Qualche tempo fa m’imbattei nell’articolo d’un grande quotidiano nazionale
italiano, abbeveratoio della sinistra “illuminata”, che s’incaricava appunto di
rischiarare le menti dei lettori sulla ragione per cui la stragrande maggioranza
dei ritratti pittorici e fotografici del passato, remoto e più recente, fissano
volti privi di sorriso e men che meno di una risata.
La soluzione dell’enigma era laconica unica e tassativa: la dentatura guasta o
mancante.
Avendo i nostri avi una chiostra impresentabile, era giocoforza serrare i labbri
per celare il vergognoso scempio. Una rivelazione che se non avessi appresa da
quel foglio, avrei pensato a un lazzo di burlone o a un momentaneo oscuramento
cognitivo dell’autore, tanto si tratta d’una sonora e proterva imbecillità
avvolta in rigore “scientifico”.
Vale la pena di spenderci qualche parola, ché essa è segno dei tempi.
Anzitutto, ammettendo che il re, o il condottiero, o il compositore musicale,
poniamo del Seicento o del Settecento, avesse i denti marci o assenti, non vedo
la ragione da parte del pintore di darsi al verismo ante litteram, postoché
volesse serbare la committenza e magari anche il capo sul collo. E mi sento più
fesso di quel giornalista a dover osservare tanto: ma a un’idiozia si deve
replicare, non potendo con pedate nel didietro, con altrettali banalità, come si
fa coi bambini tardi.
Meno, assai meno c’è – a proposito – da ridere o sorridere, se non di
commiserazione, traducendo il discorso dalla pittura alla fotografia: giacché
non c’era alcunché da celare.
Eh sì. Se l’estensore di quell’articolo rivelatore avesse letti buoni libri o
anche soltanto scartabellato “in rete”, si sarebbe sùbito accorto che le
dentature dei nostri antenati erano più che complete sane e non di rado
bellissime. Chi avesse avute magagne dentarie aveva di poi alla disposizione
diversi tipi di protesi, le quali risalgono – si aprano bene gli occhi – al 2500
a.C. Delle condizioni di molari e incisivi nelle epoche “arretrate” si trova
ampia traccia ovunque. Penso a esempio ai Colloqui con Arthur Schopenhauer o a
qualche buona biografia di Abramo Lincoln, il quale, come riferisce John Kleeves
(Stefano Anelli) in Un Paese pericoloso, possedeva una protesi di denti umani.
Leggendo di poi l’Histoire de ma vie di Giacomo Casanova si trovano non poche
descrizioni di splendide dentature naturali, anche presso le classi meno
abbienti, così mirabili che il Gran Veneziano si sente in dovere di rilevarlo.
Spostandoci nel tempo arriviamo a Gabriele d’Annunzio, del quale molti non
mancavano di far notare una dentatura infelice; segno, l’osservazione, che
ancòra cent’anni fa una bocca guasta, per di più in una persona alla quale non
mancavano di certo conoscenze e danari per farsela arrangiare, attirava
l’attenzione (e anche gli scherni di qualche tanghero).
Ci sostiene anche Totò, cantando per di più d’una popolana, l’acquaiola, nella
poesia eponima, che «se chiamma Teresina, – sì e no tene vint’anne, – capille
curte nire nire e riccie, – na dentatura janca comm’ ‘a neve».
Sulle epoche antiche o antichissime basterà sfogliare qualche volume di
archeologia per ammirare teschi con denti originali perfetti, nonostante le
migliaia d’anni trascorse. Un archeologo che interpello conferma: al massimo
manca qualche dente ogni tanto, ma sono in stragrande maggioranza bocche
intatte, a qualsiasi latitudine, in qualsiasi èra. Brutte dentature in qualche
passato, beninteso, ce ne saranno state; ma non certo nella misura imaginata da
certi scribacchini perdigiorno.
Proseguiamo.
È falso che i nostri avi, celebri o meno, si facessero ritrarre pressoché sempre
col cipiglio. Ci sono intiere biblioteche di imagini di contadini, e operai, e
bottegai sorridenti (e, peraltro, talora sdentati); così come non è inferiore il
novero di figure fissate nell’abbozzo o nello spiegamento d’un sorriso. Almeno
in un paio di ritratti fotografici si vede proprio Schopenhauer con la faccia
mossa in un lieve sorriso sarcastico.
Come dunque si vede, l’analisi di quel rappresentante dell’intellettualità
progressista, che verisimilmente avrà ripresa la grande rivelazione da qualche
ricercatore americano o inglese, è, per adoperare un proverbio giusto di quelle
parti, una cagata nel ventilatore (acceso). Ma di dove viene una simile boriosa
sicumera? Credo di avere la risposta, che è duplice.
Per cominciare, da un pregiudizio tipicamente moderno, della modernità più
corriva e ottusa, per la quale tutti, sino al giorno avanti in cui il
progressista pensa e (purtroppo) parla, erano dei cavernicoli. Pei progressisti
la storia è composta di grandi magagne e orridi sociali tecnici artistici
politici, che solo a partire dalla seconda metà del XVIII secolo e vieppiù nella
seconda metà del XX, sono stati colmati e spazzati via. Sicché anche solo
l’esistenza di una dentiera prima d’avantieri è letteralmente impensabile. Il
che significa anche ignoranza e poltronaggine.
