati i primi segni della chiamata? I primi segni arrivarono molto presto nella mia vita perché sono entrato nel seminario minore a 11 anni. Forse a quell’età non si può ancora parlare di una vocazione matura, ma si può dire che si ha una tensione a quel mondo, a quella “voce”, a quello speciale rapporto con Dio e con l’esperienza religiosa. Vedevo che l’esperienza religiosa era concomitante con il processo di coscienza di me stesso. Era come un’“apparizione” a me stesso. Avere coscienza di noi stessi significa che siamo una vita, una storia, che abbiamo un nome, un modo di essere. La religione è sempre stata una chiave della mia vita. Da questo punto di vista, non fu una sorpresa, sicuramente anche per l’ambiente familiare, il mondo dove sono cresciuto che era profondamente religioso, ma fu una scelta, un viaggio, un “nomadismo” al quale mi sentii chiamato molto presto. Quali sono le sue preghiere preferite?  Vorrei richiamare i miei incontri con Mario Cesarini, il poeta surrealista più importante del Portogallo, autore di alcune delle più belle poesie del Novecento portoghese. Era un uomo profondamente credente, ma il suo rapporto con il cristianesimo era molto conflittuale, aveva però una passione assoluta per la Salve Regina e quando mi incontrava mi faceva recitare la Salve Regina, una preghiera che prima recitavo in modo ordinario… ma vedendo la profonda emozione di quest’uomo senza pratica religiosa nei confronti della Salve Regina, ho cambiato il mio atteggiamento di fronte a questa preghiera che è diventata presenza quotidiana nella mia vita. Non solo perché la ripeto ogni giorno ma perché corrisponde a una sorta di illuminazione, mi piace ripeterla in latino come l’ho ascoltata da questo poeta. È una preghiera di straordinaria bellezza. Ho fatto questo esempio per ribadire che i poeti, anche quelli più inaspettati, sono dei veri maestri spirituali. Un poeta prepara sempre la nostra anima per una grande esperienza spirituale. Sono le “levatrici” della nostra anima.  Mario Cesarini ha rivelato la Salve Regina a me che ero seminarista… Vorrei poi ricordare un’altra poetessa, la già citata Sophia de Mello Breyner Andresen, persona, come dicevo, affascinata dal mondo greco e senz’altro più vicina a Atene che a Gerusalemme: lei considerava il Magnificat come la poesia più straordinaria che lei conoscesse. Diceva che le grandi poesie, anche quelle di Omero sono così, non hanno un autore, è come se fossero sospese nel tempo da sempre e le possiamo cogliere e fare nostre in un modo molto più radicale di tutti gli altri testi. Devo dire che il Magnificat è sempre una preghiera che mi fa tremare di gioia. Perché forse ritrovo quella vastità che mi ha stupito nel mio primo sguardo al mondo. “Entusiasmo” è una parola che descrive bene il Magnificat, mi piace l’entusiasmo con cui Maria pronunciò quelle parole. Un altro mio riferimento per la preghiera è il Cantico dei Cantici, un testo bellissimo che ho anche tradotto in portoghese. Del Cantico è uscita una bella edizione di Giuseppe Conte per Il cenacolo delle Arti, le raffinate edizioni di Lamberto Fabbri. Mi piacerebbe vederla, io conosco la traduzione di Guido Ceronetti, che è anche molto interessante. Sono molto interessato a tutto quello che riguarda la traduzione. Ceronetti è l’uomo della parola scorticata. Ma quella ferita che resta dopo la lettura è un dono che rimane. Il Qoelet di Ceronetti è straordinario… È straordinario. A me interessa molto la poesia tradotta da poeti, da scrittori, perché c’è un corpo a corpo con la parola, che ti introduce in un’esperienza nuova. Tra i miei salmi preferiti c’è l’87/88 che è forse il più disperato del Salterio… quasi un viaggio nella terra dei morti… …Che alla fine è anche il mondo dove abitiamo. In fondo quella disperazione è un modo di rivelarsi dell’umano nella sua verità più profonda. E questi sentimenti estremi, sia quelli provocati da una disperazione sia da una grande gioia, colgono l’umano nel suo stato flagrante. Per questo dobbiamo ascoltare i disperati e gli entusiasti, tutti e due, dobbiamo in una mano accarezzare il dolore e nell’altra sostenere la gioia. Mi ha colpito lo splendido commento del card. Ravasi al Qoelet, quando suggerisce l’idea che la Sacra Scrittura racconti l’abisso per dire che Dio è consapevole di quanto profondo possa essere il dolore umano.  