
“Pura febbre interiore”. Dio in poesia: un’antologia di Jean Grosjean
Pangea - Saturday, October 4, 2025Jean Grosjean è stato un genio. Prete spretato, vissuto pressoché in solitudine, è morto nel 2006, più che novantenne. Conobbe André Malraux e Claude Gallimard – con cui inaugurò un’amicizia senza sconti – in prigione, durante la Seconda guerra, in Pomerania. Proprio con Gallimard pubblica i suoi libri in versi – Terre du temps, 1946, Fils de l’Homme, 1954, La Gloire, 1969, ad esempio –, spesso molto belli; si è inventato un ‘genere’, il racconto lirico – che ha i suoi precordi negli Ébauches di Rimbaud – dal fascino, spesso, perturbante. Uno di questi testi, Le Messie, è stato tradotto lo scorso anno da Qiqajon; ne restano molti altri: Pilate (1983), La Reine de Saba (1987), Samuel (1994), ad esempio. Incessante ‘cercatore’, tra i rari maestri del secolo, Grosjean ha tradotto, con sapienza superiore, diversi testi dalla Bibbia (i profeti, l’Apocalisse); ha tradotto il Corano (1979) e i tragici greci (1967). Per Gallimard, nel 1989, insieme al futuro Nobel per la letteratura Jean-Marie Gustave Le Clézio, ha fondato la collana “L’Aube des peuples”, con l’intento di setacciare miti e leggende di ogni angolo del globo. Alla società degli intellettuali, preferiva il lavoro duro, a tratti brutale. Non presenziava – agiva.
Nel 1984, sempre per Gallimard, nella ‘Collection folio junior en poésie’, Grosjean s’inventa un’antologia di millenaristica bellezza. S’intitola Dieu en poésie, e assembla, dall’Epopea di Gilgamesh a Rutger Kopland, l’ultimo autore antologizzato, diversi testi che sfidano il numinoso, che dicono l’indicibile, che accarezzano o fanno lo scalpo a Dio. L’antologia, antiaccademica, funziona come un breviario: è piccola, corta – ottanta pagine –; in copertina, un uomo, stilizzato, su un colle, fissa l’orizzonte. L’arcobaleno, al contempo, è una palpebra che si spalanca, una bocca pronta a inghiottire.
Il repertorio di testi – di cui in calce abbiamo tradotto quelli meno ovvi, i più inaccessibili – è scelto secondo il criterio di ecumenica razzia che anima il lavoro di Grosjean: ai Salmi e a Omero fanno specchio Laozi e Wang Wei, al-Hallaj e Khayyam, Ibn Al-Farid e Pascal; appaiono, come spettri della consolazione, John Keats e Edgard Allan Poe (nella versione di Mallarmé), Friedrich Hölderlin, l’assoluto ispirato, e Rimbaud, Gerard Manley Hopkins e Paul Claudel. Ci sono – come da attendersi – Giovanni della Croce, Eschilo, Meister Eckhart (“Se l’Anima vuole seguire Dio nel deserto della deità, il corpo segua il Messia nell’assolata povertà”) – ma anche Charles d’Orléans, Marceline Desbordes-Valmore, Kamo-no-Chomei, Francis Jammes, Jules Supervielle e Francis Thompson. Il capriccio – che è poi l’andare bendati nella notte oscura del cuore – precede l’ecumenismo. Secondo Grosjean, “Poesia è spesso la trama di tracce di ciò che accade dentro l’uomo, nel suo intimo”; di qui, l’dea che il divino non conforta ma spiazza, non accarezza ma azzera, e che la grande cerca è, in fondo, la caccia assoluta.