Ma dietro a questo pregiudizio materiale, se ne staglia uno morale, che è la
seconda scaturigine della cialtronata in esame.
Una ‘testa di carattere’ di Franz Xaver Messerschmidt (1736-1783)
Il tono dell’articolo in fatti (che peraltro consuona, per la mia esperienza,
con numerose chiacchierate avute con svariate persone, non necessariamente
progressiste, segno che il lavaggio del cervello e la tassidermia cranica sono
efficaci e democratici), il tono dell’articolo mostra stizza e contrarietà per
quella schiera di facce serie e compunte. Che noia, che tristezza, mai un
sorriso, e ridete una volta ogni tanto!, sembra di udire. È l’andazzo odierno,
uno dei segni più eloquenti e agghiaccianti dello spirito del nostro miserabile
tempo. Ridere più che sorridere e, ancor meglio, sghignazzare, magari con le
fauci spalancate, è segno di vitalità, di gioia, ci aiuta a dimenticare che la
vita è cosa seria.Guardate le fotografie sugli apparecchi telefonici, sui
“social”, guardatevi d’attorno, al lavoro, in famiglia, sul treno: quasi mai si
vedono facce serie, in ispecie se sono adunati due o più individui. Tutti (e
tutte) squadernano la chiostra e più volentieri ancòra divaricano le mascelle
(non di rado mostrando qualche otturazione…). Ed è in questi casi che costoro, e
non i nostri antenati, dimostrano di essere più prossimi ai nostri (del tutto
presunti) progenitori scimmie.
Se oggi solo provi a farti scattare una fotografia restando più o meno serio, il
Cartier-Bresson di turno – un amico, un collega – ti rintuzzano: «Uh, ma come
sei seriooo…! Non siamo mica a un funeraleee… Ridi un po’!». A me è capitato
anche durante la breve seduta dal fotografo per la carta di identità. Cosa
accidenti poi ci fosse da ridere per uno che di lì a poco si sarebbe infilato in
un ufficio pubblico, ignoro.
Oggidì la risata, sopra tutto se a sproposito e ostentata, è un segnacolo di
riconoscimento obbligatorio, come la targa dell’autovettura, come il tatuaggio,
altro emblema, quest’ultimo, della mutazione antropologica in atto.
Vi racconto questa.
Non molto tempo fa sostavo per una pausa sul portone d’una grande biblioteca.
A un metro dietro le mie spalle c’era un quartetto di donne tra i trenta e i
cinquant’anni, ben conciate e del tutto sobrie, intente a discutere di questioni
ordinarie, figli famiglia vacanze lavoro, quindi nulla che potesse suscitare
risate, men che meno di quelle a cui per venti minuti abbondanti volli assistere
con discrezione.
«Com’è andata al mare?»: giù risate di tutte.
«E tu col bambino? È guarito?»: altre risate.
«Sì sì, per fortuna»: risate.
«Massì, dài, insomma», eh eh eh ah ah ah.
Era tuttavia ammirevole che quelle donne riescissero a ridere anche mentre
“articolavano” le parole, che in effetto talvolta mi diventavano oscure. Avrò
limiti, ma quando rido della grossa (lo faccio, tranquilli, lo faccio) mi è
impossibile parlare, e viceversa.
Temo però che quelle risa, come moltissime altre, oltreché fuor di luogo e
inutili, e anche moleste, siano di natura isterica. E certi contenuti del
“dialogo” al quale assistetti me lo confermano. Una risata sincera è suscitata
da una scena o da un motto di spirito e si manifesta in tutt’altro modo. Durante
quei lunghi ma istruttivi minuti mi venne alla mente, come ogni volta che mi
imbatto in scene analoghe, un frammento dei Griffin, il cartone animato famoso,
con protagonista un gruppo di donne al ristorante intente a ordinare un dolce.
Non anticipo alcunché; ma vi assicuro che avrete la rappresentazione plastica
della scena della quale fui abusivo spettatore. E se persino Seth MacFarlane e i
suoi impietosi (e talora diabolici) collaboratori, progressisti spinti, quindi
non tacciabili di bigottismo, si sono sentiti in dovere di isolare
la mostruosità di certi contegni, occorre che gli altri progressisti – e non –
svolgano una seria riflessione su loro stessi e sul mondo in cui viviamo e che
hanno contribuito a forgiare.
Tornando ai nostri avi, la ragione in forza della quale essi si facevano
ritrarre perlopiù serii e in pose composte era una soltanto, indipendentemente
dal soggetto: dare e tramandare di sé e magari della loro categoria e del loro
ceto sociale, qualunque fosse, un’imagine decorosa esemplare e persino
nobile, sopra tutto se ricoprivano ruoli, pubblici o privati, dai quali
dipendevano e ai quali riguardavano magari migliaia o milioni di persone.