E quella è un’umanità vera, senza risposte facili e banali, è un’umanità davanti al Mistero, alla notte del mondo, all’enigma di sé stesso, al senso non soltanto penultimo che tante volte sembra esaurire la realtà, ma il senso ultimo, il “perché”. Il perché alla fine è la nostra “sala parto” perché, quando affrontiamo il “perché” diamo al verbo nascere un’opportunità di coniugarsi nel presente.  C’è tanta disperazione tra i giovani e io credo che quella che Benedetto XVI una volta chiamava via pulchritudinis può essere una via per avvicinarli a un senso di stupore, alla vita, per non cadere nella disperazione, perché hanno bisogno di autenticità e di fronte alla bellezza c’è autenticità.  La bellezza cambia la temperatura: è un brivido, una ferita, ci offre, anche se in un modo limitato, un’esperienza di verità, di assoluto, che allo stesso tempo appartiene e non appartiene a questo mondo. Nell’arte noi sperimentiamo questo. Una vicinanza a una perfezione, che tante volte solo un’imperfezione rende visibile, ma una vicinanza a una perfezione che è come una piccola tremula luce che ci fa vedere il fondo della strada. Alessandro Rivali *L’intervista realizzata da Alessandro Rivali sarà pubblica sul prossimo numero di “Studi Cattolici” In copertina: Gaetano Previati, Notturno o Il silenzio, 1908 L'articolo “Un’iniziazione allo stupore”. Dialogo con José Tolentino de Mendonça proviene da Pangea.
October 29, 2025 / Pangea
“In pieno azzurro”. La poesia di Alexandre O’Neill
Mariano Sartore in memoriam …memórias de cais afastados e doutros momentos Doutro modo da mesma humanidade noutros pontos. Alexandre O’Neill pubblica Tempo di fantasmi a Lisbona nel 1951. Ha ventisette anni, si è appena tuffato nel fuoco surrealista. Ma incanto e disincanto si confondono: in questa breve e fulminante silloge l’alchimia della parola rifiuta gli espedienti stilistici, la cifra del verso eccede e condanna l’astuzia dell’effetto. I falsi poeti, araldi delle proprie miserie e illusioni – la prima, la più atroce: l’io – sono severamente cacciati dal giardino della potenza creatrice: «Vattene vattene/ tu che cammini come un cieco fingendoti veggente/ tu che lasci sbalorditi gli adolescenti / coi tuoi gesti da Ambasciatore dell’Invisibile/ da Sacerdote del Mormori/ da generoso Donatore di Sangue della Vertigine/ vattene». La messa al bando della menzogna è premessa necessaria, perché Tempo di fantasmi struttura e scandisce un itinerario sacro. Col timbro dei vangeli, la poesia ordina di lasciare tutto, perfino «quel che l’algebra più segreta/ decise in tuo favore». Ciò che in vita il rinunciante ha seminato, in altri germoglierà – altri si faranno carico delle sue opere, di quella che aveva creduto essere la propria giustizia: «L’ombra che proiettasti/ forse qualcuno la risolverà/ in un diamante crudele». I morti seppelliranno i morti – ora il cuore è libero, anzitutto davanti a se stesso. Finalmente vuoto, inizia il suo cammino, che è il miracolo della metamorfosi: «dalle mani escano gesti/ di pura trasformazione// Tra il reale e il sogno/ saremo noi la vertigine». La poesia chiama, elegge i suoi alleati – e mentre le ‘madri’ (immagine della provenienza e dei legami, ululanti anche se recisi) piangono «nel denso fiume di un sogno/ già quasi solo animale», il liberato