Non è un caso che un’antologia intitolata a Dio rechi a mala pena lo stigma del Nome – appena sussurrato, come si stana un lupo, come si disinstalla una spada, come si abbevera d’urlo la stella. Così scrive Grosjean nella pagina introduttiva:
“Dire semplicemente che Dio è l’aldilà di noi significa confonderlo con l’universo – o peggio ancora, con la morte, la follia, la droga, il sogno. Ma questi domini hanno ciascuno un nome proprio. Poiché la parola Dio esiste, essa corrisponde a un’esperienza particolare, che è forse una consonanza tra azione, affetto, riflessione. Una volta espulso dal caos animale, l’uomo può irradiarsi in un metodo: questa è la via del progresso spettacolare e contradditorio di una civiltà che resta, ai miei occhi, spietata e insensata. Oppure, può abbandonarsi alle vie di fuga della sensazione e dell’immaginare: questo fermento è culturale tra i benestanti, religioso tra i poveri, ma Dio non appartiene all’uno né all’altro. Se l’uomo si accontenta di essere, una volta presa coscienza di sé, pura febbre interiore, pura postura, così specificamente umano da diventare anormale, allora si avventura nei cammini di Dio. Questi cammini, sono innumerevoli, a seconda delle epoche, dei climi, dei temperamenti. I testi qui raccolti, testimoniano il passaggio su quei sentieri”.
È fuori dalla ‘norma’ del linguaggio, fuori dalle istituite strade che mettono la museruola al verbo; fuori dalla gabbia grammatica – l’arma del potere – che accade qualcosa, che scintilla il colpo d’ala dell’angelo. Dunque: la poesia come miccia a innescare il sacro, come esca che attrae il dio – o il suo doppio, l’illustre illusione. Da qui si passa: a rischio di essere creduti gli abominevoli, gli strambi – prima di tutto, da sé. Che la poesia strombi in preghiera, devii nell’erbaceo inno, a pieno petto, a pieni pugni, è perfino ovvio – risultato non si dà oltre a questo rospo respiro. A volte, un poeta incappa nell’assoluto senza volerlo: intrappolato nei suoi stessi versi. Nessuna certezza né calcolo acclimatano alla gloria chi tenta il sacro. Forse, stiamo sbagliando strada. Pazienza. Sarà pur meglio che viaggiare dove vanno tutti.
***
Atharva-Veda
Il Soffio
Gloria al Soffio
signore del mondo
il mondo ha in lui
la sua trave.
Gloria al tuo ruggire
alla tua stirpe di tuoni
al tumulto dei fortunali
alle piogge.
Gloria a te quando vieni
quando vai
quando ti issi
quando posi.
Il Soffio vive nelle creature
come il padre vive nell’amore del figlio.
Padrone di ciò che respira
e di ciò che non respira più.

*
Esuperio di Bayeux
(IV secolo)
All’imperatore
Signore, siamo tuoi soldati
ma siamo gli schiavi di Dio.
A te offriamo il servizio in armi
a Lui è dedicata la nostra anima.
Il salario viene da te
a Lui dobbiamo la vita.
A te l’obbedienza, sempre
a patto che non sia contro di Lui.
Combattiamo i tuoi nemici
solo se non sono innocenti.
Ti siamo fedeli, sempre
ma la nostra fede è in Dio.
Se deludessimo Dio
dovresti infamarci.
*
Anonimo islandese
La croce
Croce
vessillo di Cristo
del suo supplizio
tu squarci il cielo
prepari all’uomo
la casa della vita.
Salvifica Croce
pacifica
inchiodate a te
hai tenuto le sue braccia
Il suo sangue ti ha
fatto sbocciare nel Giudice.
Sei la zattera
degli amanti di Dio:
li trasporti
tra crimini
e fortunali
al porto della vita.
*
Anonimo latino
Nel fuoco si rintana
il sole, ma tu sei la luce
indivisa che invade
i nostri cuori con fervore.
A te cantiamo all’alba
imploriamo Te a sera:
trasformaci negli astri
che ti acclamano tra gli dèi.
Inesauribile sia la gioia
come sempre è stata
al Padre e al Figlio
e a te, Sacro Soffio.
*
Jan Kochanowski
(Radom, Polonia, 1530 – Lublino, 1584)
Il sonno
Instilli l’idea della morte, sonno,
ma ci fai desiderare la vita.
Dai riposo a questo corpo terreno
perché l’anima possa involarsi nei cieli.
Il giorno si leva dal mare.
Lo splendore della neve e del gelo
fanno sparire le ombre.
I fuochi degli astri celesti
cantano l’inno delle sfere.
Gioie innocenti dell’anima:
il corpo dovrà morire
accarezzalo mentre dorme.