Ma di più: non solo volevano essere serii, ma lo erano, non si sforzavano di
esserlo per il tempo della seduta davanti alla macchina fotografica per poi
scomporsi una volta lontani.
A conferma e rafforzamento di questa verità basterà guardare libri fotografici o
documentarii dagli anni Quaranta ai Settanta del secolo scòrso con qualsiasi
persona a protagonista. Vedrete sùbito l’abissale e irriducibile divergenza di
contegno dall’oggi.
Ciò però non significa che un tempo non sapessero ridere anche le persone i cui
volti ci sono arrivati composti. Si pensi a Hegel, i cui ritratti possono essere
l’incarnazione della severità e della compostezza. Ma basta leggere una
paginetta dalla biografia del filosofo scritta dall’allievo e amico Karl
Rosenkranz per apprendere che il grande pensatore di Stoccarda sapeva anche
ridere di gusto. L’ultima volta fu davanti a una locanda in cui si era
intrattenuto con alcuni amici, che testimoniano della giovialità del filosofo,
il quale peraltro di lì a pochissimo tempo sarebbe morto, pare assai
serenamente, a causa del colera che aveva colpita Berlino.
Ma chissà che cosa direbbero certi partigiani della risata se sapessero che, in
tanti anni di assidua frequentazione, un suo amico ha veduto sorridere Coetzee
soltanto in un’occasione.
Beninteso: non sto tessendo un elogio della mutria. Ma si converrà che una
persona normale (sì, ho detto normale: e quindi?) si senta più al sicuro davanti
a qualcuno di composto che non a una “iena ridens”. Mi domando di poi, guardando
tutte quelle bocche spalancate e sentendo tutti gli inviti a «ridere un po’»,
quale valore rappresenti di per sé ridere, in quella maniera sguaiata e
berciante poi, che cosa aggiunga a un individuo.
Non è affascinante e rassicurante il sorriso della Gioconda o dell’Auriga di
Delfi? E forse non gli è che sommi artisti – un Bosch, un Kranak – hanno
castigata la sguaiataggine? Ricordiamoci poi l’imbarazzo (penso ancòra a
Schopenhauer) dinanzi alla bocca del Laocoonte, che sembra, anziché gridare,
nemmen ridere ma solo sbadigliare.
Se poi vogliamo “buttarla in religione” ecco san Tommaso d’Aquino, che annovera
il risus superfluus addirittura tra i peccati, benché veniali:
> «Talora invece la volontà del peccatore si volge verso cose che contengono in se stesse un certo disordine, senza però opporsi all’amore di Dio e del prossimo: tali sono le parole oziose, le risate smodate [risus superfluus] e altre cose simili. E questi peccati sono veniali nel loro genere».
>
> (Somma teologica, I-II, 88, 2)
Tuttavia non si commetta l’errore di leggere la parola «peccato» in senso
moralistico, come purtroppo molto spesso, se non quasi sempre, anche gli stessi
cristiani inclinano. «Peccato» in greco antico – che è la lingua ufficiale degli
Evangeli – è «amartía», letteralmente «mancare il bersaglio, andar fuori
strada», che può essere inteso anche in modo estensivo. E in effetto, se ci
pensiamo, quando ridiamo in modo eccessivo è come se escissimo da noi stessi, e
così quando straparliamo sospinti da un eccesso emotivo dicendo fesserie o
parole che possono nuocere ad altrui ovvero ritorcersi contro di noi: anche
Schopenhauer, non certo un partigiano del cristianesimo, raccomanda di contenere
le parole affine di non incorrere in qualche guaio. Ricordiamoci che «non ciò
che entra nella bocca contamina l’uomo; ma è ciò che esce dalla bocca, che
contamina l’uomo» (Mt 15,11).
Le Scritture sono molto eloquenti.
Forse che Sara non rise quando udì che avrebbe avuto un figlio nonostante
l’avanzata età (Gn 18,12)? Risero anche di Gesù quando questi disse che la
figlia di Iairo «non è morta, ma dorme» (Lc 8,52). E forse i soldati romani non
irridono Gesù? Ma «guai a voi che ora ridete, perché farete cordoglio e
piangerete» (Lu 6,25), e perché «io ho detto del riso: “È una follia”» (Ec 2,2).
Contemplando quelle schiere di bocche scontorte, gli elogi della sguaiataggine,
gli stimoli a ridere ridere ridere, mi vien da pensare al Batman di Tim Burton,
quando Jocker, interpretato da Jack Nicholson, sbuffa nell’aria di Gotham City
un gas verdognolo che stermina la popolazione e la irrigidisce in un ghigno
simile al suo, derivatogli dal bagno in una vasca di acido e dalle manovre
imperìte d’un chirurgo clandestino.
Un ghigno, quello di quei morti, che è l’antifrasi dell’animo di Jocker e dei
tristi cittadini, morti prima di morire, di quell’oscura città: «Anche ridendo,
il cuore può essere triste» (Pr 14,13).
Gli abitanti di Gotham City erano condannati a ridere. Proprio come voi.
Luca Bistolfi
*In copertina: Conrad Veidt in “L’uomo che ride”, 1928
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