ha iniziato il cammino della sua trasformazione. Ma la metamorfosi del liberato sempre deve tornare ad attingere il proprio principio vivificante, che non è un abbandono tiepido delle sicurezze e delle consuetudini, ma l’attiva rivolta contro di esse. La rivolta perpetua, la guerra santa sempre in atto nel cuore umano, è lo spazio in cui ogni poeta ritrova i suoi fratelli sconosciuti, e il punto da cui ogni poesia si dirama e fiorisce, in infiniti, inattesi trionfi: «E quando puoi ribellati// Prendi il Cammino-di-Tutte-le-Sorpres/… /vai vai sempre/ cominci ad assomigliare a qualcuno di noi / e la tua risata è già umana». Questo divenire, questo andare verso il vero sé, non può non trascinare con sé il mondo, che il poeta non vede più come l’esterno, come il negativo della parola, materia che resiste. O’Neill sente la voce delle cose – come in un improvviso incrocio fra Rilke, Proust e Benjamin. L’ambiente che avvolge il poeta vive nelle sue parole, in esse trova la propria voce, ma non si lascia esaurire nella lingua, né si riduce a un utilizzabile: «Il tuo nome/ perfino gli oggetti lo sanno/ quando ci chiedono un uso differente/ gli oggetti tanto consumati tanto stanchi/ della circolazione assurda a cui li costringono»; «Dalla loro indifferenza/ aggressivamente le cose escono// Ci sentiamo circondati/ minacciati dalle cose/ e ora rimpiangiamo il tempo perduto/ per disporle a nostro favore».  Ma non vi è indugio malinconico sul mutismo del mondo, sulle rovine della storia che aspettano la parola della poesia; è di nuovo la rivolta ad incalzare il poeta, a richiamarlo al viaggio, al poema come gesto assoluto: «è l’ora di non obbedire/ di ricominciare cantando/ calamità disastri/ rovine da decifrare/ … / Andiamo a decifrare rovine/ identificare i morti/ dormire con donne reali / denunciare i traditori/ e tradire la poesia/ avvelenata nelle parole/ che respirano un’assenza marcia/ andiamo a dire senza maiuscole/ l’amore la vita la morte».  Il poeta ha attraversato il suo deserto, è giunto mutilato a vedere da lontano la terra promessa della poesia: riprende fiato, e subito riparte – fedele. Dalla giovinezza alla maturità, O’Neill non ha creduto che a questo antico patto con la lingua, al messianismo di una parola che sia vera. Perché nessuno sia più in grado di mentire su ciò che ha visto: «Perché è tempo di rompere con tutto questo/ è tempo di unire nello stesso gesto/ il reale e il sogno/ è tempo di liberare le immagini le parole / dalle miniere del sogno in cui siamo scesi/ minatori sonnambuli dell’immaginazione// È tempo di svegliarsi nelle tenebre del reale /nella desolata promessa / del giorno vero». Tommaso Scarponi * Da Tempo di Fantasmi Canzone Che esca l’ultima stella dall’avidità della notte e la speranza arda arda nel nostro petto Ed escano anche i fiumi dalla pazienza della terra È nel mare che l’avventura trova le sponde che merita Ed escano tutti i soli che sono marciti nel cielo di quelli che non volevano vedere – ma che escano in ginocchio E dalle mani escano gesti di pura trasformazione Tra il reale e il sogno saremo noi la vertigine * In pieno azzurro Con orrore appena mascherato sincero disgusto (sì!) lacrima azzurra afflitta mano increspata di pietà mi vedono passare cantando calamità disastri impossibili da evitare le madri                  le mie la tua quelle che calpestano teneramente i figli per il monotono e prudente progresso della famiglia E quando mi fermo e faccio la propaganda dei luoghi più comuni della poesia c’è un terrore quasi osceno nei tuoi occhi materni Quindi prometto congressi in pieno azzurro Prometto una soluzione in pieno azzurro Prometto di non fare nulla in pieno azzurro Senza consultare il bureau in pieno azzurro Visibilmente quiete è l’ora di non obbedire di ricominciare cantando calamità disastri rovine da