*
Fénelon
(Sainte-Mondane, Francia, 1651 – Cambrai, 1715)
Questa luce semplice, infinita, immutabile, che a tutti si dona senza spezzarsi, che illumina gli spiriti come il sole rischiara i corpi. Chi non l’ha mai vista nasce cieco. Trascorre la vita in una notte oscura e muore senza nulla aver visto. Semmai, intravede barlumi oscuri, vane ombre, futili scintille, irreali spettri.
*
Carl Jonas Love Almquist
(Stoccolma, 1793 – Brema, 1866)
Rosa
Il nostro cuore
è un pallido fiore.
L’ha piantato Dio
e lo chiama rosa.
Le sue spine graffiano
il cuore – e il cuore
chiede: perché?
Dio risponde:
il tuo sangue
macchierà il fiore
e tu sarai
un po’ come me.
*
Henri de Régnier
(Honfleur, Francia, 1864 – Parigi, 1936)
Il silenzio
Forse il silenzio è una voce mutilata
come quella del dio che tace nella statua
e non serba più nulla di vivo se non
l’ombra, al sole, che lo accerchia. Forse
il silenzio è una voce che tutto sa
come quella del dio che tace, eretto
nel marmo: il suo gesto è eterno
e l’ombra sussurra ai passanti sulla strada.
Loro osservano, dal basso, i silenziosi
ordini di un dio pietrificato.
*
Endre Ady
(Căuaș, Romania, 1877 – Budapest, 1919)
Non ha più ombre la mia
anima: la luce di Dio
le ha messe in fuga.
Il suo volto è velato
ma i suoi occhi bruciano
e invadono il cuore.
Se vinco è perché
lui mi precede
e combatte per me.
Mi scorta, e quando
dice: Dove sei?
il mio cuore scoppia.
Eccolo, è dentro di me
lo tengo tra le braccia
siamo legati nella morte.
*
Jules Supervielle
(Montevideo, 1884 – Parigi, 1960)
Pettegolezzi
Appena sopra le nostre
teste, gli dèi che ci dominano
chiacchierano allungando
il collo. Li sentiamo:
pronunciano i nostri nomi
come se fossimo già morti
senza rispetto per tutta questa natura
che si dispiega nell’enorme silenzio
di cui siamo parte.
Ci giudicano, ci soppesano
ignorano i dettagli
urlano a tutti i nostri segreti
poi, eccoli, più rigidi di una statua
immobili e freddi come ponti di ferro
sotto cui passiamo
così nudi e inermi
così disillusi, ma fieri
perché dietro di noi
rispendono ancora le montagne
davanti a noi è ancora bello il mare.
*
Abu Shadi
(Il Cairo, 1892 – Washington D.C., 1955)
Foresta, autunno
Perdi le foglie per istruirmi sulla vita che scorre?
Vuoi forse addestrarmi in merito alla vanità del sogno?
Il tuo pallore mi mortifica, sanguini come
se la stagione fosse da eseguire così, senza pietà.
Gli uccelli piangono la tua morte:
li hai protetti dai venti del nord.
Hai reso un deserto i sentieri del sole
che si erano adornati di smeraldi per compiacerti.
*
Jean Follain
(Canisy, Francia, 1903 – Parigi, 1971)
Ladrone
Battono nel prato i cuori delle mucche:
un uomo avanza perché vuole
il loro latte – non ama, non odia
e cammina sulla rugiada.
Il tempo si ferma solo per lui
il sole è sulla vetta del cielo
e quell’uomo può dormire
può ripudiare
l’infanzia, la vecchiaia, l’umanità.
Se passi da lì non ha senso urlare:
Aspetta.
*
Rutger Kopland
(Goor, Paesi Bassi, 1934 – Glimmen, 2012)
D
D, ho descritto il tuo viso in una poesia
come una grande assenza, l’ho paragonato
a una superficie d’acqua dove ho visto, un giorno,
il muso di un cavallo: quando ho alzato gli occhi
la riva era deserta. L’ho paragonato
al vento: udii il respiro di un cane
morto – in questa casa era così
ingombrante il silenzio. L’ho paragonato
a molto di più, D, a molte cose,
più di quelle che ora ricordi, perché
ora non trovo più quella poesia.
Non c’erano soltanto acqua o vento
perché tu mi vedi quando non ti vedo
respiri e non ti sento, leggi ciò che non scrivo.
*In copertina: Pietà lignea di anonimo lombardo, XVI secolo
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