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“Pura febbre interiore”. Dio in poesia: un’antologia di Jean Grosjean
Jean Grosjean è stato un genio. Prete spretato, vissuto pressoché in solitudine, è morto nel 2006, più che novantenne. Conobbe André Malraux e Claude Gallimard – con cui inaugurò un’amicizia senza sconti – in prigione, durante la Seconda guerra, in Pomerania. Proprio con Gallimard pubblica i suoi libri in versi – Terre du temps, 1946, Fils de l’Homme, 1954, La Gloire, 1969, ad esempio –, spesso molto belli; si è inventato un ‘genere’, il racconto lirico – che ha i suoi precordi negli Ébauches di Rimbaud – dal fascino, spesso, perturbante. Uno di questi testi, Le Messie, è stato tradotto lo scorso anno da Qiqajon; ne restano molti altri: Pilate (1983), La Reine de Saba (1987), Samuel (1994), ad esempio. Incessante ‘cercatore’, tra i rari maestri del secolo, Grosjean ha tradotto, con sapienza superiore, diversi testi dalla Bibbia (i profeti, l’Apocalisse); ha tradotto il Corano (1979) e i tragici greci (1967). Per Gallimard, nel 1989, insieme al futuro Nobel per la letteratura Jean-Marie Gustave Le Clézio, ha fondato la collana “L’Aube des peuples”, con l’intento di setacciare miti e leggende di ogni angolo del globo. Alla società degli intellettuali, preferiva il lavoro duro, a tratti brutale. Non presenziava – agiva.  Nel 1984, sempre per Gallimard, nella ‘Collection folio junior en poésie’, Grosjean s’inventa un’antologia di millenaristica bellezza. S’intitola Dieu en poésie, e assembla, dall’Epopea di Gilgamesh a Rutger Kopland, l’ultimo autore antologizzato, diversi testi che sfidano il numinoso, che dicono l’indicibile, che accarezzano o fanno lo scalpo a Dio. L’antologia, antiaccademica, funziona come un breviario: è piccola, corta – ottanta pagine –; in copertina, un uomo, stilizzato, su un colle, fissa l’orizzonte. L’arcobaleno, al contempo, è una palpebra che si spalanca, una bocca pronta a inghiottire.  Il repertorio di testi – di cui in calce abbiamo tradotto quelli meno ovvi, i più inaccessibili – è scelto secondo il criterio di ecumenica razzia che anima il lavoro di Grosjean: ai Salmi e a Omero fanno specchio Laozi e Wang Wei, al-Hallaj e Khayyam, Ibn Al-Farid e Pascal; appaiono, come spettri della consolazione, John Keats e Edgard Allan Poe (nella versione di Mallarmé), Friedrich Hölderlin, l’assoluto ispirato, e Rimbaud, Gerard Manley Hopkins e Paul Claudel. Ci sono – come da attendersi – Giovanni della Croce, Eschilo, Meister Eckhart (“Se l’Anima vuole seguire Dio nel deserto della deità, il corpo segua il Messia nell’assolata povertà”) – ma anche Charles d’Orléans, Marceline Desbordes-Valmore, Kamo-no-Chomei, Francis Jammes, Jules Supervielle e Francis Thompson. Il capriccio – che è poi l’andare bendati nella notte oscura del cuore – precede l’ecumenismo. Secondo Grosjean, “Poesia è spesso la trama di tracce di ciò che accade dentro l’uomo, nel suo intimo”; di qui, l’dea che il divino non conforta ma spiazza, non accarezza ma azzera, e che la grande cerca è, in fondo, la caccia assoluta.  Non è un caso che un’antologia intitolata a Dio rechi a mala pena lo stigma del Nome – appena sussurrato, come si stana un lupo, come si disinstalla una spada, come si abbevera d’urlo la stella. Così scrive Grosjean nella pagina introduttiva: > “Dire semplicemente che Dio è l’aldilà di noi significa confonderlo con > l’universo – o peggio ancora, con la morte, la follia, la droga, il sogno. Ma > questi domini hanno ciascuno un nome proprio. Poiché la parola Dio esiste, > essa corrisponde a un’esperienza particolare, che è forse una consonanza tra > azione, affetto, riflessione. Una volta espulso dal caos animale, l’uomo può > irradiarsi in un metodo: questa è la via del progresso spettacolare e > contradditorio di una civiltà che resta, ai miei occhi, spietata e insensata. > Oppure, può abbandonarsi alle vie di fuga della sensazione e dell’immaginare: > questo fermento è culturale tra i benestanti, religioso tra i poveri, ma Dio > non appartiene all’uno né all’altro. Se l’uomo si accontenta di essere, una > volta presa coscienza di sé, pura febbre interiore, pura postura, così > specificamente umano da diventare anormale, allora si avventura nei cammini di > Dio. Questi cammini, sono innumerevoli, a seconda delle epoche, dei climi, dei > temperamenti. I testi qui raccolti, testimoniano il passaggio su quei > sentieri”. È fuori dalla ‘norma’ del linguaggio, fuori dalle istituite strade che mettono la museruola al verbo; fuori dalla gabbia grammatica – l’arma del potere – che accade qualcosa, che scintilla il colpo d’ala dell’angelo. Dunque: la poesia come miccia a innescare il sacro, come esca che attrae il dio – o il suo doppio, l’illustre illusione. Da qui si passa: a rischio di essere creduti gli abominevoli, gli strambi – prima di tutto, da sé. Che la poesia strombi in preghiera, devii nell’erbaceo inno, a pieno petto, a pieni pugni, è perfino ovvio – risultato non si dà oltre a questo rospo respiro. A volte, un poeta incappa nell’assoluto senza volerlo: intrappolato nei suoi stessi versi. Nessuna certezza né calcolo acclimatano alla gloria chi tenta il sacro. Forse, stiamo sbagliando strada. Pazienza. Sarà pur meglio che viaggiare dove vanno tutti.  ***  Atharva-Veda Il Soffio Gloria al Soffio signore del mondo il mondo ha in lui la sua trave. Gloria al tuo ruggire alla tua stirpe di tuoni al tumulto dei fortunali alle piogge.  Gloria a te quando vieni quando vai                  quando ti issi                 quando posi. Il Soffio vive nelle creature come il padre vive nell’amore del figlio. Padrone di ciò che respira e di ciò che non respira più.  * Esuperio di Bayeux (IV secolo) All’imperatore  Signore, siamo tuoi soldati ma siamo gli schiavi di Dio. A te offriamo il servizio in armi a Lui è dedicata la nostra anima.  Il salario viene da te a Lui dobbiamo la vita. A te l’obbedienza, sempre a patto che non sia contro di Lui. Combattiamo i tuoi nemici solo se non sono innocenti. Ti siamo fedeli, sempre ma la nostra fede è in Dio. Se deludessimo Dio dovresti infamarci.  * Anonimo islandese La croce Croce vessillo di Cristo del suo supplizio tu squarci il cielo prepari all’uomo la casa della vita. Salvifica Croce pacifica inchiodate a te hai tenuto le sue braccia Il suo sangue ti ha fatto sbocciare nel Giudice. Sei la zattera degli amanti di Dio: li trasporti tra crimini  e fortunali al porto della vita.  * Anonimo latino Nel fuoco si rintana il sole, ma tu sei la luce indivisa che invade i nostri cuori con fervore. A te cantiamo all’alba imploriamo Te a sera: trasformaci negli astri che ti acclamano tra gli dèi. Inesauribile sia la gioia come sempre è stata al Padre e al Figlio e a te, Sacro Soffio.  * Jan Kochanowski (Radom, Polonia, 1530 – Lublino, 1584) Il sonno Instilli l’idea della morte, sonno, ma ci fai desiderare la vita. Dai riposo a questo corpo terreno perché l’anima possa involarsi nei cieli. Il giorno si leva dal mare.  Lo splendore della neve e del gelo fanno sparire le ombre. I fuochi degli astri celesti cantano l’inno delle sfere.  Gioie innocenti dell’anima: il corpo dovrà morire accarezzalo mentre dorme.  * Fénelon (Sainte-Mondane, Francia, 1651 – Cambrai, 1715) Questa luce semplice, infinita, immutabile, che a tutti si dona senza spezzarsi, che illumina gli spiriti come il sole rischiara i corpi. Chi non l’ha mai vista nasce cieco. Trascorre la vita in una notte oscura e muore senza nulla aver visto. Semmai, intravede barlumi oscuri, vane ombre, futili scintille, irreali spettri.  * Carl Jonas Love Almquist (Stoccolma, 1793 – Brema, 1866) Rosa Il nostro cuore è un pallido fiore.  L’ha piantato Dio e lo chiama rosa.  Le sue spine graffiano il cuore – e il cuore chiede: perché? Dio risponde:  il tuo sangue macchierà il fiore e tu sarai un po’ come me.  * Henri de Régnier (Honfleur, Francia, 1864 – Parigi, 1936) Il silenzio Forse il silenzio è una voce mutilata come quella del dio che tace nella statua e non serba più nulla di vivo se non l’ombra, al sole, che lo accerchia. Forse il silenzio è una voce che tutto sa come quella del dio che tace, eretto  nel marmo: il suo gesto è eterno  e l’ombra sussurra ai passanti sulla strada. Loro osservano, dal basso, i silenziosi ordini di un dio pietrificato.  * Endre Ady (Căuaș, Romania, 1877 – Budapest, 1919) Non ha più ombre la mia anima: la luce di Dio le ha messe in fuga. Il suo volto è velato ma i suoi occhi bruciano e invadono il cuore.  Se vinco è perché lui mi precede e combatte per me. Mi scorta, e quando dice: Dove sei? il mio cuore scoppia. Eccolo, è dentro di me lo tengo tra le braccia siamo legati nella morte.  * Jules Supervielle (Montevideo, 1884 – Parigi, 1960) Pettegolezzi Appena sopra le nostre teste, gli dèi che ci dominano chiacchierano allungando il collo. Li sentiamo: pronunciano i nostri nomi come se fossimo già morti senza rispetto per tutta questa natura che si dispiega nell’enorme silenzio di cui siamo parte.  Ci giudicano, ci soppesano ignorano i dettagli urlano a tutti i nostri segreti poi, eccoli, più rigidi di una statua immobili e freddi come ponti di ferro sotto cui passiamo così nudi e inermi così disillusi, ma fieri perché dietro di noi rispendono ancora le montagne davanti a noi è ancora bello il mare.  * Abu Shadi (Il Cairo, 1892 – Washington D.C., 1955)  Foresta, autunno Perdi le foglie per istruirmi sulla vita che scorre? Vuoi forse addestrarmi in merito alla vanità del sogno? Il tuo pallore mi mortifica, sanguini come se la stagione fosse da eseguire così, senza pietà.  Gli uccelli piangono la tua morte: li hai protetti dai venti del nord.  Hai reso un deserto i sentieri del sole che si erano adornati di smeraldi per compiacerti.  * Jean Follain  (Canisy, Francia, 1903 – Parigi, 1971) Ladrone  Battono nel prato i cuori delle mucche: un uomo avanza perché vuole il loro latte – non ama, non odia e cammina sulla rugiada.  Il tempo si ferma solo per lui il sole è sulla vetta del cielo e quell’uomo può dormire può ripudiare l’infanzia, la vecchiaia, l’umanità. Se passi da lì non ha senso urlare: Aspetta.  * Rutger Kopland (Goor, Paesi Bassi, 1934 – Glimmen, 2012) D D, ho descritto il tuo viso in una poesia come una grande assenza, l’ho paragonato a una superficie d’acqua dove ho visto, un giorno, il muso di un cavallo: quando ho alzato gli occhi la riva era deserta. L’ho paragonato al vento: udii il respiro di un cane morto – in questa casa era così ingombrante il silenzio. L’ho paragonato a molto di più, D, a molte cose, più di quelle che ora ricordi, perché ora non trovo più quella poesia.  Non c’erano soltanto acqua o vento perché tu mi vedi quando non ti vedo  respiri e non ti sento, leggi ciò che non scrivo.  *In copertina: Pietà lignea di anonimo lombardo, XVI secolo L'articolo “Pura febbre interiore”. Dio in poesia: un’antologia di Jean Grosjean proviene da Pangea.
October 4, 2025 / Pangea