decifrare * Se non stessi dormendo chiederei ai poeti A che ora desiderate che vi svegli? Andiamo a decifrare rovine identificare i morti dormire con donne reali denunciare i traditori e tradire la poesia avvelenata nelle parole che respirano un’assenza marcia andiamo a dire senza maiuscole l’amore la vita la morte * E le madri dove sono? Le madri pregano le madri cuciono stracci di dolore le madri gridano piangono ululano nel denso fiume di un sogno già quasi solo animale * Di passaggio I Vattene vattene tu che cammini come un cieco fingendoti veggente tu che lasci sbalorditi gli adolescenti coi tuoi gesti da Ambasciatore dell’Invisibile da Sacerdote del Mormorio da generoso Donatore di Sangue della Vertigine vattene e che le donne che un tempo ti servirono come madri ti raccolgano di nuovo e ti coprano con stracci di tenerezza con pidocchi di tenerezza con piaghe moccio sterco di tenerezza e che poi ti spoglino come si spogliano i vecchi e i bambini e impieghino anni a staccare dal tuo corpo tremante le croste che per tenerezza vi avevano messo anni e anni alle soglie delle porte a liberarti dai pidocchi dalle migliaia di pidocchi che succhiano la tua stupida testa E quando puoi ribellati Prendi il Cammino-di-Tutte-le-Sorprese il cammino che percorresti al contrario in disumano senso proibito lotta coi vagabondi del sogno che incontrerai e sterminali loro sono la tua vecchia presenza in questa terra di uomini sono ciò che tu credevi avere di più umano lotta con loro e prosegui precipita il tuo nuovo essere corre davanti a lui lascia stare le grida e le preghiere le lettere delle donne tornate indietro vai vai sempre cominci ad assomigliare a qualcuno di noi e la tua risata è già umana II E anche tu, coi gesti del martello cosmico anche la tua falsa staffa d’orgoglio vanità spiata nelle vetrine dove il lusso mostra i denti alla canaglia tu stesso miseria splendente di queste strade arrotolato sogno di grandezze impossibili cigno pallido di cinismo rutto azzurro sangue in prestito bavero delle piccole virtù dei piccoli miti che ancora ti sostengono, o morto già da tempo sparisci anche tu nella grande fogna che fa giustizia a tutti non rassegnarti ad attendere qui sei solo grottesco solo questa luce lunare questa illusione di vita che rubi giorno dopo giorno questo sfogo megalomane diario scongiuro della paura specchio di ora in ora interrogato Sparisci ora che nessuno fa caso a te nemmeno i martelli cosmici Per la voce contraffatta della poesia * Ma all’improvviso torni in un dolore di speranza senza ragion d’essere Dalla loro indifferenza aggressivamente le cose escono Ci sentiamo circondati minacciati dalle cose e ora rimpiangiamo il tempo perduto per disporle a nostro favore Perché è tempo di rompere con tutto questo è tempo di unire nello stesso gesto il reale e il sogno è tempo di liberare le immagini le parole dalle miniere del sogno in cui siamo scesi minatori sonnambuli dell’immaginazione È tempo di svegliarsi nelle tenebre del reale nella desolata promessa del giorno vero * In questa luce quasi folle che si aggrappa ai tetti agli alberi ai capelli delle donne agli occhi più scuri parliamo di te del tuo alto esempio ed è con intimità che lo facciamo parliamo di te come se fossi l’albero più luminoso o la donna più bella più umana che ci è passata accanto con gli occhi della vertigine trascinando tutta la luce con sé * Ma non sono io a dispiacermi per te I tuoi miti ti aspettano già impazienti Ora va’ passa da queste parti fra qualche anno Forse mi troverai forse potrò fare qualche cosa per te qualche cosa di semplice quasi inutile quasi ridicola offrirti una sillaba un consiglio una sigaretta Alexandre O’Neill Traduzione di Tommaso Scarponi L'articolo “In pieno azzurro”. La poesia di Alexandre O’Neill proviene da Pangea.
September 30, 2025 / Pangea